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Yell - Faces - Dreams - Mary and the fairy - Beggar Town - Based On Lies - Stay Alive! - Spirits - Freak Show - Moving - Crime Stories - Ruby Shade - A Better Place - Pictures


Yell
CD: "Yell" (2022)


MESCALINA
Deve esserci un segreto nella mirabolante evoluzione dei Cheap Wine che, con questo nuovo album, YELL (Grida), in uscita il 3 ottobre, una data evidentemente simbolica per la band, che già altri dischi aveva fatto uscire proprio in questo giorno.
E forse sono riuscito a comprenderlo proprio nei giorni in cui ho ripassato a fondo la loro discografia per preparare uno speciale per ADMR Rock Web Radio di 4 ore, in onda domenica 2 Ottobre, a loro dedicato.
"Io suono per passione, non per mestiere o perchè spero, o abbia mai pensato, di poter diventare una star" Ecco il segreto è questo, e risiede nelle parole che Marco Diamantini mi ha detto nel corso di una chiacchierata fatta recentemente. 

Non potrebbe spiegarsi in maniera diversa la costante evoluzione complessiva di una band che non mostra segno alcuno di cedimento alla stanchezza o all'usura del tempo che, di certo, poco galantuomo è stato nei confronti di questio ragazzi. Perchè chi scrive pensa che avrebbero potuto diventare anche delle star, ma non certo in questo paese che ha una cultura (??) musicale che viaggia su altre direttive. 
YELL è un disco sorprendente per la bellezza delle canzoni che allargano l'orizzonte musicale della band, segnandone una maturità ed una caratura che colpisce.

YELL è un album compatto, ma stordente nel suo turbinoso incedere, con pezzi che lasciano il segno come il trittico finale che vede scorrere in sequenza The Devil Is Me,  Colors (devastante e assassina), e l'allmaniana The Last Man On The Planet, con un Michele Diamantinisemplicemente strabiliante,mentre Alessio Raffaelliirretisce l'ascoltatore con le note di un hammond che ci proietta in altri tempi, e la micidiale rhythm section saldamente nelle mani di gente come Alan Giannini (batteria) e Andrea Giaro (basso), detta i tempi senza fare sconti ne concessioni, consegnandoci, a mio avviso una vera e propria signature songs. E poi come non notare la voce di Marco che si abbandona a toni dolci, quasi fiabeschi in certi momenti. 

Ed i segnali che questo sarebbe stato un grande disco arrivano fin dall'inizio quando Greedy For Life, e, sopratutto nella fantastica calvalcata di No Longer Slave che avrebbe potuto durare per non so quanto. La title track è un pezzo che avrebbe potuto uscire dal songbook di Tom Petty. La senti è non te la levi più dalla mente. Un pezzo grandioso e bellissimo.Your Fool's Gold immerge in atmosfere quasi folk/psichedeliche. Sun Rays Like Magic, torna dalle parti di Petty (che proprio cinque anni fa ci lasciava)  e dei meravigliosi Heartbreakers, specie quando il pezzo arriva alla parte centrale. 

The Scent Of A Flower potrebbe essere stata una canzone di Dreams, lenta, quasi ciondolante ma semplicemente deliziosa da ascoltarsi con quel drumming essenziale e la chitarra che si poggia sulle tastiere. Floating è lunga, lenta dall'incedere avvolgente, prepara il terreno all'incendio finale. Registrato come da tradizione allo Studio Castriota di Marzocca in provincia di Ancona, prodotto dai Cheap Wine as usual, con la copertina opera di Alessandro Baronciani, YELL si candida ad essere una delle vette in ambito Rock, e non solo della musica italiana. 

Consigliatissimo!!

[ Marcello Matranga – MESCALINA ]











ROOTS HIGHWAY
Scegliere la propria strada, senza guardarsi indietro, riprendersi il giusto tempo, senza inseguire le sirene di una società che ci vorrebbe programmati in tutt’altro modo. C’è un filo rosso, evidente nei testi ma anche nella storia stessa della band, che lega l’intera opera dei Cheap Wine e più in particolare quella sviluppata negli ultimi anni. Un periodo duro da attraversare per il gruppo pesarese, pandemia e di conseguenza tour cancellati, a maggior ragione per la loro orgogliosa indipendenza (anche questo disco nasce dal ricorso al crowfunding) e quel restare fuori dai giochi e fedeli alla linea tracciata ormai molte stagioni fa.

YELL
, urlo positivo anche nei colori e nei tratti grafici scelti per la copertina (curata da Alessandro Baronciani), è un grido liberatorio e al tempo stesso una accettazione/ consapevolezza della propria condizione di outsider nel panorama rock italiano, che in fondo ai Cheap Wine è sempre andato stretto, meglio, è sempre sembrato avulso. Loro scendono in un altro campo, quello che è diventato merce rara anche se si alza lo sguardo fuori dai nostri confini, un modo di intendere e interpretare il rock’n’roll che ha pochi riscontri persino a livello internazionale. Per questo dovremmo andare fieri di avere in casa un gruppo così “ostinato”, venticinque anni di carriera, una quindicina circa di dischi fra album di studio e dal vivo che confermano la tenuta della band, cambi di formazione compresi. Restano i punti fermi, le canzoni di Marco Diamantini, che non hanno la velleità di scrivere romanzi in musica, eppure afferrano una profondità rara in una rock band, e naturalmente le chitarre del fratello Michele, classiche e trascinanti dal primo istante.

YELL mette a frutto entrambe le caratteristiche, aggiunge e conferma l’apporto essenziale dei colori delle tastiere di Alessio Raffaelli (la formazione è completata da Alan Giannini alla batteria e Andrea Giaro al basso) e si incammina nella direzione di uno dei lavori più coerenti e maturi della loro discografia. Sorprendente, a giudicare dalla lunga militanza, quando altre band avrebbero già cominciato a “sopravvivere”: qui invece sembrano riemergere a tratti i Cheap Wine più spiritati dei tempi di RUBY SHADE e CRIME STORIES (per chi vi scrive tra i momenti più alti della loro produzione), per esempio nella partenza a razzo di Greedy For Life, rock’n’roll classico che assimila in un sol colpo certe pulsioni garage degli Heartbreakers di Tom Petty e il tiro punk rock dei Social Distortion. La scelta di campo ancora una volta è netta e i Cheap Wine tengono alta la tensione anche in No Longer Slave, dove l’organo di Raffaelli concede quel tocco sixties al suono stradaiolo della band. Il trittico si chiude idealmente con la stessa Yell, riff e giri armonici che riconosciamo all’istante, ma che nelle mani giuste non appaiono affatto scontati, la differenza la fa sempre l’attitudine e la storia stessa di un gruppo.

E poi i Cheap Wine sanno come e quando dosare le forze, abbassare le luci, cercare una ballata elettrica che abbia quel passo epico e sognante nel medesimo tempo (Your Fool’s Gold), inseguendo una dolce melodia rarefatta (The Scent of a Flower) e addirittura gli accenti accattivanti, verrebbe da dire pop (ma il rock e la strada sono sempre all’orizzonte) di una scintillante Sun Rays Like Magic. Tutta la parte centrale di YELL è incentrata su questo mood, una ripresa e maturazione di quanto i Cheap Wine avevano già sperimentato nei toni più bluastri di certi loro album recenti, con una leggera nota di nostalgia adulta che si fa largo nel canto intimo di Floating, brano con una notevole apertura melodica del ritornello, che dà respiro e delicatezza all’insieme.

Anche la chitarra di Michele Diamantinisembra volersi librare ma adeguandosi al tono di queste ballate, senza mai eccedere. Tanto il tempo del rock’n’roll ritornerà comunque, deciso ad azzannare, nascosto dietro l’angolo: The Devil is Me, tra gli episodi più trascinanti e riconoscibili di YELL, pronta per essere servita dal vivo, è l’essenza estratta dal Neil Young di Like a Hurricane, mentre Colors riprende quel galoppante intreccio di acido garage e rock da strada meastra nel quale tastiere e chitarra si riconoscono a vicenda.
E questo velo di classiche tonalità sixties, che pare avvolgere YELL e così accentuare la sua richiesta di sogni e liberazione dalle gabbie del nostro tempo, trova la sua conclusione più naturale in quella sorta di testamento che è The Last Man on the Planet, ballata dai morbidi andamenti jammati, con una chitarra più free, che aggancia vagamente il treno degli Allman Brothers/ Grateful Dead, in una perfetta dichiarazione di appartenenza a un unico grande romanzo rock.

[ Fabio Cerbone – ROOTS HIGHWAY ]













BUSCADERO
?Torna la band dei fratelli Marco e Michele Diamantini dopo la tetralogia formata da BASED ON LIES, BEGGAR TOWN, DREAMS e FACES, quattro ottimi album che erano il prodotto di una band adulta, matura e sicura dei suoi mezzi anche se piuttosto cupi sia nelle tematiche che nelle scelte musicali.
Paradossalmente, oggi che stiamo vivendo uno dei periodi più bui della nostra esistenza (fra pandemie, una guerra assurda ed una possibile crisi energetica alle porte), i Cheap Wine hanno reagito in maniera diametralmente opposta pubblicando uno degli album più diretti ed immediati della loro discografia, ancora grazie all’aiuto del crowdfunding.

Yell è infatti un lavoro decisamente più ottimista ed aperto dei precedenti, proprio perchè questo non è il momento di abbattersi ulteriormente, ma bensì di reagire con forza e di urlare al mondo che noi non molliamo, ed oltre a testi e titoli più positivi del solito (The Scent Of A Flower, Greedy For Life, Sun Rays Like Magic, No Longer Slave) il quintetto pesarese propone una musica molto più diretta di quella degli ultimi anni, con la chitarra di Michele protagonista più che mai ed una produzione volutamente “sporca”.
Un disco di puro ed urgente rock’n’roll, tra i più godibili e trascinanti dei nostri (oltre ai due brothers, Andrea Giaro al basso, Alan Giannini alla batteria e Alessio Raffaelli alle tastiere), che tra l’altro celebrano proprio nel 2022 i loro 25 anni di sforzi discografici sempre e coerentemente indipendenti.
Un breve cenno al bel disegno di copertina, ad opera dell’artista Alessandro Baronciani, pure lui di Pesaro ed amico della band.

Il CD parte a spron battuto con Greedy For Life, introdotta da un riff chitarristico potentissimo subito doppiato dall’hammond: rock’n’roll puro e semplice diretto come un pugno in faccia, con Marco che canta con voce spiegata, un ritornello immediato ed il primo di molti assoli pirotecnici di Michele.
No Longer Slave inizia allo stesso modo ma il ritmo è più sostenuto ed anche l’approccio vocale è più aggressivo, e se posso dirlo è la cosa più vicina al punk mai uscita da un disco dei Cheap Wine.
Irresistibile la title track con il suo attacco alla Stones, un altro interplay vincente tra chitarra ed organo ed un refrain perfetto (per non parlare della prestazione di Michele, il quale si conferma un chitarrista con un manico veramente notevole): ma chi fa oggi del rock a questo livello in Italia?
Con Your Fool’s Gold abbiamo la prima ballata, ma i suoni sono sempre vigorosi e la chitarra arrota volentieri: se aggiungete un crescendo di alto impatto emotivo ci troviamo di fronte ad uno degli episodi migliori del lavoro (ho subito pensato ai brani lenti dei Georgia Satellites), rock con R maiuscola.
Sun Rays Like Magic ci fa tornare su ritmi alti e chitarre al vento ed il brano stesso è tra i più fulminanti ed orecchiabili del lotto.
The Scent Of A Flower è introdotta da un piano elettrico e si rivela una delle rare oasi di YELL, quasi una ninna nanna rock impeccabile sia musicalmente che nello script, ed anche con Floating siamo in modalità ballata, un pezzo intenso, crepuscolare, elettroacustico e dal marcato feeling.
The Devil Is Me fa ricominciare lo sballo elettrico, ennesima potente (anche nel testo) rock’n’roll song che definire coinvolgente è dir poco (siamo dalle parti dei Dream Syndicate meno sperimentali), e precede le conclusive Colors, ancora punkeggiante e riffatissima, con un assolo da applausi, e con The Last Man On The Planet, atmosferica ed avvolgente.

YELL è un disco che bisognerebbe far sentire a tutti quelli che pensano che i depositari del rock italiano siano i Maneskin, ed aggiungo che mi piacerebbe che il prossimo album dei Cheap Wine fosse dal vivo, in quanto considero le canzoni di quest’ultima fatica del gruppo perfette da suonare on stage.

[ Marco Verdi – BUSCADERO ]















FREAK OUT
Prendendo in prestito il titolo di un album del sommo poeta della musica italiana, Fabrizio De André, da venticinque anni i Cheap Wine viaggiano “in direzione ostinata e contraria” rispetto alla maggior parte di tutto quello che il rock, o presunto tale, produce in Italia dove il merito è troppo spesso soggiogato dalla vacuità dell’apparenza.

I loro bellissimi dischi sono lì a testimoniare che essere liberi e fieramente indipendenti, scrivendo musica e parole di alto spessore, seguendo con estremo rigore un credo indissolubile, alla fine paga sempre, se non in termini di fama e lauti guadagni quantomeno con l’amore incondizionato che riserva loro, chi ha saputo riconoscere un talento prezioso da coltivare e supportare in ogni occasione: che si tratti di aderire con entusiasmo al crowdfunding per sostenere l’uscita di un nuovo disco, oppure affollare i concerti dove la band dei fratelli Diamantini si esibisce.

A tre anni di distanza dall’ultimo lavoro in studio “Faces” anche il nuovo disco “Yell” conferma che la migliore rock band italiana, continua ad essere il faro che conduce al porto sicuro di chi nella musica cerca sostanza, autenticità, spunti di riflessione, ma anche la gioia di cantare le canzoni a squarciagola, come suggerisce il titolo dell’album.

Anticipati dalla coloratissima copertina disegnata da Alessandro Baronciani i temi dell’album segnano un decisivo ritorno a guardare in positivo verso un futuro che non sembra certo radioso, ma in cui occorre riappropriarsi del proprio tempo e gestirlo a proprio uso e consumo.

Per fare questo Marco Diamantini continua a scrivere testi eccellenti che toccano ancora una volta uno dei suoi temi preferiti: quello del movimento, inteso non solo come andare da un luogo all’altro, magari in cerca di una via di fuga, ma soprattutto come segno distintivo di ribellione verso quell’omologazione cui la società di oggi cerca di spingerci.

Registrato come di consueto negli studi Alessandro Castriota a Marzocca (AN), “Yell” è ricco di sfumature sonore dove le chitarre di Michele Diamantini sono assolute protagoniste, senza essere mai invadenti perché non hanno bisogno di mettere in mostra l’ego di un virtuoso delle sei corde, e sono supportate a dovere dalla granitica sezione ritmica composta da Alan Giannini (batteria) e Andrea Giaro (basso), mentre le tastiere di Alessio Raffaelli fanno da contraltare evocativo in ogni brano.

Le dieci nuove canzoni che compongono “Yell” ripetono lo schema classico di ogni album dei Cheap Wine con il brano d’apertura “Greedy For Life” che rappresenta una dichiarazione d’intenti su quello che seguirà, ed un brano conclusivo più d’atmosfera che serve a smorzare la salvifica tensione di cui si nutre ogni buon disco rock.

La differenza come al solito la fanno le canzoni che in questo caso rappresentano un altro tassello evolutivo nella carriera di un gruppo che non ha bisogno d’inventare o percorrere strade diverse dalla propria cifra stilistica, per continuare a suonare autenticamente diverse da quelle che le hanno precedute.

Ecco allora che il singolo “No Longer Slave” è un brano di grande impatto con il suo ritornello assolutamente irresistibile da beautiful loser, mentre la title track omaggia Bob Dylan nel testo, invitando l’ascoltatore a cercare una via di fuga tornando dare centralità alle proprie idee e ai propri desideri.

Come sempre le ballate mettono in evidenza non solo la bravura dei musicisti ma anche la qualità del songwriting. In “Your Fool’s Gold” il protagonista si rende conto dell’inganno in cui è caduto e parla alla sua anima invitandola a volare perché “La luce del sole è più potente di un buco nero” mentre le chitarre duellano con le tastiere in un crescendo di estrema efficacia.

The Scent Of A Flower” ha i toni più tenui e mette in risalto come il cantato di Marco Diamantini abbia raggiunto una maturità assoluta.

Floating” è uno dei vertici assoluti del disco e probabilmente una delle più belle canzoni dei Cheap Wine, parla di riscatto e di come dedicandosi al proprio tempo e valorizzandolo in ogni aspetto, serva per affrontare il futuro lasciandosi alle spalle i propri demoni, e guardando avanti verso una strada piena di luce.

In mezzo a questi tre brani si trova “Sun Rays Is Magic” un brano pop rock nell’accezione migliore del termine che potrebbe spopolare nelle radio ce non fosse che siamo in Italia, dove il panorama radiofonico è purtroppo estremamente desolante. Il disco si chiude con un altro trittico di canzoni particolarmente riuscito.

Dopo le atmosfere di “Floating” irrompe con tutta la sua potenza “The Devil Is Me” che possiamo prevedere diventi ben presto un classico dei Cheap Wine, con la sua ritmica serrata, le tastiere avvolgenti e le chitarre che ruggiscono per sottolineare la storia raccontata dal protagonista che come sempre si trova inadeguato nel mondo che lo circonda ed incontra strani personaggi che voglio mettere in evidenza come l’indipendenza di pensiero ed azioni siano atteggiamenti perdenti, per questo loro lo vedono come il diavolo, oppure come un cigno che diventa corvo.

Colors” è una cavalcata elettrica con la sua visione della lotta tra il bene ed il male, dove c’è solo da scegliere, ma sempre un prezzo da pagare. “Yell” si chiude con “The Last Man On The Planet” ballata avvolgente costruita su di un ripetuto loop di chitarra acustica sui quale i musicisti ricamano ciascuno la propria parte in modo sa sembrare un mix di assoli ben amalgamati, con il duello tra la chitarra di Michele Diamantini e le tastiere di Alessio Raffaelli a creare atmosfere psichedeliche, mentre Andrea Giaro ricama delicate linee di basso e Alan Giannini lega il tutto con un delicato pattern di batteria.

YELL, quattordicesimo album dei Cheap Wine, conferma la solidità di un gruppo che continua il suo percorso artistico “in direzione ostinata e contraria” mantenendo fede all’idea che ha dato origine alla band nel lontano 1997: inseguire i propri sogni suonando la musica che si ama, incuranti delle mode che passano e non scendendo mai a compromessi solo per vendere qualche copia in più, perché come loro amano dire “Rock’n’Roll Is A State Of Mind”.


[ Eliseno Sposato – FREAK OUT ]



















LOUDD
È uscito il nuovo disco dei Cheap Wine e già questo dovrebbe aiutarci ad essere un pochino più ottimisti sul fatto che il mondo non sia per forza di cose destinato a collassare su se stesso, nonostante siamo tutti d’accordo che la musica sia ben poca cosa di fronte alle grandi sfide che stiamo affrontando. 

Eppure quando guardi i Cheap Wine capisci che si possono ancora seguire i propri sogni, che nella vita si può ancora andare avanti privilegiando quel che si ama, che si può vivere esattamente come si vorrebbe, nonostante tutte le difficoltà del caso.

E poi è in qualche modo confortante il fatto che, qualunque cosa succeda, ogni due, tre anni o giù di lì, arriveranno questi pesaresi a darci nuova musica per arricchire le nostre giornate. 

YELL è il loro undicesimo disco, il primo dalla pandemia, il quinto ad uscire in ottobre, il terzo realizzato tramite crowdfunding. Che siano un gruppo che ama lavorare secondo un certo schema, e che non intende cambiarlo finché funziona, lo si vede anche dal fatto che, esattamente come tutti gli altri, anche questo lo hanno registrato allo Studio Castriota di Marzocca, in provincia di Ancona, con Alessandro Castriota nell'insostituibile ruolo di ingegnere del suono e co produttore. 

E questo credo sia davvero un caso unico nella storia del rock: avete in mente molte altre band (a parte i Beatles) che hanno registrato per tutta la propria carriera nello stesso posto e con le stesse persone? E di nuovo, si potrebbe obiettare che variare la formula una volta tanto potrebbe portare dei benefici, ma poi se si ascolta quanto suonano bene questi lavori, quanto siano potenti e ben definiti i suoni, quanto sia presente la componente live, nonostante i dovuti accorgimenti di produzione, allora ce lo possiamo veramente dire: perché cambiare? 

La pandemia ha colpito duramente il gruppo, i concerti che era solito tenere da un capo all'altro dell’Italia non sono stati possibili, complici anche le chiusure di tantissimi locali che in passato erano stati per loro come una seconda casa. 

YELL nasce da qui e parla di riscatto e di voglia di ripartire, in ogni sua nota e in ogni suo elemento. La copertina (questa sì, è una novità) è di Alessandro Baronciani ed il suo tratto inconfondibile è al servizio di un soggetto essenziale, una semplice figura umana a braccia alzate ed espressione felice in volto, un urlo molto più di gioia che di rabbia; il tutto in campo arancione, colore vivace che contrasta in modo piuttosto netto con la cover del precedente Faces, molto più fredda e solenne, in un certo senso. 

Ovviamente non si giudica un disco dalla copertina ma in questo caso il legame c’è: YELL è un disco che parla di liberazione, della voglia di riprendersi la vita dopo un periodo di paura, di ritrovare il ritmo della natura per sfuggire all'accelerazione spersonalizzante della modernità, di rimanere fedeli al proprio credo, al proprio cuore, anche quando il mondo ti chiede di mentire e di essere parte di un ingranaggio implacabilmente utilitaristico. Che sono poi i temi che Marco Diamantini ha trattato in tutti i dischi della sua band, anche se le particolari circostanze in cui è nato quest’ultimo hanno senza dubbio lasciato il segno più di altre volte.

Anche dal punto di vista musicale la ricetta è sempre la stessa. I Cheap Wine appartengono ad un altro tempo e ad un'altra storia, suonano come se fossero negli Stati Uniti e come se artisti come Neil Young e Bob Dylan fossero ancora la next big thing della scena musicale. Indifferenti a tempi e mode, hanno sempre fatto quello che amano fare, scrivendo musica che parla sia il linguaggio del rock classico sia quello della psichedelia in salsa Paisley Underground (anche se quest’ultimo aspetto negli ultimi lavori è stato progressivamente accantonato) e se pure hanno caratterizzato i loro album più recenti con alcuni tratti distintivi (Beggar Town cupo ed oppressivo laddove Dreams era un'esplosione di colori, Faces ruvido e a tratti spigoloso, Based on Lies molto accessibile e diretto) la formula è rimasta immutata, il riff imperioso che esce dalla chitarra di Michele Diamantini in apertura a “Greedy For Life”, immediatamente sostenuto dalle tastiere di Alessio Raffaelli, equivalgono ad una firma su un documento. 

A questo giro smussano le asperità e realizzano dieci canzoni lineari e di grande impatto, dove la rabbia per una volta scompare e lascia il posto a piacevoli aperture melodiche. Non è un disco spensierato, però, e allo stesso tempo non è un disco cupo. Lo definirei semplicemente “assertivo”: è fatto di canzoni che usano il rock per dire una verità banale ma che è sempre giusto ribadire: vivere è bello, anche se per farlo spesso occorre lottare duramente. 

E quindi via con i soliti robusti mid tempo, come la già citata “Greedy For Life”, oppure la title track, che contiene un paio di riferimenti neanche troppo velati a Bob Dylan nel testo e che a livello di atmosfere si muove dalle parti di Crime Stories. Un ottimo brano, uno dei migliori del lotto, senza dubbio.
Poi ci sono cose più accelerate, brani dove si batte il tempo e si oscilla la testa: “No Longer Slave”, che è anche il primo singolo estratto e che è Cheap Wine all’ennesima potenza; oppure “The Devil Is Me”, altro brano da manuale (questa avrebbe potuto stare benissimo su Based on Lies) o ancora “Sun Rays Like Magic”, che è una delle più dirette e allegre, un bel pezzo di speranza, con un ritornello decisamente vincente. 

E non sarebbe un disco dei Cheap Wine se non ci fossero le ballate: “Your Fool's Gold”, con ottimi inserti di elettrica nelle strofe e con un solo molto ispirato; “The Scent of a Flower”, molto dolce, anche questa particolarmente ispirata; e poi “Floating”, dal ritmo cullante come da titolo, che è semplicemente una delle canzoni migliori della loro carriera. 

In chiusura ci sono entrambe le facce di questo lavoro: prima “Colors”, veloce e aggressiva, poi “The Last Man on the Planet”, lenta e solenne, con tanto di lunghi soli di chitarra e tastiera in coda. 

Fuori tempo e fuori moda, loro stessi dicono che a rigor di logica non dovrebbero esistere. Eppure sono ancora qui: speriamo davvero che ci rimangano per molto.

[ Luca Franceschini – LOUDD ]













BLOW UP
Ammesso che ciò accadrà, se i Cheap Wine pubblicheranno un disco non all'altezza della loro storia saranno in parecchi a rimanerci malissimo.
Nessuno degli album messi in fila in una vicenda avviata seriamente oltre un quarto di secolo fa, e che ha dato alla band di Pesaro una solida fama nel giro del "classic rock" italiano, può infatti dirsi non riuscito, e questo undicesimo capitolo di studio non fa eccezione alla regola.
Tra brani vigorosi e ballate avvolgenti all'insegna dell'elettricità, brillantemente giocati sulle chitarre (con eventuali inserti di tastiere) e infiammati dalla passione, il gruppo ha estratto dal cilindro altre dieci canzoni dal sapore americano sospese da qualche parte tra la West Coast dei '70 e il Paisley Underground.
Non ci ci stupisce per la forma stlistica, certo non nuova, ma per la continuità dell'ispirazione e della verve degli eterni ragazzi senza dubbio sì.

[ Federico Guglielmi – BLOW UP ]












AUDIO REVIEW
Fossero nati negli USA piuttosto che in Italia (che so? a Tucson e dico una città non a caso, invece che a Pesaro) i Cheap Wine, suonando esattamente la musica che suonano da un quarto di secolo (cade giusto quest'anno il venticinquennale del mini d'esordio; unico articolo di un folto catalogo uscito per un'etichetta discografica, sebbene minuscola, e non autoprodotto) probabilmente ne ricaverebbero di che viverci.
Solo che, per riuscirci, oltre che esibirsi parecchio dal vivo dovrebbero farlo per lo più in Europa. Perchè suonando la musica che suonano, nemmeno negli Stati Uniti sarebbero profeti in patria (come non lo sono, e dico due nomi non a caso, Dream Syndicate e Giant Sand). Che paradosso, eh?
Undicesimo lavoro in studio per il quintetto, YELL è il terzo di seguito finanziato da un crowedfunding e l'ultima pagina del libretto riporta i nomi di quanti, fidandosi, ne hanno permesso l'esistenza.
Fiducia ben riposta. D'altra parte, avendoci messo qualche anno e album per raggiungere una maturità di cui nel 2007 FREAK SHOW era il primo succoso frutto, il gruppo dei fratelli Diamantini (Marco firma i testi in un inglese impeccabile e anche diversi spartiti; chitarrista formidabile, Michele provvede al resto delle musiche) non ha da allora mai dato alle stampe nulla che valesse meno del voto in calce.
Chi conosce i Cheap Wine sa cosa attendersi.
Chi non li conosce può partire anche da qui per approcciare il sound in bilico fra college e roots-rock.
Mediamente ruvido ma a questo giro a imprimersi nella memoria sono due ballate molto Neil Young, Your Fool’s Gold e The Last Man On The Planet, il valzer The Scent Of A Flower, il malinconico folk elettrico Floating.
[ Eddy Cilìa– AUDIO REVIEW ]














VISIONI MUSICALI E LETTURE VISIONARIE
Ho (più volte) ascoltato questo cd fissando la finestra della mia camera.
Il paesaggio statico nelle pupille, quasi venticinque anni di vita nelle immagini rielaborate dalle tante emozioni vissute con la band pesarese.
Uno schermo trasparente in cui situazioni, volti e luoghi si sono mischiati ai suoni ed ai testi; come una sorta di viaggio musicale nella mia memoria.
Perché i Cheap Wine, a loro modo, hanno un ruolo di rilievo nel soundtrack della mia vita e di un disco come YELL sentivo ORA un gran bisogno.
Un tuffo nel (tra) passato (CRIME STORIES e FREAK SHOW, così lontani, così attuali) per riemergere nel presente, obliquo e soffocante, che ci circonda.
I suoni sono nitidi e taglienti come poche altre volte.
La voce di Marco (Diamantini), tra rabbia e sogno, il colpo secco di rullante di Alan (Giannini), la dose non omeopatica di adrenalina dei ficcanti "solo" di Michele (Diamantini), con Alessio (Raffaelli) che inanella ricami sui tasti ed il basso di Andrea (Giaro) a scandire il tempo.
Le buone abitudini ad alto volume, sicuramente mai perdute ma tirate a lucido per l'occasione.

Pronti, via ed è subito tripletta.
"Greedy for life", le occasioni sprecate ed un tempo che non può tornare,
"No longer slave" i muri che crollano, le sbarre che cadono, gli errori segnati sul volto a memoria di una "schiavitù" definitivamente abiurata.
"Yell" ed è monito, un urlo senza enfasi come ultimo filo di speranza a cui aggrapparsi... nel non guardarsi più indietro e nel prendere una decisione per la propria vita.
L'elettrica fissa brividi e ricordi ed invoglia a tornare sotto il palco, sudare rocchenroll ed inventare un singalong. Quello che nascerà grazie a "The Devil is me", inquietante inno alla vita trascorsa in quel cupo anfratto di ombre e tenebre che, a volte, è il prezzo da pagare al destino.
Poteva mancare un vero e proprio sabba elettrificato? Il rock teso e vibrante di "Colors" è la risposta; una ritmica forsennata, l'organo si insinua in ogni pertugio, le parole di Marco sono prese da una tavolozza in cui trovi solo sfumature di grigio mentre, all'improvviso, entra una sei corde a spina attaccata... Canzone con delirio incorporato.
Basterebbe questo magmatico pentagramma rock, inframezzato dalle pregevoli oasi "Dreams" style a nome "The scent of a flower" e "Floating", per mettere "Yell" sull'ideale podio di una carriera lunga cinque lustri.

Se possibile, però, i Cheap Wine calano settebello e asso pigliatutto.
Il primo è la conclusiva, onirica, sognante, floydiana "The last man on the planet"; le tastiere che dipingono l'atmosfera, l'elettrica a mettergli la cornice.
Il secondo è "Your fool's gold" e qui ammetto che il recensore diventa fan; LA canzone che attendevo da 18 anni, quando "City lights" lasciò segno indelebile nelle cuffie e nel mio cuore.
Sul mio viso, una lacrima per una velata malinconia e una per la rabbia che URLA la sua presenza nell'anima, after all these years.
Un disco dai testi che sono inni ai contrasti ma lineari, nella sua coerente bellezza.
Luce ed oscurità, verità e menzogne, muri e cieli aperti, ancora sogni, ancora urgenza.
Di urlare, di resistere, di ESSERE, fieramente ESSERE Cheap Wine perché "Rock'n'roll is a state of mind".
Once again! 

[ Fabio Baietti – VISIONI MUSICALI E LETTURE VISIONARIE ]









SOUNDS OF SOUTH

25 Jahre nach ihrer Gründung hat die italienische Formation Cheap Wine aus Pesaro mit dem Longplayer “Yell” ihr 14. Album vorgelegt und erneut auf die altbewährte Mischung aus Alternative-Country mit Southern-Einflüssen und Blues-Zutaten zurückgegriffen.

Die in der großen Hafenstadt an der Adria beheimatete Band hatte sich nach einem Song der kalifornischen Gruppe “Green On Red” benannt, deren Stilrichtung dem sogenannten Paisley Underground der 80er Jahre erfolgreich zugehörte. Die von Cheap Wine durchweg in Eigenregie eingespielten Titel der neuen Scheibe beginnen mit “Greedy For Life” und starken psychedelischen Guitar- und Keys-Interpretationen, die in ihren Ursprüngen vom Green On Red-Vorbild nicht weit entfernt sind.

Die rasante Rocknummer “No Longer Slave” mausert sich nach kurzem Intro zum fulminanten E-Solo-Abschluss; gitarrengetrieben entwickelt sich der Titelsong “Yell” zum großartigen Wüsten-Rocker – einfach hervorragendes Songwriting. Gleiches gilt für den urtümlichen Southern-Track “Your Fool’s Gold” mit exquisiter Guitar-Work (siehe Neil Young) und dem zwischen Ray Davies Americana und Tom Petty-Country-Rock-Flair entfaltenden Song “Sun Rays Like Magic”, ein Top-Titel.

Durch einen fast “leisen” Country/Folk-Charakter mit feinfühligen Riff-Strukturen imponiert “The Scent Of A Flower” als melodisch getragenes Stück, das z.B. auch gut zu den Jayhawks passen würde. Dass die beiden Gitarristen Marco und Michelle Diamantini ihr Handwerkszeug mehr als meisterlich beherrschen, wird auch bei “Floating” in sechseinhalb Minuten deutlich.

Diesmal in ruhiger, entspannter Song-Atmosphäre: eindeutig als Filmmusik geeignet! Die insgesamt immer wieder bärenstarke Mannschaftsleistung der Band, Alessandro Grazoli am Bass, Alan Giannini (Drums) und Alessio Raffaelli an den Keys, kann ebenfalls beim weiteren, absoluten Top-Stück “The Devil Is Me” grandios überzeugen – ein Titel angesiedelt zwischen den musikalischen Welten von The Feelies und War On Drugs.

Eine außergewöhnliche Vielseitigkeit von Cheap Wine, die in Live-Versionen Dylan und Springsteen ausgiebig interpretieren, lässt neben lautstarken, schnellen Rock-Kunststücken (hier z.B. “Colors”) abschließend gleichermaßen schönes Storytelling in “Last Man On The Planet” als langsam ausklingenden Abgesang beinahe zeitlos wirken.

Bereits 2015 war der damalige Dream Syndicate-Frontman, Steve Wynn, offensichtlich vom musikalischen Potential der Band derart beeindruckt, dass er mit Cheap Wine einen mitreißenden Konzertauftritt in Triest hinlegte – absolut nachvollziehbar. Unverständlich ist hingegen, dass bisher kein großes Label auf die Band von der Adria aufmerksam wurde, denn mit “Yell” ist Cheap Wine erneut eine besonders empfehlenswerte Produktion gelungen. Alles in allem eine wunderbare Scheibe, die internationale Vergleiche spielerisch aushält.

[ Stephan Skolarski – SOUNDS OF SOUTH ]












ROCK TIMES

Yell bedeutet Schrei! Ist das der Schrei nach Liebe?
Oder, passend zu dieser jetzigen ungewissen Zeit, der Schrei nach Frieden?
Ist es dieses Mal ein lauter Schrei?

"Yell" ist die mittlerweile 14. Albumveröffentlichung der Band. Wie ich bereits in meiner Rezension von November 2019 schrieb, verfolge ich deren Schaffen seit Spirits (2009) und somit auch die stilistischen Ausflüge von Rock, Blues Rock, Americana, Noir Rock bis hin zum Prog Rock.

Mit dem Einstieg des Keyboarders und Pianisten Alessio Raffaelli im Jahr 2012 wurde dessen Position mehr und mehr ausgebaut, so dass mir die Platten aus den Jahren 2015 (live) und 2017 stellenweise doch etwas zu keyboardlastig waren. Weniger ist eben manchmal mehr.
Dabei betone ich ausdrücklich, dass dies lediglich mein subjektives Empfinden war und deshalb in meinen Rezensionen auch nicht negativ angemerkt wurde.
Glücklicherweise (für mich) änderte sich das mit Erscheinen von "Faces", einer rockigen, aber sehr düsteren Scheibe.

Dennoch war ich sehr skeptisch, als mir "Yell" zur Rezension angeboten wurde, denn bekanntermaßen ist man bei Cheap Wine vor Überraschungen nie ganz sicher. Aber die Neugier überwog, zum Glück.
Überrascht war ich tatsächlich, als die Band mit "Greedy For Life" – einer fetten Rocknummer mit klasse Gitarrensolo-Einlagen – das Album schon mal amtlich eröffnete. Und ich hab 'Blut geleckt'!
Knackig geht es auch gleich weiter, denn "No Longer Slave" ist ebenfalls ein solider Rock-Song, bei dem man die Nackenmuskulatur ausgiebig beanspruchen kann, live sicherlich ein Knaller.

Das Titel-Stück nimmt sich einen Zacken zurück, wirkt eher unaufgeregt, groovt sich aber dennoch bestens in die Gehörgänge.
Was mich bis jetzt am meisten freut, ist die Tatsache, dass Alessio Raffaelli bei den Keyboard-Passagen sehr zurückhaltend agiert und die Stücke von seinem Spiel nicht völlig zugekleistert, sondern lediglich dezent untermalt werden. Sehr schön zu hören bei dem von mir favorisierten Ohrenschmeichler "Your Fool’s Gold". Passend dazu spielt Michele Diamantini noch ein hinreißendes Solo, das aber nichts mit selbstverliebter Frickelei zu tun hat, sondern songtauglich eingefügt wird.

Nach der knackigen Melodic Rock-Nummer "Sund Rays Like Magic" schiebt die Band gleich zwei weitere Balladen hinterher, nämlich "The Scent Of A Flower" und "Floting". Dennoch finden wir eine ausgefeilte Balance zwischen den langsameren und härteren Stücken auf der Platte. Cheap Wine befinden sich weder ausschließlich im Rock- noch Balladenmodus.
Auffallend ist ebenfalls, dass das Album nicht von dieser Düsternis beherrscht wird, wie das noch bei "Faces" der Fall war. Man hat eher das Gefühl, Licht am Ende des Tunnels zu sehen.

Sowohl das wuchtig nach vorn treibende "The Devils Is Me" als auch das Garage Rock-artige "Colors" erinnern mich stellenweise an die Alternative-Rocker Manic Street Preachers, wecken aber auch einige Assoziationen an die Sand Rubies. Beide Stücke grooven herrlich dahin und heben die Laune beträchtlich.

Hab ich eigentlich schon erwähnt, dass Marco Diamantini eine wunderschöne und sehr wandelbare Stimme mit hohem Wiedererkennungswert hat? Falls ja, man möge es mir verzeihen, aber hier wiederhole ich mich doch gern, denn ein Lob für einen Vocalisten mit solch facettenreichen Stimmbändern kann man nicht oft genug aussprechen. Die Palette reicht nicht nur von emotional bis wütend, er ist auch ein meisterhafter Geschichtenerzähler.

Abgerundet wird "Yell" mit dem sanft dahinplätschernden "The Last Man On The Planet", bei dem stellenweise auch leicht bluesige Anleihen raus zu hören sind. Gitarre und Bass blubbern ganz sachte vor sich hin, dezent getragen von sanften Drums und einem Keyboard, dass sich zum Abschluss endlich auch solistisch einbringen darf.

Was gibt es noch zu diesem Album zu sagen? Nun – eine Plattenfirma hat die Band nach all den Jahren immer noch nicht. Ich geh mal davon aus, dass das einen gewichtigen Grund hat.
Denn völlig unabhängig von irgendwelchen Vorgaben irgendwelcher Plattenbosse konnte Cheap Wine sich stilistisch nach Herzenslust ausprobieren und austoben.

Das Album wurde ganz offensichtlich per Crowdfunding finanziert, das belegt die lange Namensliste auf der letzten Seite des Booklets, in welchem im Übrigen auch die Song-Texte in Englisch und Italienisch enthalten sind.
Ach ja:  Es ist zwar noch kein ganz lauter Schrei, aber dennoch um einiges lauter, als von mir gedacht.

[ Ilka Heiser – ROCK TIMES ]










HOOKED ON MUSIC
25 Jahre und kein bisschen leise. So könnte man dieses Review betiteln. Und in der Tat, ein Vierteljahrhundert ist es her, seit CHEAP WINE ihre Debüt-EP veröffentlichten und – so weit ich es überblicken kann – seither haben sie ein starkes Album nach dem anderen abgeliefert. Das liegt unter anderem daran, dass mit Marco und Michele Diamantini ein Brüderpaar zusammenarbeitet, welches als italienisches Pendant zu den Davies-Brüdern durchgehen kann. Ob sie so viel “fighten“, wie Ray und Dave, vermag ich nicht zu beurteilen, aber sie sind zweifellos ein ähnlich fruchtbares Songwriter-Team.

Auch dass die Bandbesetzung äußerst stabil geblieben und mit wenig Umbesetzungen ausgekommen ist, wird ihren Anteil am Erfolg haben. Mit am gravierendsten sicher, dass Alessio Raffaelli seit 2011 die Tastenarbeit verrichtet. Und da wären wir schon an dem Punkt, der beim Jubiläumsalbum “Yell“ als erstes ins Ohr springt: Wo Raffaeli auf den vorherigen Alben durch seine klassisch geprägten Klavierparts beeindruckt hat, ist hier nichts davon zu hören. Stattdessen schiebt er hier meist eine Orgel-Breitwand vor sich her, die einen herrlichen Gegenpart zur nahezu wütenden Gitarrenarbeit von Michele Diamantini liefert.

Das geht schon bei Greedy For Life so los. Die heftigen Gitarren-Riffs erinnern an Bands wie JET und unterstreichen Textzeilen wie “Can you stop telling lies and give me back my time?“ eindringlich. Natürlich waren CHEAP WINE immer eine “Gitarren-Band“, aber hier gehen wirklich nahezu aggressiv zur Sache. Natürlich gepusht von ihrer Rhythmus-Abteilung, wie man nicht nur in No Longer Slave hören kannt. Alan Giannini treibt seine Kollegen da richtig geil an. Womit man auch gleich die druckvolle (Eigen-) Produktion loben muss. Natürlich kommt Marco Diamantinis melancholische Seite in Songs, wie Your Fool's Gold durch, aber allein die Gitarren sorgen schon für bleibende Schärfe. Also, ich möchte behaupten, hier läuft jedes Bandmitglied zu neuer, besonderer Bestform auf.

Good-Time Rocker, wie Sun Rays Like Magic, oder kernige Country-Rocker, wie The Devil Is Me gehen sofort ins Ohr und verharren dort für ganz lange Zeit. Raue Abgeh-Nummer, wie Colors haben fast Punk-Charakter und der Faszination von Floating und The Last Man On The Planet kann man sich schwerlich entziehen. Und das, wie gesagt, obwohl dieses Mal ganz auf das sonst so verführerische Piano-Spiel von Raffaelli verzichtet wird. Stattdessen untermalt seine Orgel hier die äußerst präsente Gitarre von Michele Diamantini. All dieses macht “Yell“ wenn nicht zum besten, so zumindest zum besten Einstiegsalbum. Allein das abschließende The Last Man On The Planet hat nahezu DOORS-Qualität.

In diesem Sinne: Buon Anniversario!

[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]

 


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Faces
CD: "Faces" (2019)



BABYSNAKES
Questo disco ho dovuto comprarmi un masterizzatore per conoscerlo, siccome non dispongo più di un impianto e ormai ascolto tutto per via digitale.
Ora, io non voglio ripetere quello che dicon tutti, che i Cheap Wine sono un'anomalia, che somigliano a questo e a quello, e fanno musica americana, e suonano come nessuno, e sono indipendenti, e mi sono rotto i coglioni. Lo facciano altri.

Io so solo che loro a questo punto potevano costringersi in una dorata routine e invece vanno ancora oltre: hanno inserito nuovi suoni, nuovi rumori, soluzioni più ardite ancora e il disco ha una resa sorprendente per un disco italiano. Fatto in casa, per di più. Io so, e ho le prove, che non c'è un attimo superfluo in questo nuovo “Faces”: ancora più vero, se mai era possibile, ancora più sincero.

Io so solo che questo è un sabba, e puoi trovarci tutte le tue inquietudini. Quelle che vuoi, quelle che ancora non sai. Quelle che non ammetti. È come se loro suonassero per te. Non più per chi sono, come hanno sempre fatto. Per te, sì, proprio tu. Per dirti di cosa hai paura.

Io so che questi sono cinque virtuosi che, insieme, fanno qualcosa di diverso, di superiore ai loro virtuosismi. Io so che queste composizioni non lasciano eredi, e non trovano uguali.

So che vanno al di là dell'incubo, non più facce sfigurate dalla vita ma facce dell'anima deformate da un mondo inanimato. Io so che ogni canzone finisce di colpo, però non è che si tronca, è che vieni rapito e non sei preparato a lasciarla. Però ne arriva un'altra, e lo scenario cambia, ma è sempre il caleidoscopio di un labirinto senza luce. La luce sta dentro, ed è malata.

Io so che non hanno bisogno di effetti speciali, trucchi del cazzo: hanno questa clamorosa capacità di suonare, la scatenano tutta.

Io so che il sabba è puro rock and roll, duro diretto aspro ossuto eppure così raffinato, così irraggiungibile. La semplicità come punto di arrivo, non di partenza, che è dei grandi.

Io so che non me ne frega niente se qui non siamo in America e tutto il resto: c'è solo da sedersi ed ascoltare. Poi riascoltare. E poi ascoltare ancora. E ancora, e ancora. Del resto, viene da sé. Tutta la tensione che scorre ad alto voltaggio, ma non fa mai cortocircuito. Tutta la verità di chi non mente. Niente stronzate, niente compromessi.

Io so che questa vostra libertà è una benedizione da scontare. Ma so anche che nessuno suona come voi. 39 minuti e neanche un momento da perdere. E le canzoni finiscono senza aspettare, come si fossero rotte i coglioni, e un'altra preme dietro.

Quanta notte c'è qui, quante luci di lampioni, e semafori, e incroci e aerei che partono arrivano li guardi sparire.
Quanti cavalcavia e strade che muoiono in nulla.
Quanta gente che ti sfiora, la sfiori, la perdi.
Quante periferie di morte e quanto mare che urla.
Quante lacrime di rabbia, di rabbia.
Quanti anni della tua gioventù che poteva essere diversa.
Quanto del tempo che ti resta.

Tutto, la chitarra di sostegno implacabile, la solita con quelle cavalcate in tutte le direzioni, gli archi e le tastiere lugubri e abbaglianti, la base ritmica spietata.

Un disco forsennato dove niente va in testacoda, una parte che pensa, l'altra che sente.
C'è una cosa, lì dentro, si chiama Disguise, che andrebbe inchiodata tra le cinquanta, anche meno canzoni da non perdere al mondo per la vita.

Se tu lo ascolti, ogni volta ti stupisci, perché ogni volta capisci. No, non voglio ripetere che i Cheap Wine, voglio dire che mi ci perdo. Vaffanculo, cazzo.

Un vortice, un capolavoro dopo vent'anni di musica straordinaria. Potevano tirare i remi in barca, ma questi ragazzi non sono niente senza la loro creatura.
Non si fermeranno per niente al mondo.

Nel booklet, i ringraziamenti a tutti quelli che, col crowfunding, hanno reso possibile questo. E invece sono loro che dovrebbero ringraziare: hanno contribuito a qualcosa di prezioso, qualcosa che non va via. Qualcosa che non c'era e adesso c'è e rende tutto diverso.

Oh, così vero da essere ingenuo: non ci si scopre così, non si fa. Poi t'inculano.
No, non dirò che dischi così non se ne fanno più perché questa è gente che non ha niente da perdere né da vincere, le rimane solo la brutale verità del rock and roll.

Io dirò che io so. Che questo disco non guarda in faccia nessuno, ma è stato fatto anche per me. Per noi perdenti, che non abbiamo niente tranne quello che siamo, ma quello che siamo è la rabbia che non si doma. E possiamo essere meglio di così, se solo osiamo.

Io so che mai acquisto di un piccolo masterizzatore fu più necessario: avessi perso questo disco, avrei perso un pezzo di vita strappata dall'osso.
Una occasione che passa una volta, non ritorna.
Come quando una figa che non osi sperare ti aspetta a gambe larghe e tu non lo sai e resti a casa a tirarti una sega davanti a youporn.

[ Massimo del Papa – BABYSNAKES ]







BLOW UP
Per quanti hanno familiarità con la precedente, ricchissima produzione dei Cheap Wine, “Faces”non costituirà certo una sorpresa. La band di Pesaro è infatti rimasta fedele alla (sua) linea, ribadendo i saldi legami con un rock evocativo e in qualche misura epico che non nasconde la sua diretta discendenza da matrici d'oltreoceano, continuando a proporre (brillanti) testi in inglese interpretati con voce calda e sanguigna dal frontman Marco Diamantini, evitando - in modo spontaneo, senza bisogno di sforzi - soluzioni che possano insinuare il dubbio di un "imborghesimento".

Nonostante le chitarre non smettano mai di ruggire e accarezzare, qualche purista potrebbe magari reputare eccessiva la presenza delle tastiere, specie quando (ad esempio, The Swand and the Crow) i loro toni sono più da post-punk che da roots rock, ma si tratta di sfumature che accrescono il fascino dell'insieme, restituendo la vivida immagine di un gruppo in movimento, che sa bene da dove viene ma che non vuole porsi limiti su dove arrivare.

C'è solo verità in queste canzoni e queste storie, esaltata da un sound robusto e allo stesso tempo avvolgente che vanta anche un'intrigante raffinatezza e un notevole impatto, nonchè ispirazione autentica e una ferrea volontà di andare avanti lungo la strada accidentata ma a suo modo gloriosa che va percorsa per, si scusi la retorica, inseguire i propri sogni di r'n'r.

[ Federico Guglielmi – BLOW UP ]





MEDIUM
Inserisci il CD nello stereo e già ti senti un po’ vintage.

Oggigiorno è tutto uno Spotify, uno streaming, al massimo un lettore MP3 per i più old fashioned. Io sarei anche della giusta età per apprezzare questi strumenti, ma a quanto pare non sono mai stato della giusta età per nulla.

In ogni caso niente streaming, ma il CD originale, soprattutto per la prima volta con Faces.

Ascolto i primi accordi e già mi emoziono. Quando pensi di aver sentito tutto quello che si poteva sentire, quando credi che ormai il mondo della musica si sia infine perso in un vortice di brutti reality e musica prefabbricata ecco che tornano loro, i Cheap Wine.

Non molte band riescono a compiere 20 anni, produrre capolavori, e dopo tutto questo tempo e dopo l’ultimo, fantastico, “Dreams”, andare oltre e creare ancora musica che respira l’infinito.

Premessa: non sono un esperto, non sono un critico musicale, e questa infatti non è una recensione.

Non ho studiato abbastanza e non ne so abbastanza dal punto di vista tecnico: se volete leggere una recensione seria di questo album basta che leggiate qui o qui o qui, oppure che diate un’occhiata a Google. Vedrete subito qual è l’unanime responso.

Quello che posso dire però è questo: è la ricerca del giusto suono, della giusta combinazione di note e testi, che li rende quello che sono, e che li rende così fondamentali in quest’epoca di oggetti usa-e-getta, pensieri usa-e-getta, musica usa-e-getta.

Quando li ascolti sei sempre indeciso se goderteli o incazzarti.

Sì, perché da una parte c’è il fatto di apprezzare appieno i piccoli capolavori artistici che si susseguono uno dopo l’altro, dall’altra c’è il fatto che non sono conosciuti e apprezzati come invece dovrebbero.

E questo mi fa incazzare come un jena.

Ai concerti è ancora più evidente: ogni volta un pienone, ogni volta persone che si entusiasmano ed emozionano, e ogni volta persone che li scoprono e ne rimangono folgorate. È così che è successo a me, dopotutto, in una serata a caso in cui non mi aspettavo di trovarmi di fronte a nulla di così potente.

I Cheap Wine meriterebbero San Siro, meriterebbero Wembley, meriterebbero Campovolo.

La loro musica è un balsamo per ferite che ti eri quasi dimenticato di avere, e anche per questo meriterebbero il mondo, punto.

Concerti come i loro non ne ho visti mai. E sì che vado a vedere musica live da vent’anni a questa parte.

Dal vivo raggiungono un delicato equilibrio tra potenza e ipnosi: ti ritrovi trascinato in un altro mondo, un mondo che non vorresti finisse mai. 
“Faces”
 poi è un disco che bilancia perfettamente forza ed emozione in un modo che toglie il fiato, e vederlo live è stato pazzesco.

Io ho avuto la fortuna di godermeli dal vivo con questo album a novembre 2019, in un concerto aperto da Edward Abbiati, altra felice scoperta (e di cui mi sono portato immediatamente a casa due CD). Il suo show è stato minimal, ma ricco di emozioni e di ottima musica. Si è poi scatenato quando si è unito ai Cheap Wine un’ora dopo, durante il loro live, per una versione da pelle d’oca di One More Cup of Coffee di Bob Dylan: un lungo capolavoro di suono e voce rimaneggiato fino a diventare qualcosa di ancora più grande e potente, e che ti faceva ritrovare alla fine senza fiato e con il cuore in gola.

Uno spettacolo, quello di Edward Abbiati, che ha fatto quindi da perfetta introduzione ai Cheap Wine, che quando infine sono arrivati sul palco hanno scatenato subito un lungo applauso sulla fiducia, solo per la loro presenza.

Questo applauso e questa fiducia, per le due ore seguenti, hanno dimostrato di meritarseli appieno.

I loro non sono semplici concerti, sono opere d’arte.

Come solo loro possono fare (si autodefiniscono “folli”, ma io ci vedo solo giusta audacia), lo spettacolo ha messo in scena tutto il loro nuovo album, alternato ad alcune vecchie canzoni, e concluso da una The Fairy Has Your Wings da lasciarci il cuore.
Uno show che rientra sicuramente tra i loro migliori e che fa comprendere l’entusiasmo dei presenti, rapiti e coinvolti ed emozionati e persi in un vortice di musica senza eguali.
La ressa alla fine per poterli incontrare, salutare, per potergli parlare, fa comprendere ancora meglio quanto questo gruppo sappia farsi amare, e quanto riesca a toccare le corde più profonde di chi li ascolta.

E loro si concedono, sorridenti, disponibili, con una parola gentile per tutti. Sì, perché quello che li rende speciali, quello che rende speciale ognuno di loro (e che vedo chiaramente anche in Edward Abbiati), è che oltre ad essere degli artisti fenomenali, sono anche degli esseri umani fenomenali. Chi ha la fortuna di conoscerli un po’, se ne rende conto ogni volta.

E questa, se non si è capito, non è né una recensione del disco, né una recensione dei live. Questo è un inno, un’incitazione, una spinta: ragazzi, siete Arte, siete Cuore, siete Rock, non mollate mai!

Rock’n’Roll is a state of mind.

[ Angelo Callegarin – MEDIUM ]


 

 

 





LOUDD
Ci sono band che invecchiano male e che si trascinano stancamente per anni, manifestando un’afasia di contenuti e ispirazione che sa di rimpianto e occasioni perdute. E poi ci sono band, come i Cheap Wine, che non solo non hanno subito le angherie del tempo, ma a cui il trascorrere degli anni ha trasmesso una nuova consapevolezza, una maturità in cui cesello stilistico e slancio creativo convivono con risultati stupefacenti.

A due anni di distanza dall’ottimo “Dreams”, la band pesarese torna sulle scene con nuovo disco, autoprodotto e nuovamente realizzato attraverso lo strumento del crowfunding, e fin dal primo ascolto, stupisce come i Cheap Wine siano capaci di rinnovarsi senza snaturare la propria identità artistica. “Faces”infatti, suona famigliare, di quella stessa famigliarità che si prova nel ritrovare un amico o rinnovare una tradizione; ciò nonostante, nulla in queste nove tracce suona come la riproposizione di clichè stereotipati o formule prevedibili e consunte.

Non è solo il songwriting, come sempre ispirato e di qualità: in “Faces” si ascolta una band consapevole dei propri mezzi, che potrebbe viaggiare con il pilota automatico inserito, e che invece sta sugli strumenti con palpabile entusiasmo e con una forza d’urto talora travolgente. E non è un caso che questo sia un disco “molto suonato”, con anche lunghe code strumentali a chiosare i brani, che trasmettono all’insieme una connotazione quasi jammistica (e sarà interessante ascoltare dal vivo, in un contesto, quindi, meno vincolante, come questa componente verrà sviluppata).

Nonostante l’approccio alle canzoni sia inequivocabilmente rock, la scaletta è però attraversata da un mood cupo, in cui convivono riflessioni malinconiche e contemplazione crepuscolare. Alla metrica precisa e potente della sezione ritmica (Alan Giannini alla batteria e Andrea Giaro al basso) e alle chitarre sferraglianti dei fratelli Diamantini, fanno, infatti, da contrappunto le tastiere di Alessio Raffaelli, il cui tocco asciutto e icastico diviene spesso l’elemento risolutivo in chiave emozionale. Percezione, questa, evidente fin dall’apertura di Made To Fly, la cui vibrante elettricità viene destabilizzata da poche note di tastiera che sprofondano il brano verso un’inquietante penombra.

A contribuire a questa tensione emotiva, ci sono poi le belle liriche di Marco Diamantini, incentrate sul tema dell’identità, sviscerato tra nichilismo, disperazione e desiderio di fuga: i volti che affollano le nostre vite, alcuni indifferenti e sfumati, altri feroci e malevoli, e le mille sfaccettature della nostra anima, che deve misurarsi con un mondo ostile, in un alternarsi di disagio, sofferenza e inadeguatezza.

Se il precedente “Dreams” era attraversato da lampi di luce e suggeriva una visione del mondo filtrata attraverso la dimensione onirica del sogno e vividi barlumi di speranza, in “Faces” la tensione scema solo nel finale, tra le volute psichedeliche di New Ground, i cui languidi arabeschi accompagnano “la fuga dalla città disperata” e segnano l’abbrivio per una nuova vita e un possibile riscatto.

Difficile trovare il meglio in questi quaranta minuti di musica suonata e arrangiata perfettamente, ma a voler operare necessariamente una scelta indico la livida malinconia di The Swan And The Crow, il tiro diretto e il riff scorticato di Disguise e le cupe spire della title track, dalle sonorità contigue al post punk.

Se è indubitabilmente vero che il ”rock‘n’roll is a state of mind” (Misfit), il merito dei Cheap Wine è quello di essere riusciti nuovamente a materializzare questa inclinazione nel migliore dei modi, con un disco potente e vibrante ma capace di suscitare nel contempo importanti riflessioni esistenziali. E questo, è tutto ciò che il rock dovrebbe fare. Sempre. Play It Loud, Think It Loud.

[ Nicola Chinellato – LOUDD ]






OFF TOPIC
I Cheap Wine, sono sicuro di averlo già scritto in passato, rappresentano un’autentica anomalia nel panorama musicale italiano. Da sempre legati a sonorità “americane” (che sia il Paisley Underground di scuola Dream Syndicate o l’epica chitarristica di mostri sacri come Neil Young e Tom Petty), in un paese che si è sempre mosso ben lontano da questa tendenza; da sempre estranei ad etichette, uffici stampa e qualunque altro discorso da music business, rigorosamente autoprodotti, rigorosamente in controllo di qualunque aspetto riguardante la propria musica, sono riusciti a festeggiare i vent’anni di carriera (nel 2017 con “Dreams”) senza mai rinunciare alla loro particolare visione e senza la benché minima flessione dal punto di vista artistico. Uniche due concessioni: l’approdo su Spotify (anche se le nuove uscite vengono rese disponibili sulla piattaforma solo diverso tempo dopo) e il ricorso al crowdfunding, grazie al quale hanno finanziato “Dreams” e il nuovissimo “Faces”.
Una scelta che per molti motivi, troppo lunghi e superflui da spiegare qui, non mi trova d’accordo ma che comprendo benissimo, all’interno di un contesto che di sicuro è molto poco favorevole a chi decide di fare dell’arte un lavoro vero e proprio.

Detto questo, “Faces” arriva dopo 22 anni di strada ed è il tredicesimo lavoro in studio per un gruppo che (sarà un luogo comune ma è la pura verità) ha avuto l’unica “colpa” di nascere in un luogo diverso da Stati Uniti o Gran Bretagna.

“Faces” nasce ancora una volta da un’urgenza creativa bruciante, dal bisogno fisico che i cinque hanno di scrivere e registrare canzoni per poi suonarle on the road: sono questi gli ingredienti principali del nuovo disco dei Cheap Wine ed è questo che rende ogni loro uscita un atto d’amore, indipendentemente poi dai contenuti che vi si troveranno.

“Faces”è senza dubbio un disco spigoloso. Se “Dreams” funzionava come una giostra di colori, era aperto alla speranza e si muoveva sui binari consueti di un rock and roll esplosivo e liberante, questa nuova creatura sembra ritornata alla disillusione e alla rabbia latente che, seppur con declinazioni diverse, li ha sempre contraddistinti.

Certo, non siamo dalle parti di “Beggar Town”, che a tutt’oggi rimane a mio parere il lavoro più cupo dei nostri, ma di motivi per gioire non ce ne sono molti. Del resto, a pensarci bene, l’essenza stessa del rock è sempre stata questa: il sentirsi esclusi, reietti, fuori posto rispetto ad una società che impone un dress code fisico e mentale ai propri membri e opponendo a tutto questo l’affermazione della propria identità, la libertà intesa come diritto a trovare il proprio posto nel mondo, emancipandosi dai modelli forzosamente indicati come “corretti”.

Non a caso il disco si chiude ripetendo più volte il verso: “I can’t stand all those lies and those who can’t look me in the eye”. Ad un mondo per molti versi falso (non a caso“Based On Lies” è tuttora uno dei lavori più significativi, per capire la loro visione del reale), si oppone così quella sincerità e quel desiderio di bene che dovrebbe essere proprio di ogni essere umano.

I testi di Marco Diamantini (come sempre proposti anche in traduzione italiana, atto di gentilezza nei confronti di chi non conosca bene l’inglese e insieme presa di posizione netta su come ogni canzone si componga in egual misura di testo e musica) ruotano dunque attorno a questi temi, prendendo come immagine centrale quella dei volti, delle “facce”, che sono quelle degli uomini incontrati per la strada in tutti questi anni, ma anche quelli che il percorso di Marco non lo hanno mai incrociato e mai lo incroceranno.

Facce nella maggior parte dei casi bruciate dalla fatica, dai dolori e dalle delusioni, facce consumate dal tempo eppure, in qualche modo misterioso, facce che continuano ad andare avanti, che rifiutano di arrendersi.

Ecco, se c’è qualcosa di positivo in questo disco, è che la resa non è contemplata. Che sia l’orgogliosa dichiarazione di avere la testa tra le nuvole (“Well, you don’t know I’m still flying, and you seem so small when I look at you from above”), di essere nato per volare (“I’ve got wings and the blue sky tells me I can fly high”) o il ghigno di di soddisfazione nell’essere definito un “disadattato” (“I’m an outcast, I’m insane, I’m a misfit, lazy and vain. I’m a grown man with a wild child brain”), in queste nove canzoni si combatte una battaglia che è ben lungi dall’essere dichiarata perduta.

Disco spigoloso, dicevamo. Lo si avverte nei riff portanti (valga per tutti quello dell’iniziale Made to Fly), taglienti e allo stesso tempo portatori di una non definita oscurità. Lo si sente nel ritmo, sempre trattenuto, con anche i brani più energici (The Great Puppet Show, Disguise) che non esplodono mai. Lo si percepisce con chiarezza nel lavoro delle tastiere, con Alessio Raffaelli che, nel momento in cui offre forse la sua migliore prova, scombina le carte cambiando quasi tutti i suoni, rinunciando quasi del tutto al pianoforte che era un po’ il suo marchio di fabbrica, e puntando molto su atmosfere a tratti lugubri, a tratti addirittura stranianti.

Ne esce un lavoro da cui affiora un senso di insicurezza, con pochissimi momenti di apertura (la ballata New Ground e la più rockeggiante Misfit, con la sua bellissima melodia chitarristica, nonché unico episodio dove c’è un vero e proprio ritornello) e un parziale ritorno alla psichedelia disturbata degli esordi: ascoltare per esempio Princess, che a dispetto del titolo è tutt’altro che una canzone d’amore ma suona piuttosto come una versione aggiornata del vecchio classico Mary; oppure la title track, con quei suoni di chitarra profondi, che scavano nell’anima e una coda dove Alessio e Michele Diamantini dialogano alla perfezione.

A corredare il tutto, anche se è superfluo aggiungerlo, c’è il meraviglioso lavoro di registrazione di Alessandro Castriota (nel solito studio di Marzocca, in provincia di Ancona) che unitamente alla produzione della stessa band, tira fuori per l’ennesima volta dei suoni da far accapponare la pelle. Per non parlare poi dell’esecuzione, con in particolare degli assoli di livello assoluto, che sembrano costituire un gustoso antipasto di quello che ci aspetterà dal vivo.

L’ennesimo centro per un gruppo che non ha più nulla da dimostrare, che non deve innovare a tutti i costi ma che semplicemente aggiustando il tiro qua e là, riesce ogni volta a tirar fuori un disco degno di essere ascoltato.

Non dovrebbero esistere, se il mondo andasse secondo i parametri di chi detiene la maggioranza. Ma per fortuna esistono ancora le eccezioni e gli spazi di libertà. Dopo tutto, come dicono loro, “Rock and Roll is a state of mind”.

[ Luca Franceschini – OFF TOPIC ]






IL SUSSIDIARIO
Sono passati otto anni circa ma quelle parole continuano a girarmi in testa: “Based On Lies”, basato sulle menzogne. Allora, era il 2102, ancora non si parlava di fake news come lo si fa oggi, ma i Cheap Wine vi dedicarono un intero disco. Non solo manipolazione dei media, naturalmente, ma manipolazione di ogni cosa. Oggi che appare evidente a chiunque ha un po’ di cervello che la tecnologia, il mondo virtuale, sono grandi “inghiottitoi”, armi di distruzione di massa dei cervelli, “Based On Lies” rimane la grande inquisizione profetica di un gruppo di musicisti di Pesaro. Rimane anche un grande disco rock, come tutti quello dell’ormai lunga discografia dei Cheap Wine, a cui si aggiunge adesso il nuovo “Faces”.

Nel nuovo lavoro i Cheap Wine rimangono fedeli al loro impegno, quello di portare nelle canzoni la realtà in cui siamo affossati: “I personaggi di Faces (…) si sentono fuori posto, non capiscono la realtà che li circonda. Si guardano attorno attoniti. Imprigionati in un ruolo che non li rappresenta sbattuti all’interno di un copione del quale avvertono l’ipocrisia senza senso (…) La vita si complica fra sensi di colpa e sguardi ostili” dicono loro stessi. Ma davanti a questo quadro disperante, c’è la possibilità di fuggire. Soprattutto di tornare a guardarsi in “faccia”: “Ogni faccia, alla fine, ha bisogno di qualcuno che la guardi negli occhi”.

Dopo alcuni album per così dire sperimentali, in cui il gruppo ha esplorato percorsi affascinanti, onirici, quasi prog, tornano con un disco che allarga ancora il loro spettro musicale, pur rimanendo fedeli alle loro radici rock underground. E’ questa continua evoluzione, questo esplorare un ambito che di per sé è ristretto, quello del rock, che li fa apprezzare. Mai domi, sempre a caccia di nuove sensazioni. L’impressione è quella di trovarsi, questa volta più che mai, a una concezione di concept album che richiama, non musicalmente ma nello spirito, grandi dischi analoghi del Fabrizio De André degli anni 70, opere rock più che un contenitore di canzoni. Sono i testi naturalmente a legare il tutto, il viaggio di un uomo qualunque, che dalle macerie della nostra civiltà scorge piano piano una luce a cui affidarsi, pronto a riprendere in mano la sua vita.

Made to Fly apre il disco con un riff nervoso e molto new wave, geometrico e implacabile, fino all’esplosione di un potente assolo psichedelico garage, come loro attitudine.
La successiva Head in the Clouds si appoggia su una chitarre acustica incisiva e una melodia piena di mestizia: disinteresse, alienazione, fino al nuovo assolo di chitarra elettrica urticante ed esplosivo.
The Swan and the Crow dimostra la voglia del gruppo di non fossilizzarsi, i sintetizzatori in primo piano rimandano a certe prog italiano anni 70.
Altrove riemerge l’amore primigenio del gruppo, come nelle belle e rolingstoniane The Great Puppet Show e Disguise mentre Misfits concede un attimo di pausa con il suo piacevole andamento quasi country rock.

E’ forse la cupa, avvolgente e psichedelica Princess il brano più intenso del disco mentre la conclusiva New Ground è un raggio di sole dopo una notte da incubo.

I Cheap Wine si dimostrano il gruppo italiano maggiormente capace di raccontare la storia che viviamo, e le loro canzoni ne sono efficace colonna sonora.

[ Paolo Vites – IL SUSSIDIARIO ]







WE LOVE RADIO ROCK
Sono passati circa vent’anni dal mio primo ascolto di un album targato Cheap Wine, ma ancora mi emozionano certi rituali: l’ordine, l’attesa, l’apertura della busta imbottita, l’inserimento del cd nel lettore. Sai già che ti sentirai comunque “a casa”, ma rimane l’incognita di quale strada abbiano intrapreso in questa occasione.

Chiusa l’eccellente prima parte di carriera con un ottimo doppio dal vivo (“Stay Alive”, 2010), i pesaresi arricchivano il proprio suono con le magnifiche tastiere di Alessio Raffaelli, che andava ad aggiungersi alla consueta formazione composta dai fratelli Marco (voce, chitarra ritmica, autore principale) e Michele (chitarrista eccezionale, coautore di vari brani) Diamantini e dalla perfetta sezione ritmica che vede Alan Giannini dietro piatti e tamburi e Andrea Giaro al basso, in sostituzione di Alassandro Grazioli a partire dal live “Mary and the Fairy” (2015. A mio parere, uno dei migliori dischi dal vivo degli ultimi vent’anni: e non intendo solo in Italia).

Questo nuovo “Faces” segue una serie di tre concept album che proponevano una riflessione sull’attuale situazione sociale, a partire dalle difficoltà date dalla ricerca di quella vita dignitosa che viene prospettata da modelli artificiosi (“Based On Lies”, 2012), alla disperazione per l’ansia di non riuscire ad ottenerla (“Beggar Town”, 2014), alla speranza in un futuro migliore (“Dreams”, 2017).

Oggi i testi di Marco descrivono un’attualità incapace di fornire risposte: i personaggi che popolano le nuove canzoni non comprendono la realtà circostante, devono fidarsi di chi incontrano. Oggi quello che conta sono le facce: quelle che si mostrano, spesso maschere, e quelle reali, quelle che con uno sguardo, o una smorfia, esprimono una vita intera.
Illustrato da una copertina graficamente e concettualmente molto diversa rispetto al passato, l’album si dimostra subito aderente a questa novità: le tastiere sono prevalentemente elettroniche (ma analogiche), a costituire tappeti, sfondi, atmosfere nelle quali le chitarre di Michele colorano gli spazi, si sbizzarriscono, carezzevoli o prepotenti, suadenti o ferocemente psichedeliche, in canzoni declamate da una voce al solito molto espressiva. Le percussioni sono dinamiche, mai limitate dai ritmi, ora più accennate, ora più potenti , sulle cui linee danzano sinuose le note del basso.

Una grandissima prova di coesione sonora che incornicia perfettamente canzoni ispirate, racconti densi di significato (al solito, i testi sono acclusi con traduzione a fronte).
Il favoloso trittico di apertura (la sontuosa Made To Fly, le ballate Head In The Clouds e The Swan And The Crow, ove pare che dietro l’angolo Lanegan, Cave e Mike Scott stiano resuscitando Bap Kennedy) sorprende l’ascoltatore calandolo in una dimensione sonora nuova per il gruppo, molto più british rispetto al passato, arrivando a flirtare con il power pop in The Great Puppet Show, caratterizzata da un riff di piano insistente. Faces, la title track, è il perfetto cuore dell’album: strategicamente posta a metà del programma, è drammatica, basata su una spazialità che rende protagonisti tutti gli strumenti che si sfogano nella lunga, avvolgente coda strumentale.

La seconda parte dell’album è più vicina al classico Cheap Wine sound (Misfit, la potentissima Disguise), un suono che abbiamo imparato ad amare in quasi un quarto di secolo di attività del gruppo, anzianità di tutto rispetto per un’entità che da sempre si auto produce e non può contare su spinte promozionali che esulino dal passaparola.
Suono classico, dicevamo, ma pur sempre aggiornato al tono generale del disco, come rivelano i trattamenti riservati a Princess e alla conclusiva, notturna, New Ground.

Un album bellissimo, come sempre.
Alcuni giorni prima della spedizione ai partecipanti al crowdfunding, avevano chiesto ai loro affezionatissimi fans, i Wineheads: “Che tipo di disco vi aspettate?”.
Avevo risposto anch’io, lapidario: “Fiero”.
Ci ho preso in pieno: grazie, ragazzi.

[ Massimo Perolini – WE LOVE RADIO ROCK ]








AUDIO REVIEW
La dodicesima e ultima pagina del libretto accluso al dodicesimo album (l'elenco comprende due live) dei pesaresi Cheap Wine consta di un fitto elenco di nomi: sono quanti dobbiamo ringraziare per avere investito del denaro nell'operazione di crowdfunding che ha finanziato la realizzazione di “Faces”. Per tutto il resto - di esistere e resistere da oltre vent'anni senza mai un compromesso, addirittura senza avere mai frequentato (se non con degli accordi di distribuzione) il mondo dell'industria discografica, il tutto costruendo nel tempo un catalogo di rara solidità - dobbiamo invece ringraziare i fratelli Marco (voce e chitarra ritmica) e Michele Diamantini (chitarra solista). Oltre che Alan Giannini (batteria) che è con loro dal 2008 e i più recenti acquisti Alessio Raffaelli (tastiere) in squadra dal 2011 e Andrea Giaro (basso), parte della compagnia dal 2014. Qualcosa più che meri gregari questi ultimi tre, sezione ritmica solidissima e tastiere (qui molto meno pianoforte che nei dischi precedenti) ad aggiungere coloriture e suggestioni preziose ad un sound eminentemente chitarristico.
Per essere perfetto, a questo disco che sistema nove brani in quaranta minuti, manca forse una decima canzone: un'altra ballata, ma "unplugged" (perchè qui in materia di ballate elettriche ci sono due delle più belle di sempre dei Cheap Wine, una "Head in the Clouds" degna di Stan Ridgway e una "Princess" che va in crescendo) da sistemare a metà scaletta per stemperare una tensione che, tolto qualche attacco folk-rock ("The Swan and the Crow") o sospeso (la traccia omonima) non dà requie fino alla conclusiva, dalle atmosfere fra il languido e l'acidulo "New Ground".
E' l'album più schiettamente, quasi ferocemente - in una solista che sferza e ustiona - rock'n'roll dei Nostri.

[ Eddy Cilìa – AUDIO REVIEW ]









BUSCADERO
A due anni di distanza da “Dreams”, che concludeva una ideale trilogia iniziata con “Bades on Lies” e proseguita con “Beggar Town”, tornano i Cheap Wine, rock band pesarese guidata dai fratelli Diamantini (Marco alla voce e Michele alle chitarre, come sempre con la sezione ritmica di Andrea Giaro, basso, e Alan Giannini, batteria, e con le tastiere di Alessio Raffaelli) con “Faces”, decimo full-length di studio del quintetto e realizzato ancora grazie al crowdfunding.

“Faces” è un album che, seppur “sganciato” dai tre precedenti, in un certo senso ne porta avanti le tematiche: i personaggi del disco sono infatti persone comuni, gente spaesata che mal si adatta alla realtà odierna, fatta di relazioni finte, di rapporti fittizi. Un mondo in cui tutti in un certo senso indossano una maschera e fanno finta di essere ciò che non sono, e coloro che cercano di distinguersi dalla massa vengono guardati come dei reietti, anche se ogni tanto qualcuno rischia la fuga da questa situazione opprimente.

L’unico modo di capire lo stato d’animo di queste persone è guardandole in faccia, perché le facce (da qui il titolo del CD) non tradiscono mai e raccontano anche senza parlare, basta saper leggere negli occhi altrui. I testi sono di conseguenza cupi, pessimistici, è difficile che filtri anche un piccolo raggio di sole, ed anche le musiche sono tese, dure, nonostante i nostri non tradiscano lo spirito rock’n’roll che li ha accompagnati durante tutta la carriera: “Faces” è quindi l’ennesimo album di puro rock da parte del quintetto, che canta in inglese non per snobismo ma perché l’inglese è appunto la lingua del rock.

Le nove canzoni presenti in questo CD sono come sempre basate sul suono ruspante della chitarra di Michele, anche se ho l’impressione che stavolta le tastiere abbiano uno spazio maggiore rispetto a prima, pur non risultando affatto invadenti: un suono rock moderno, figlio dei nostri giorni, che in alcuni momenti mi ricorda non poco quello dell’ultimo album dei Dream Syndicate.

Il CD si apre in maniera decisamente vigorosa con Made To Fly, una rock song affilata come una lama, che inizia con la chitarra elettrica a macinare riff, poi entra forte e chiara la voce di Marco e la sezione ritmica fa il suo dovere: un avvio potente, con Michele che chiude il brano con un lungo assolo purtroppo sfumato.

Head In The Clouds inizia con effetti sonori un po’ stranianti, poi entra la chitarra acustica ed il brano si apre a poco a poco fino all’ingresso dell’elettrica dopo la prima strofa, con la canzone che si trasforma in una rock ballad ancora molto tirata, con solito assolo torcibudella: dal vivo prevedo che farà faville.

The Swan And The Crow è più distesa ma si avverte lo stesso una certa tensione, sembra quasi una ballatona urbana alla Iggy Pop; The Great Puppet Show è ancora rock’n’roll, caratterizzato dal suono potente della chitarra, ritmo sostenuto e feeling a mille: nessuno in Italia fa musica rock a questo livello, elettrica e coinvolgente.

La title track, cupa, nervosa e dal suono moderno, fa veramente venire in mente il Sindacato del Sogno (e la voce non è distante da quella di Steve Wynn), mentre Misfit è una splendida rock ballad, tosta, diretta e dotata di un motivo di sicura presa: tra le più riuscite dell’intero lavoro.

Molto bella anche Princess, uno slow d’atmosfera guidato dalla slide, un pezzo che non rinuncia comunque agli elementi rock e ricorda certe cose di Tom Petty. Finale con la trascinante Disguise, puro rock’n’roll dal ritornello vincente (altro pezzo che vorrei sentire live), e con New Ground, che nonostante mantenga un suono decisamente elettrico è più distesa e fluida.

Altro ottimo disco quindi per i Diamantini Brothers: i Cheap Wine sono da tempo una delle più belle realtà musicali del nostro paese, ed è una vergogna che dopo oltre vent’anni siano ancora “solo” una band di culto.

[ Marco Verdi - BUSCADERO ]









DRIED LEAVES
“Faces”. Facce, visi, volti, lineamenti, espressioni, fisionomie, fattezze: in quanti modi si possono descrivere le facce appunto e quali e quanti sentimenti si celano, si nascondono dietro un viso e quanti invece si mostrano. Siamo di fronte, una volta di più, ad un album di sentimenti, stati d'animo, dichiarazioni d'intenti, un racconto che guarda il mondo da un ben definito punto di vista, certo personale, ma non potrebbe essere altrimenti.

La narrazione si consuma in una città che potrebbe essere ovunque esattamente come potrebbe essere una metafora e trovarci in faccia al il mondo con l'ampio insieme delle sue contraddizioni e le diverse sfaccettature, positive come negative. Si percepiscono disagio, differenza, fa inoltre capolino una spruzzata di delusione eppure affiora sempre il desiderio di amore nel suo senso più pieno, la speranza.

È un album che incombe, sovrasta l'ascoltatore e lo obbliga ad entrare nei suoni, nelle atmosfere che lo compongono. È un caleidoscopio, “Faces”, nel suo senso letterale e cioè un avvicendamento fantasmagorico di luci, colori, immagini, figure: è un insieme di “short stories” (da amante di Carver non potevo esimermi) perché ogni singolo brano è una storia, è narrazione, è fotografia, tutto mirabilmente condito da suoni, arrangiamenti, voci e “rumori fuori scena”, piccola deviazione teatrale, perché gli interventi delle tastiere talvolta possono apparire tali e cioè esterni alla struttura dei brani, ma non è così, un attento ascolto colloca le tastiere, i “loop” perfettamente all'interno delle melodie, occorrono attenzione e (più) ascolti.
Già, gli ascolti, perché “Faces” ti mette di fronte ad un bivio: ascoltarlo ad alto volume per cogliere appieno la potenza del rock and roll oppure prestarvi attenzione in cuffia e godere degli arrangiamenti e dei diversi suoni disseminati un po' ovunque nelle nove tracce che compongono quest'opera.

E allora occorre seguire il filo che collega “Made to fly” - rapida, secca, aperta da un rumore fuori scena e che si consuma velocemente dichiarando la propria diversità «sono stato creato per volare» per lasciare che sia un avvolgente solo di Michele a portare il brano alla fine – a “New Ground” dove una voce leggera dichiara il bisogno, la necessità di cercare nuovi orizzonti mentre le chitarre disegnano una tela psichedelica con quel continuo intreccio di note chitarristiche quasi sognanti e la batteria di Alan che, in controtendenza rispetto al resto dell'album dove si rivela potente, si mette quasi in disparte, galleggiando sulla superficie del brano assecondando il clima.

“Loop”, una chitarra acustica e un bella linea di basso aprono “Head in the clouds”, il riff della chitarra elettrica si attacca alla melodia ed è un solo di Michele a governare il finale; chitarre, basso, note di tastiera e un piano da cercare qua e là per “The swan and the crow”, la rappresentazione è leggermente cupa ma «In questa città, un cigno non si trasformerà mai in un corvo», per fortuna.

Ecco il rock che si svela in “The great puppet show”, ecco le chitarre, ecco la batteria (eccome) e quelle note di pianoforte... siamo in un gioco al quale non si partecipa stavolta, si sta in disparte per vedere l'effetto che fa; rumori fuori scena, la cassa di Alan, le chitarre che camminano mentre tastiere e piano lavorano tutt'intorno ai visi, alle espressioni, alle verità come alle falsità ed ecco “Faces”, il cui lungo finale è dominato dal solo di Michele che rimbalza ovunque, dalla prorompente batteria di Alan intanto che le note di una tastiera emergono piano piano, un clamoroso insieme di suoni (e il piano c'è ancora, cercatelo).

Ancora rock, arriva “Misfit” e il suo ammettere di sentirsi fuori posto «Sono un uomo adulto con la mente di un bambino selvaggio» ma soprattutto andate tutti al diavolo perché «Rock'n'roll is a state of mind», assolutamente sì; è, viceversa, dolce l'entrata di “Princess” la voce è bassa, quasi sospesa e cinge il brano con versi d'amore «Una linea sottile come una lama scorre fra l'amore e l'odio. Qualcuno lo chiama destino. È una storia per coraggiosi», e abbiamo bisogno di coraggiosi, non di eroi, finale con – di nuovo – un insieme di suoni che segna il cammino.

“Disguise”, cioè travestimento, questo brano lo immagino “live” tanto è perfetto per ritmo e riff, inoltre si presta magnificamente per le improvvisazioni, da annotare i due assoli di Michele, taglienti e acidi.

I Cheap Wine consegnano un altro album che merita di essere ascoltato, non so dire – né mi interessa particolarmente – dove si collochi all'interno della loro produzione, so che è un grande album e tanto mi basta, eccome. E ognuno lo posizioni dove crede.
Rock'n'roll is a state of mind.

[ Fabio Fumagalli – DRIED LEAVES ]








ROOTS HIGHWAY

Orgogliosamente indipendenti da più di vent’anni (hanno esordito nel ’97 con Pictures), fieramente e cocciutamente intransigenti, i pesaresi Cheap Wine approdano al loro tredicesimo disco, intitolato “Faces”, finanziato con un crowfunding casalingo (ovviamente) che ha trovato l’abituale partecipazione tra i "Wineheads" che li seguono con fedeltà.
Ma sarebbe ora che anche gli altri si accorgessero dell’esistenza e del valore di questo quintetto, guidato con mano sicura dai fratelli Diamantini, Marco alla voce e Michele alla chitarra, che si dividono anche le composizioni con una prevalenza di Marco, anche se non bisogna dimenticare il contributo essenziale delle tastiere di Alessio Raffaelli e della sezione ritmica formata da Andrea Giaro (basso) e Alan Giannini (batteria).

C’era curiosità per valutare gli sviluppi del loro suono dopo la trilogia formata da “Based on Lies“Beggar Town” e “Dreams”, usciti tra il 2012 e il 2017, collegati tra loro dalle tematiche affrontate: la situazione drammatica dell’Italia contemporanea, rappresentata da persone distrutte dalla crisi economica e raggirate da un sistema fondato sulla finzione supportata da mass media manipolati (in “Based on Lies”), la reazione degli stessi esseri umani che, preso atto delle macerie e della desolazione, cercavano di sopravvivere, di rimettersi in cammino e di trovare una prospettiva più decente di vita non limitandosi a compiangersi (in “Beggar Town”), l’illusione di uno spiraglio per il futuro, basato sulla forza dell’amore e dei sogni (in “Dreams”).

In realtà “Faces” prosegue nella descrizione del mondo di oggi, tratteggiando personaggi che si sentono fuori posto, respinti dalla realtà che li circonda, imprigionati in un ruolo che non li rappresenta, diventando anonimi elementi del gregge, ad eccezione di alcuni “disadattati” che non si adeguano, cercando di fuggire alla ricerca di nuovi orizzonti.

Se i testi di Marco mantengono la loro serietà e l’impegno sociale che da sempre li caratterizzano, la musica di “Faces” riporta in primo piano la chitarra di Michele, rimasta in secondo piano su “Dreams” rispetto alle tastiere, con un ruolo di raccordo.
Invece dalle prime note di Made To Fly si capisce che il suono è tornato rabbioso e incazzato, pur essendo più maturo e meno diretto rispetto agli inizi, per intenderci prima della svolta di “Spirits” del 2009.
Il crescendo ripetitivo e ipnotico di Head In The Clouds, il rock tirato tra Stones e Green On Red di The Great Puppet Show, il basso pulsante e la chitarra nervosa di Faces, che si apre nel finale in un assolo lento e sofferto, l’elettrica e avvolgente Misfit con Alessio al synth e la robusta Disguise rappresentano al meglio il prevalere di un suono aspro e chitarristico, solo parzialmente addolcito dall’intima Princess, sussurrata da Marco, accompagnato dagli arpeggi di Michele, dall’avvolgente The Swan And The Crow e dalla chiusura sognante di New Ground, che rappresenta la partenza verso nuovi orizzonti.

Un altro disco di ottima qualità, curato anche nella parte grafica con i testi in inglese e in italiano, da parte di una delle migliori realtà del rock europeo.

[ Paolo Baiotti – ROOTS HIGHWAY ]








FREAK OUT MAGAZINE
“Faces” è il tredicesimo lavoro in ventidue anni di storia per i pesaresi Cheap Wine, frutto di una coerenza e di un’indipendenza invidiabili grazie alle quali il quintetto ha acquisito un’enorme autorevolezza a livello nazionale e internazionale.
Il tema di questo disco è quello di coloro che non riescono ad adattarsi ad uno status quo fatto di ipocrisie e di copioni già scritti.
Le facce descritte in queste undici ottime ballate sono quelle di coloro che ad un certo punto non ce l’hanno fatta e hanno preferito cambiare aria pur di non reprimere la loro vera natura. In altre parole il tema del disco non è lontano da alcune grandi opere dello scorso secolo, come “1984” o “Farenheit 451”.
Come già accennato, la struttura di questi brani è quella della ballata, ma come sempre i CW hanno molte cartucce da sparare, per cui troviamo una lunga coda finale nella title-track, che evoca gli Who, il blues sullo sfondo del rock coinvolgente di “Disguise”, i wah-wah della tesa “Made to fly” e i rimandi nella lunga ballata in salsa Neil Young di “Head in clouds”, passando per il pop-rock di “The great puppet show” e la cavalcata rock di “Misfit”.
Un altro centro pieno!

[ Vittorio Lannutti – FREAK OUT MAGAZINE ]







SOTTERRANEI POP
Puntuale come il contratto di un calciatore arriva davanti ai nostri lettori cd il nuovo album dei Cheap Wine. Solo la data è diversa, non il canonico 30 giugno ma l’oramai classico, per la band pesarese, 3 di ottobre che ricorre spesso come data di pubblicazione dei loro dischi.
Con “Faces” siamo arrivati al 13° capitolo di una discografia che conta 1 mini-lp, 2 album dal vivo e 10 album da studio, cui bisogna aggiungere il libro con tutti i testi con traduzione a fronte, che raccontano oltre vent’anni di una storia intrisa di orgogliosa e fiera indipendenza che ha un solo dogma da seguire: l’onestà ed il rispetto verso il proprio pubblico, al quale offrire sempre dischi e concerti di pregevole fattura.

Faces ha un’eredità pesante con la quale confrontarsi che è quella di dare seguito ad un album celebrato come “Dreams” (2017) che chiudeva la trilogia aperta da “Based On Lies” (2012) e proseguita con “Beggar Town” (2014). In quei dischi il filo conduttore era l’oppressione che gravava sui personaggi di ogni album, che dapprima venivano sconvolti da una crisi economica mascherata dalle bugie dei mass media che raccontavano un mondo basato sulla finzione, si ritrovavano ad avere attorno a sé solo macerie. Su queste macerie i protagonisti di “Beggar Town” hanno dovuto prendere atto che a nulla di solido potevano aggrapparsi per sopravvivere, ma dovevano contare solo sulle proprie forse per combattere una dura lotta il cui esito non era dato per scontato, ma contava solo trovare le forze per cercare un riscatto da quel senso di desolazione dominante.

A quel punto la vera sfida era guardare oltre e cercare una via d’uscita che veniva rappresentata dai sogni e dall’amore, unico antidoto per superare che l’oscurità delle cose negative, potesse prendere il sopravvento su quelle cose che abbiamo intorno, l’amore, la famiglia, le persone care, che ci fanno da corazza e che diamo per scontate, dimenticando quanto siano fondamentali per andare avanti, qualsiasi cosa accada.
Tre album molto dark dai quali scostarsi, cercando nuove strade da percorrere e storie da raccontare. Per farle Marco Diamantini ha smesso di guardarsi dentro, rivolgendo lo sguardo intorno al mondo che lo circonda per dare corpo ai testi delle nuove canzoni cesellate dai suoi compagni, con un’ampia gamma di suoni che, solo ai primi ascolti, danno la sensazione di avere tra le mani un disco più solare dei precedenti.

Sin dalle prime note del brano di apertura Made To Fly questa sensazione ci avvolge con una melodia ed un incedere del brano che crea subito la simbiosi tra i musicisti e l‘ascoltatore ed è facile prevedere che sarà uno dei brani più graditi sotto il palco. Un brano che introduce il tema dell’album che quello di cercare di andare oltre le convenzioni di una società che vuole che tu indossi una maschera anonima e ti adegui ad essere solo un piccolo ingranaggio sostituibile o, per dirla con i Pink Floyd, solo un altro mattone nel muro.

Ma se Made To Fly appare come un classico brano dei Cheap Wine, la successiva Head in the Clouds mette a fuoco le novità sonore che cercano di arricchire la tavolozza dei colori con strutture meno scontate. La chitarra di Michele Diamantini, sempre protagonista, non poggia solo sul virtuosismo ma cerca di ricamare delle linee guida con dei riffs che girano in loop. Compaiono i primi campionamenti messi in campo da Alessio Raffaelli che cerca di arricchire i suoni con mille sfumature.

Il brano successivo, a mio modesto avviso, rappresenta il capolavoro dell’album. The Swan and the Crow mostra la coralità raggiunta dal gruppo, con il basso di Andrea Giaro e la batteria cesellata da Alan Giannini vengono posti in primo piano per creare un crescendo emotivo che durante tutto il brano viene accompagnato dall’organo di Raffaelli che conduce magnificamente la linea melodica. Il brano, così come i precedenti, ci spinge subito a pensare che al risveglio dai sogni dell’album precedente, i personaggi di Faces si siano risvegliati nuovamente nella loro “Beggar Town” dove un cigno è destinato a diventare un corvo, ma per fortuna il protagonista non cederà alla prevedibilità della cosa perché ci fa sapere di avere “qualcosa di grande che splende dentro di me” e che in quella città il cigno non diventerà mai un corvo.

Anche il protagonista di The Great Puppet Show si sente, come gli altri fuori posto e viene invitato a diventare parte dello spettacolo di burattini, ma lui sceglie saggiamente di restare in disparte. Uno dei brani registrato su di un incedere molto rock che serve a riaccendere la miccia.

La parte centrale del disco è occupata da altri due brani cardine che sono la title track e Misfit. In Faces la chitarra di Michele Diamantini fa scaramucce con basso e batteria ripetendo ossessivamente un riff killer, mentre le tastiere avvolgono tutto in attesa del crescendo dell’assolo finale. Il brano racconta dei volti che il protagonista incontra sul suo cammino, giorno dopo giorno. Facce che sembrano anonime ed allineate ma che andrebbe scandagliate in profondità per cercare di carpirne le reali potenzialità.

In Misfit Marco Diamantini racconta la sua esperienza con il rock’n’roll e di come questa abbia letteralmente cambiato la sua vita. Un brano nel quale riconoscersi pienamente, soprattutto in tempi come questi dove il rock sembra essere svanito dagli interessi delle masse e spesso ridotto a caricatura di sé stesso. Ci si sente fuori posto oggi in Italia a suonare ed ascoltare quella musica rock data per morta da troppo tempo, che ci fa sentire di essere dei tipi strani pronti “a dire facilmente addio con una valigia piena di sogni che voi dite, sono destinati a sparire”. Un brano sottolineato dalla frase manifesto del disco e del senso di appartenenza che ha il gruppo e chiunque ami questa musica: Rock’n’roll is state of mind.

L’album si chiude con tre canzoni molto diverse tra loro. Princess è una stupenda ballata per “uomini coraggiosi” dove ancora una volta, attraverso l’uso della metafora, si racconta di un uomo alla deriva che d’improvviso riesce a risollevarsi attraverso l’ingresso in una fiaba dove l’amore e l’odio sono in lotta perenne.

Disguise pigia nuovamente sull’acceleratore attraverso una melodia killer ed un ritornello da cantare a squarciagola dove le facce questa volta hanno il trucco di tristi clowns e viscidi mentitori.

Come sempre il brano che chiude il disco è quello che cerca di proporre l’anelito verso un riscatto prossimo futuro. In New Ground ancora una volta la strada è aperta verso l’ignoto ed il protagonista ha bisogno di lasciare la città in cerca di luce e nuovi orizzonti e mette in guardia tutti noi dagli eroi che altro non sono che “un’invenzione creata per chi si sente ingannato e tradito”. Un brano con un incedere psichedelico che si rifà alla grande tradizione del rock, non solo degli anni ’60 e ’70, ma che in me riporta alla mente certe riletture fatte negli anni 80 da gente come Bevis Frond o gli australiani The Moffs.

“Faces” in definitiva non è solo una nuova raccolta di canzoni di un gruppo che ha alle spalle un passato glorioso ma, e la vera sorpresa è proprio questa, che riesce a spostare l’asticella ancora un gradino più su e che frinirà per porsi tra i vertici di tutta la produzione dei Cheap Wine.

[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]







MUSICALMIND
I Cheap Wine rappresentano una delle migliori realtà nel panorama italiano, assai distanti dai suoni e dai parametri usuali del rock Made in Italy.

Formazione di Pesaro nata nel 1990 ma che ha preso una forma definitiva soltanto nel 1996 ha festeggiato così nel 2017 i vent’anni di carriera con l’uscita del loro bellissimo album Dreams.
Il loro nome è stato ispirato dalla canzone Cheap Wine dei Green On Red di Dan Stuart e Chris Cacavas e presente nell’album Gravity Talks del 1983.
La band è sempre capitanata dai due fratelli Marco Diamantini (chitarra, voce, armonica a bocca) e Michele Diamantini (chitarra elettrica e chitarra acustica) a cui viene aggiunta una superba sezione ritmica che in questo nuovo CD è composta da Alan Giannini (batteria e percussioni) Andrea Giaro al basso e Alessio Raffaelli alle tastiere.

Partendo da “Pictures”, mini LP per la Toast Records di Torino del 1997 si arriva oggi a “Faces”, loro 13° album.
Da sempre legati a sonorità americane che passano dal Paisley Underground di Dream Syndicate e Green On Red a chitarristi, songwriter e rocker come Neil Young Tom Petty, Bob Dylan e Bruce Springsteen, non subiscono l’usura del tempo anzi nel 2019 sembrano e sono ancora in piena forma, brillando di luce propria, rigorosamente autoprodotti anche se per gli ultimi due lavori discografici sono ricorsi al crowdfunding.
Michele Diamantini scrive quasi tutte le musiche, Marco Diamantini, qui soltanto in veste di cantante è più incline alla scrittura dei testi.
Il precedente “Dreams” con l’ispirata scrittura dei due fratelli e le fenomenali sonorità ed il pianismo delle tastiere di Alessio Raffaelli in particolare evidenza resta a parer mio il loro punto massimo, il picco e la vetta più alta che si possa raggiungere nello scenario del rock italico.

“Faces” è invece un disco più spigoloso, le chitarre distorte di Michele Diamantini accompagnano i testi delle loro canzoni dove emerge disillusione, rabbia, rassegnazione, disagio.
Made To Fly recita così: Sento questa città scivolare via, strisciare come un serpente, Sento un brivido gelido lungo la schiena, nessuno qui riesce a guardarmi negli occhi, non sono sicuro di essere vivo.
Head in The Clouds attacca così: sono crollato a terra come una mosca da bar in stato confusionale ma non ero ubriaco, stavo recitando, ero stanco, non saprei.
Per certi versi si ritorna al 2014 di “Beggar Town”, uno dei loro dischi più cupi.
La musica di “Faces” riflette i testi delle loro nove canzoni e dove gli stati d’animo sono assai significativi ed in un certo senso fanno pari anche con la loro visione globale già esternata in “Based on Lies” (del 2012) dove il filo conduttore è la menzogna, un mondo per molti versi falso e dove protagoniste sono le facce delle persone che hanno incontrato in tutti questi anni. I testi ed il canto dei Cheap Wine naturalmente sono in inglese ma nel libretto allegato appaiono le traduzioni in italiano delle loro canzoni.
I riff portanti, taglienti e lancinanti della chitarra sviluppano le sonorità del disco creando una certa ansietà, un pensiero negativo ed atmosfere quasi lugubri.
Brani tirati ma al tempo stesso sorprendenti mentre si diversificano la rockeggiante Misfit (significa letteralmente disadattato) in cui ribadiscono il concetto: Rock And Roll Is A State Of Mind (il Rock And Roll è uno stato d’animo) dai suoni più lineari e la ballata di chiusura New Ground (parole e musica di Marco Diamantini). In The Swan And The Crow (il cigno e il corvo) sono le tastiere /sintetizzatore di Alessio Raffaelli a creare momenti di prog anni ’70 mentre già nell’iniziale Made To Fly le tastiere ci riportano ad inquietanti rimandi e zone d’ombra.

Le canzoni di “Faces” sono attraversate da un mood cupo e malinconico in un disco che suscita riflessioni esistenziali. I Cheap Wine sentono il bisogno di portare e di far emergere nei loro motivi la realtà che ci sprofonda davanti agli occhi ed il volto di un mondo che tenta di ucciderci opponendoci alla sincerità e alla affermazione della propria identità.

Sicuramente dal vivo la band ci stupirà con i loro suoni magici e le loro esecuzioni esplosive e sorprendenti mentre sul disco (in “Faces”) ci risultano sempre con il ritmo trattenuto facendo trasparire un umore di disincanto delusione, disinganno.
Ogni loro disco ha una chiave di lettura differente e perciò va analizzata ed ascoltata con estrema attenzione, “Faces” non fa eccezione e piace per il suo realismo.

Una formazione che non ha più nulla da dimostrare e che resta sempre nell’olimpo dei migliori gruppi italiani in assoluto.

[ Aldo Pedron – MUSICALMIND ]





ROCKTIMES
Seit 2009 verfolge ich nun schon das Schaffen der Band. Und immer wieder überraschen sie mich mit ihrer stilistischen Vielfalt, man kann sie einfach nicht in eine ganz spezielle Schublade stecken. Hatten wir uns anfangs noch auf Blues Rock und Americana einigen können, folgten 2014 und 2015 zwei Scheiben, die wir unter 'Rock Noir' eingeordnet haben. 2017 gab es sogar einige progressive Anleihen und zwei Jahre später …

… hab ich feststellen können: Hier wurde nun wieder die E-Gitarre eingestöpselt, sie dominiert ganz klar das Geschehen auf dem Album. Und ich bekomme das Grinsen nicht mehr aus dem Gesicht.
Die Band hat es einfach drauf, sich immer wieder neu zu erfinden, ohne dabei ihre Identität vollends aufzugeben und auch ohne Gefahr zu laufen, sich mit jeder neuen Veröffentlichung zu wiederholen. Maßgeblich dazu bei trägt natürlich auch Marco Diamantinis unverkennbare Stimme.

Die Herangehensweise ist dieses Mal also deutlich rockiger, wird dabei jedoch von einer sehr dunklen, melancholischen Stimmung durchzogen, was sicherlich auch den von Marco geschriebenen Texten geschuldet ist. Sie handeln von Verzweiflung, Leid, von den verschiedenen Facetten der Seele sowie von dem Verlangen auszubrechen aus dem Alltag, vom Wunsch zu Flüchten aus einer zerstörten Stadt.

Michele legt gleich beim Eröffnungssong, "Made To Fly", ordentlich los, vorangetrieben von Alan Giannini an den Drums und Andrea Giaro am Bass. Dazu wird das Stück von pulsierenden Piano-Tupfern begleitet, um somit eine hochemotionale Spannung zu erzeugen. Dem Gitarristen wurde sogar Freiraum für ein Solo eingeräumt. Und dieses Solo ist keine zur Schau gestellte Frickelei, es wurde dem Geschehen entsprechend dezent angepasst. So kann es gerne weiter gehen.

"Head In The Clouds" beginnt mit einem Flirren, welches klingt, als würde man in eine verstopfte Trillerpfeife blasen, sowie einem akustischen Solo, bis die E-Gitarre, gemeinsam mit dem Keyboard, auch hier wieder das Zepter übernimmt. Die Nummer baut sich ganz langsam auf, um am Ende fast zu explodieren. Der Einsatz des Wah Wah-Pedals verleiht dem Ganzen noch den letzen Kick.
"The Swan And The Crow", ein wunderbar nach vorn treibendes und dennoch unaufgeregtes Stück, gehört jedoch nicht unbedingt zu den Kompositionen auf der Platte, die sich von Anfang an in die Gehörgänge bohren.

Mit "The Great Puppet Show" hat man wieder einen soliden Rock-Song auf das Album gepackt, bei welchem so mancher Banger live das mehr oder weniger vorhandene Haupthaar schütteln kann. Ein echter Stadionrocker! Lustig finde ich die dazwischen gespielten, doch sehr schräg klingenden Klavierpassagen.

Der Titeltrack ist mit etwas über sechs Minuten das längste Stück auf der Scheibe und gehört für mich zu den absoluten Highlights. Schon das Intro lässt einen regelrecht erschauern und gespannt darauf warten, was weiter passieren wird. Harte Drum-Schläge setzen ein, Gitarre und Keyboard spielen sich gegenseitig die Bälle zu und Marco erzählt von einem düsteren Szenario: »The sun goes down, the yellow Moon comes up an this town full of broken glass. Low-down scarectrows in the dark sowing fear, feeding pigs and sharks.« Am Ende duellieren sich Keyboard und Gitarre ganze drei Minuten lang – doch keines der Instrumente drängt sich in den Vordergrund – und schaffen eine eigenwillig-beklemmende Atmosphäre. Interessant sind immer wieder die kleinen soundtechnischen Spielereien, die gekonnt Akzente setzen und für die eine oder andere Überraschung sorgen.

"Misfit" hört sich zwar im ersten Moment wieder hoffnungsvoller an, doch der Text ist das völlige Gegenteil davon. Marco erzählt von einem Außenseiter, der sich gänzlich fehl am Platz fühlt, der verrückt, faul und eitel ist, ein erwachsener Mann mit dem Gehirn eines Kindes.
Auch "Princess" gehört in die Kategorie 'Düsternis'. Marco Diamantini versteht es immer wieder seine Stimme so einzusetzen, dass man das Gefühl hat, einem Geschichtenerzähler zuzuhören. "Princess" hätte auch aus der Feder von Nick Cave stammen können.
"Disguise" klingt dagegen irgendwie fröhlich, ja richtig locker flockig, die Lyrics ’sprechen' jedoch eine ganz andere Sprache: »The steets are on fire, grey smoke and ash on the tround. The sky ist black, the sun goes down, the night comes fallin withhout a sound.«

Beendet wird das Album mit "New Ground", einer sehr zerbrechlichen Nummer. Regelrecht träge perlen die Töne ganze 5:36 Minuten lang vor sich hin, ja sie scheinen regelrecht zu schweben. Nur dezent ist das Schlagzeug zu hören und ein weiterer  Spannungsbogen folgt durch das Einstreuen leicht psychedelische Klänge, die Michele seiner Gitarre entlockt. Auch das Keyboard sorgt für atmosphärische Dichte, um die hier vorherrschenden tiefen Gefühlsregungen wiederzugeben, die Gefühle bei der 'Flucht aus der hoffnungslosen Stadt'!
Hammerhart und weckt bei mir Assoziationen an Led Zeppelins "Tea For One" zum Beipiel.

Die Band hat mit diesem Album wieder einmal ein hervorragendes Werk geschaffen, von tiefen Emotionen geprägt, deren tonale Umsetzung geradezu meisterhaft gelungen ist.
CDBaby empfiehlt diese Scheibe den Fans von Lou ReedNeil Young und Nick Cave. So weit hergeholt finde ich das gar nicht. Entstanden ist die Platte übrigens per Crowdfunding.
Gönnt "Faces" unbedingt ein paar Hördurchgänge und ihr werdet feststellen, es 'wächst' mit jedem Repeat.

[ Ilka Heiser – ROCKTIMES ]

 

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Dreams
CD: "Dreams" (2017)


MESCALINA
Dodici album, da Pictures a questo ultimo“Dreams”, costituiscono il racconto sonoro gioioso, spesso sofferto, fatto di grandi riconoscimenti ma anche di delusioni e disillusioni, dischi che hanno fatto spesso da sottofondo alle mie giornate. Un percorso di vita srotolatosi attraverso grandi dischi per arrivare a quello che rappresenta l`apogeo della carriera dei Cheap Wine. Sì, avete letto bene, questo è il culmine di una carriera scintillante partita,a quel tempo, con riferimenti artistici ben precisi, e via via fattasi personale, imbevuta di una capacità di creare album ricchi di sfumature e colori che, col tempo sono arrivati ad essere tanto iridescenti musicalmente, quanto profondi, a volte drammaticamente "dark" nei testi. Aspetti che hanno sempre caratterizzato i dischi della band, e che sono diventati sempre più importanti. I testi sono una parte   fondamentale per comprendere cosa vi sia all`interno di un album dei Cheap Wine. Se non si presta attenzione a questo aspetto non è possibile comprendere appieno lo sforzo e la cura che si cela dietro gli album del gruppo.

Marco Diamantini scrive nella introduzione del volume intitolato Cheap Wine, uscito in contemporanea al nuovo album, e contenente tutti i testi e le traduzioni di tutte le canzoni incise dalla band fino ad oggi (quindi incluso Dreams): "Ho sempre pensato che il testo di una canzone non sia separabile dalla musica. Le parole non possono essere prese, estrapolate e lette senza ascoltare la base musicale che le trasporta"  

Nulla di più vero. Specie ora con “Dreams”, dove musica e testo sembrano un racconto che si sviluppa partendo proprio dal primo pezzo, Full of Glow, che traccia le coordinate sulle quali si dipanerà il disco. L`incrocio con due strade davanti a sè: una cupa, addirittura nera, pronta a riportarti nel dolore e nella disillusione del recente passato, l`altra bianca, quasi abbacinante, ma davvero attraente. Una via d`uscita che, passo dopo passo, canzone dopo canzone, porterà all`apoteosi finale della title track, al trionfo della speranza che i sogni prendano definitivamente il sopravvento sulla realtà ancora fondata su tentazioni inutili che si alimentano su falsità create alla bisogna per sostenerle. Ma l`immagine della "Città addormentata risplendle, alle prime luci dell`alba. E sbadiglia avvolta da un bagliore rosa. Il risveglio è faticoso, lo so, ma apri gli occhi.Il mondo meraviglioso è al di là di quella porta" che apre “Dreams”, consegna emozione pura cristallizata su una partitura musicale semplicemente fantastica. 

Chi ha avuto la possibilità di vedere i Cheap Wine presentare il nuovo disco, avrà certamente notato il livello altissimo  ormai raggiunto dalla band. Le chitarre poggiano salde fra le braccia di Michele e Marco Diamantini. La sezione ritmica è calda ed avvolgente, ed affidata alle sapienti mani di Alan Giannini alla batteria e Andrea Giaro al basso. Per il colpo al cuore ecco inserirsi Alessio Raffaelli al pianoforte ed alle  testiere, intento a disegnare splendide ed assassine melodie, degne di una delle tanto decantate band che ci hanno fatto sognare in tutti questi anni di militanza Rock. Uno spettacolo al quale, fortunatamente, si avvicinano sempre più ascoltatori, magari casuali, ma che vengono irretiti dalla bravura e dalla classe dei Cheap Wine, come recentemente accaduto a Chiari un paio di settimane fa nel corso di una serata memorabile.

Per chi scrive“Dreams” è uno dei dischi dell`anno, uno di quei meravigliosi album che si tramenderanno nel corso degli anni, tornando regolarmente nel lettore. La title track è così bella che non potrete che innamorarvene.

Il libro, contenente le foto di Renato Cifarelli, Roberto Bianchi e Andrea Furlan, contiene anche aperture scritte da Edward Abbiati (Lowlands), Fulvio Felisi, Alessia Borgarelli, Andrea Chiodaroli, Eliseno Sposato, Maurizio Ciocchetti, Fabio baietti e Fabio Fumagalli. Costa 15 Euro e potete ordinarlo direttamente sul sito della band (www.cheapwine.net).
Se vi volete bene, o se avete qualcuno a cui regalare amore, beh, Dreams e questo libro sono in grado di dispensarne a piene mani.

[ Marcello Matranga – MESCALINA ]









LOUDD

Vent’anni di carriera sono un traguardo ragguardevole, certo, ma non impossibile da raggiungere. Quel che fa la differenza, però, non è il tempo trascorso, ma è la strada che si è scelto di percorrere. In tal senso, la discografia dei pesaresi Cheap Wine rappresenta quasi un unicum nell’accidentata geografia dell’indie italiano: un percorso di qualità e di coerenza artistica, alla ricerca di un suono che, per quanto suggerisca una parentela stretta con il grande rock statunitense, oggi si è trasformato in un marchio di fabbrica. Tanto che i continui richiami al Paisley Underground o a ingombranti figure come Bruce Springsteen o Neil Young, pur necessari a inquadrare il genere, non rendono merito alla band: i Cheap Wine suonano come i Cheap Wine, il loro pedigree è autorevole, la loro musica, così densa di passione, così potente ed evocativa, è immediatamente riconoscibile.
“Dreams” non solo sigilla splendidamente un ventennale di carriera senza sbavature, ma rappresenta anche l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con “Based On Lies” (2012) e proseguita con “Beggar Town” (2014). Tre dischi legati a doppio filo, tre dischi che intrecciano l’arte della canzone con la riflessione sociale e politica, che rinsaldano quel legame, spesso dimenticato, tra la musica e le liriche, intese come strumento per veicolare consapevolezza e ragionamento.
Se “Based On Lies” raccontava con amarezza la deriva etica di un mondo dominato dalla menzogna, e “Beggar Town” osservava la miseria e lo sfacelo di una società in debito d’ossigeno, spronando però alla ricerca di un riscatto, “Dreams” sposta ulteriormente la prospettiva, introducendo il tema del sogno, come lasciapassare per immaginare e realizzare un mondo migliore.
Il sogno come dimensione notturna delle nostre coscienze, come habitus mentale per approcciarsi alla vita e guardare al di là delle convenzioni, come raccoglimento che ci preserva dalla frenesia dei nostri giorni (“La fretta sperpera il tempo, a volte è meglio rallentare e allontanarsi dalla città” da Cradling My Mind), ma anche come romito ai problemi della vita, immaginario imprevedibile attraverso cui ci scindiamo dalla nostra fisicità.
Su questo tema, complesso ma ricco di spunti, sono incentrati i testi di Marco Diamantini, la cui voce intensa, carezzevole e al contempo potente, viene assecondata da una band che interpreta al meglio il mood dell’album: la sezione ritmica di Alan Giannini (batteria) e Andrea Giaro (basso), asciutta, precisa, sostanziale, il tocco alle tastiere di Alessio Raffaelli, che cuce le emozioni in un’onirica visione di chiaroscuri, e la chitarra di Michele Diamantini, essenziale nella costruzione dei riff, tanto fantasiosa nell’uso del pedale wah wah, quanto innervata di tensione e drammaticità nel momento in cui ruba la scena per un assolo.
Pochi dischi riescono a possedere una tale compattezza emotiva, a esprimere senza cedimenti un pathos autentico, che si rigenera, di canzone in canzone, in un alternanza fra giorno e notte, fra sogno e realtà, fra illusioni ipnagogiche e la certezza tangibile del risveglio. In scaletta non troviamo un solo filler, e ogni brano è frutto di una sincera ispirazione: dalla zampata rock dell’iniziale Full Of Glow, così possente nella sua classicità, all’andamento caracollante di Naked, emozionante gioco di rimandi fra chitarra e hammond, fino agli echi seventies dell’intensa Reflection e alla cupa malinconia di Pieces Of Disquiet, sprofondo notturno infestato dai fantasmi del mal di vivere. Un disco superbo, dunque, la cui bellezza potrà stupire solo coloro che, fino a oggi, non hanno ancora avuto modo di conoscere la musica dei Cheap Wine. Per tutti gli altri, la conferma che anche in Italia esiste una grande rock band.

A suggellare la celebrazione del ventennale, sul sito del gruppo (www.cheapwine.net) è in vendita un libro che raccoglie, in 274 pagine, tutti i testi delle canzoni. Vent’anni di emozioni da non lasciarsi sfuggire.

[ Nicola Chinellato – LOUDD ]












BABYSNAKES
C'è un gruppo che da una ventina d'anni suona chiuso in una cantina, nel suo furgone, nel tempo di mai. Condannato ad una autoproduzione irreversibile, ad una autonomia da cantina esistenziale che è croce e delizia, gli ha impedito le grandi ribalte e gli ha guadagnato una fama di coerenza e indipendenza da un agguerrito drappello di sostenitori dalle Alpi a Capo Passero. Lo stesso che ha consentito l'ultimo sogno.
I Cheap Wine sono marchigiani, pesaresi, il loro immaginario resta l'America delle grandi arterie dove ti annulli in mezzo al nulla, lunghe epiche traversate alla ricerca del te stesso che non sei, perché ti fermerai già diverso da come eri partito; ma quell'immaginario si declina poi nel sole e nelle brume adriatiche, tra il mare e la Statale negli orizzonti soffocanti e profondi di chi soffre qua. “Dreams”, ultimo nato grazie al crowdfounding, chiude la trilogia della disperazione, passata dallo sgomento (“Based On Lies”) alla rinuncia (“Beggar Town”), fino alla catarsi e qui li aspettavamo. Perché per chi soffre fino alla feccia, una catarsi c'è sempre.
Musicale, anzitutto. I Chep Wine erano, sono bravi in quel gioco immaginifico che va dal commento emozionale all'inno, ma a questo giro hanno imparato la malizia: sanno escogitare, e non più ne hanno scrupolo, la cadenza assassina, come nell'apertura di Full Of Glow, il gancio che ti ammazza, il ritornello nel cervello, dulcis in fundo la ballata a cui non sai resistere. E di ballate ce ne sono in “Dreams”, più che in passato.
Ma non si pensi a un disco facile, ruffiano. Tutt'altro: non sono mai stati così oscuri, così gotici. Sarà una catarsi, ma ricorda bene tutto l'abisso da cui sale. La polvere è scura, non si capisce se per lo smog o per la notte che viene.
Verrebbe da dire che hanno finalmente imparato a suonare come professionisti, ma l'avverbio è certo ingeneroso e poi la loro intransigenza di sognatori resta intatta. No, qui c'è qualcosa di meno e molto di più.
C'è un gruppo dove i singoli non strafanno mai, sono sempre al servizio dell'entità, si tratti di passaggi di chitarra che rievocano, se Michele vuole, quando vuole, ora Mick Taylor, ora Mark Knopfler, o di strisciate di organo con cui Alessio ricama riff da epopea del rock. C'è la voce di Marco, che frontman si fa coscienza collettiva, non più arroccata, invece arrocchita al punto giusto perché la classe è classe e anche sfoggia un bel 1966 all'anagrafe: la pronuncia rigorosamente inglese è ormai servita a puntino (in italiano, i fratelli Diamantini non si produrrano mai: facciamocene una ragione), e il ragazzo canta in un suo modo strano: come uno a cavallo tra il cinismo della rassegnazione e lo sgomento d'aver trovato a chi affidare il suo lascito.
L'eredità dei Cheap Wine sono loro stessi: niente di meno e niente di più.
Sta nei 12 dischi finora, in questo libro a corredo che ripercorre la loro cavalcata sempre faticosa, ingrata ed esaltante; sta in questo ultimo album che è probabilmente il loro migliore, e trovatene altri che dopo due decenni spesi a cavalcare una strada di vetri e chiodi d'illusioni, riescono ancora a surclassarsi – partendo da standard già molto alti: chi ha confidenza con gli strumenti, chi suona e sa ascoltare, capisce immediatamente di cosa parliamo. Questione di impasto, di soluzioni calibrate, rarissimamente annunciate, seppur in un genere che, a spanne, va da Neil Young e compagni ai redivivi Dream Syndicate passando per il compianto Tom Petty senza negarsi spruzzate di Rolling Stones periodo Sticky Fingers. Potente. Dolente. Oscuro. Una musicalità rinnovata e una consapevolezza diversa.
La catarsi: avere un (primo) figlio nell'età della ragione può essere destabilizzante per un musicista, ma quando Marco canta un verso insidioso come (traduciamo) Se riuscirai a volare per il cielo un giorno/Ti accorgerai che il dolore non è nulla, tu capisci che quell'uomo è rimasto più figlio di suo figlio: saprà difenderlo, come è giusto, ma non saprà mai difendere se stesso. Dreams, nel suo colmo di significati e significanti, in quel voler essere a tutti i costi, è un disco fuori dal tempo, un album obsoleto. Perché il tempo, oggi, è quello degli Spotify che dettano legge e ai produttori impongono le regole per costruire i brani, passaggio per passaggio, minuto secondo per minuto secondo, suono dopo suono; è il tempo degli artisti che diventano artisti senza esserlo mai stati, e senza che lo saranno mai. Proprio per questo, “Dreams” è scandalosamente attuale: ricevine le vibrazioni in macchina, traversando un qualsiasi presepe vivente, e nel volto di sconforto del bottegaio in vana attesa dietro la sua vetrina, nelle teste all'ingiù dei passanti spenti, in quell'aria svuotata che li avvolge e che tutto avvolge, che tutti ci schiaccia, avrai trovato la colonna sonora di un presente ignobile; ed è commento musicale che va bene per un qualsiasi agglomerato, nell'America sprofonda come per i villaggi adriatici, italiani che costellano un Paese sconfitto.
Un messaggio per un bambino che nasce, onesto fino alla brutalità, ma allo stesso tempo l'invito, quasi imperativo, a non smettere il sogno della speranza.
Un disco terribilmente ispirato, concepito per esistere, per resistere, per non passare inosservato, per non passare. Come si usava una volta.
E, come si diceva una volta, l'unica commento possibile è col rasoio di Occam, tagliando via le ipotesi, gli orpelli, le elucubrazioni: un disco della Madonna.

[ Massimo Del Papa – BABYSNAKES ]







IL SUSSIDIARIO
"I sogni imprevedibili. Possono essere belli, brutti, stravaganti, inquietanti. Rassicuranti o spaventosi. A volte vorresti svegliarti prima che finiscano, a volte vorresti non svegliarti mai, A volte il risveglio è un sollievo, altre volte una delusione. Ma i nostri sogni sono indispensabili per capire meglio chi siamo". Così scrive Marco Diamantini con parole che farebbero felice Carl Jung nell'introduzione al libro dei testi con traduzione che ha scritto per la sua band di sempre, i Cheap Wine (disponibile ai concerti e sul sito ufficiale del gruppo). Perché i sogni sono la chiave per entrare in contatto con il nostro Io profondo, quello  che sin dalla nascita regole e imposizioni vogliono censurare e soffocare, ma che è impossibile reprimere, e trova proprio nei sogni il suo modo per comunicare con noi.

“Dreams”, sogni, è anche il titolo del nuovo, eccellente lavoro del gruppo marchigiano. Incredibile pensare che dietro ci siano vent'anni di dischi e concerti. Una storia lunga, quasi impossibile in Italia per qualunque band che non abbia colto un successo di massa. Ma i Cheap Wine ci sono ancora, e lottano insieme  a noi, viene da dire, perché di noi tutti hanno sempre saputo raccontare l'essenza. 

La band indipendente per eccellenza italiana conclude con “Dreams” una sorta di trilogia ideale cominciata con l'amarissimo e disperante “Based On Lies” del 2012, continuata con i primi squarci di redenzione nel successivo “Beggar Town” e conclusa oggi. Forse. Perché sebbene “Dreams” sia un invito alla speranza, a seguire i propri sogni per rimanere vivi, il clima musicale è a tinte scure, lente ballate rock che si muovono appunto come dei sogni, insinuatrici, pericolose, tra realtà e irrealtà. Il dubbio resta, perché così è la vita: niente scuse, niente menzogne. Un clima oscuro che però si dipana man mano nel disco, come la luce che all'alba squarcia il buio della notte e dei suoi incubi che vanno a trasformarsi in sogni e poi in realtà.
Così è musicalmente il disco: l'inizio graffiante, incalzante della rollingstoniana Full Of Glow che ci precipita di schianto in questa notte; la cupissima, cadenzata come da campane a morto Pieces of Disquiet, visioni di follia, con la chitarra  che rilascia rasoiate che feriscono; Bad Crumbs, ballata gothic dark. Le luci cominciano a irrompere con la deliziosa Cradling my Mind, che fa toccare con mano i meravigliosi paesaggi collinari delle Marche alle luci del mattino presto e poi con la ballata rock pimpante, sostenuta da uno splendido organo anni 60, alla Ray Manzarek, For the Brave

Da qui è un viaggio verso la speranza, illuminato dalla melodia tenue molto british folk di Reflection con flauto e violoncello fino alla title track conclusiva, uno spoken word in crescendo dove il finale è appannaggio del sempre eccellente Michele Diamantini, che qui si diverte a importare lo stile tipico del miglior Mark Knopfler.

Un disco che ha nell'accuratezza sonora la sua arma vincente: bisognerebbe rivolgersi al mago del missaggio Chuck Plotkin per ottenerlo, invece qua siamo davanti al risultato di un crowdfunding. Sembra di essere in studio di registrazione con loro, la pulizia e la qualità sono altissime, le tastiere e il piano elettrico del bravissimo Alessio Raffaelli emergono dai riff chitarristici, mentre alla sezione ritmica è data tutta la dignità che merita.

I Cheap Wine confermano la loro attitudine coraggiosa: ogni disco è una nuova sfida, prima di tutti per loro stessi, poi per gli ascoltatori. Nessun piatto facile servito sulla mensa della banalità. Qua si gioca per vincere o morire. 

Visti dal vivo allo Spazio 89 di Milano proprio in questi giorni, in una sala stracolma di pubblico, dove hanno presentato per intero il nuovo disco, pur con qualche emozione dovuta al bisogno di rodare il nuovo materiale, si sono confermati quella potentissima macchina da concerti che sono, con un delizioso omaggio a Tom Petty (A Face in the Crowd) e la loro capacità, a differenza di tanti gruppi nostrani, di cavalcare sonorità diverse, esplorandole a fondo, dai Pink Floyd anni 70 al progressive dei primi Genesis mantenendo bene i piedi nel rock americano da cui hanno preso origine. Fino alla esplosione finale della magnifica The Fairy Has Your Wings, lunghissima e incantata, dove emerge la compattezza sonica di una band che non ha rivali in Italia. 

[ Paolo Vites – IL SUSSIDIARIO ]





BUSCADERO
Quest’anno i Cheap Wine, rock band italianissima originaria di Pesaro, festeggiano i vent’anni dal loro esordio discografico (il mini album “Pictures”), vent’anni di musica orgogliosamente indipendente e priva di compromessi. Personalmente non ho iniziato a seguirli da subito, avevo ascoltato un paio dei loro primi album e mi erano piaciuti, ma ritengo che la svolta artistica della loro carriera sia avvenuta prima con “Freak Show” (2007), ma più ancora con il bellissimo “Spirits”(2009), un lavoro maturo, profondo, decisamente “americano” e di un livello professionale davvero alto.

Il live doppio dell’anno seguente,“Stay Alive!”, mi aveva poi letteralmente steso, un disco di una potenza e di un’intensità quasi impossibili da trovare in una band italica: mi aveva colpito a tal punto che lo avevo inserito tra i dieci dischi più belli di quell’anno, ed io non sono uno che guarda tanto all’interno dei propri confini quando si tratta di fare delle liste.
Nel 2012 un altro disco bellissimo,“Based On Lies”, un album dai testi pessimistici e cupi, che narrava di una società allo sbando nella quale nessuno diceva la verità, una situazione ancor di più aggravata dalla crisi economica. Testi amari, ma grande musica, con alcune delle canzoni più belle del gruppo (Waiting On The Door, Give Me Tom Waits, la title track e la magnifica The Vampire), che rivelavano le nobili influenze della band guidata dai fratelli Marco e Michele Diamantini, da Bruce Springsteen a Neil Young, passando per Tom Petty ed anche gruppi “minori” (il virgolettato è ironico) come Dream Synidicate e Green On Red (ed il loro nome deriva proprio da un brano del primo disco della band di Dan Stuart, Gravity Talks…e meno male che non hanno scelto di chiamarsi Narcolepsy, che è il titolo della canzone che veniva dopo).

Due anni dopo ecco “Beggar Town”, un disco ancora più cupo del suo predecessore, stavolta anche nelle musiche, con tracce anche di Leonard Cohen e Lou Reed, un vero e proprio seguito di Based On Lies, con i protagonisti delle canzoni che dovevano far fronte ai disastri causati dai problemi emersi sul primo disco, e trovare la forza di risollevarsi.
Dopo un altro eccellente live, "Mary And The Fairy" (2015), i Cheap Wine hanno ora completato la trilogia con Dreams, un album di dieci canzoni selezionate accuratamente su una quantità decisamente superiore, e pubblicato tramite un crowdfunding iniziato i primi mesi di quest’anno (ne parlo in anteprima in quanto ho partecipato alla sottoscrizione e ne ho ricevuta una copia, il disco sarà in commercio in questi giorni, ufficialmente esce il prossimo 3 ottobre 2017 con distribuzione Ird).

“Dreams” è un lavoro più ottimistico dal punto di vista dei testi, e descrive il bisogno di amore e di sogni che hanno le persone per affrontare i problemi, e per sogni si intendono quelli che si fanno per il futuro ma anche quelli notturni, magari strani e particolari ma che possono anche lasciare sensazioni bellissime. Per quanto riguarda le musiche invece “Dreams” è a mio parere superiore a “Beggar Town”, e si mette sullo stesso piano di “Based On Lies”, diventando uno dei più belli del gruppo pesarese, almeno a mio giudizio: Marco Diamantini è un cantante dalla voce calda e con sfumature che gli permettono di passare con disinvoltura da un genere all’altro, il fratello Michele un chitarrista formidabile, potente e vigoroso ma quando serve anche raffinato, tecnica e feeling allo stato puro, Alessio Raffaelli un tastierista ormai indispensabile al suono della band, e la sezione ritmica formata da Andrea Giaro (basso) ed Alan Giannini (batteria, un macigno, il Kenny Aronoff, o Max Weinberg, italiano) è tra le migliori al momento nella nostra penisola.

Il CD, in digipak e con i testi scritti sia in inglese che in italiano, inizia con la tonante Full Of Glow, una rock’n’roll song chitarristica dal ritmo trascinante e basso e batteria che picchiano come fabbri, come se Steve Wynn fosse per un giorno il cantante dei Rolling Stones.
Una parola per la pulizia e la qualità del suono, davvero spettacolare.
Naked ha un intro di chitarra younghiano, ma subito entra un organo insinuante ed il brano si sviluppa sinuoso e diretto nello stesso tempo, con Michele che inizia ad arrotare alla grande, peccato soltanto che l’assolo sia sfumato nel finale.
La cadenzata The Wise Man’s Finger, con un ottimo lavoro di piano elettrico, è suadente e con un mood notturno, una melodia fluida che Marco porge nel modo migliore, con una punta di “viziosità” che non guasta, mentre Pieces Of Disquiet è scura, cupa e drammatica, cantata con un tono di voce basso e ricco di fascino, ed uno uso intrigante del piano, un pezzo che rimanda quasi alle cose migliori di Nick Cave: il brano ha uno sviluppo ricco di pathos e dimostra che i ragazzi sono ormai una realtà di livello internazionale, grande canzone.
Bellissima anche Bad Crumbs And Pats On The Back, una rock song dura e diretta come un pugno, con la chitarra che fende l’aria da par suo, ed il motivo è decisamente immediato; Cradling My Mind è una ballata sempre elettrica ma con un mood più rilassato, e Marco dimostra di avere una buona duttilità vocale: una boccata d’aria fresca prima di tornare in ambito rock’n’roll con l’irresistibile For The Brave, gran ritmo, chitarre a palla ed organo dal suono vintage, impossibile tenere fermo il piede (dal vivo farà certamente faville).
I Wish I Were The Rainbow è splendida, una rock ballad dal suono classico, un organo caldo ed una melodia distesa e fluida, per uno dei testi più ottimisti del disco, una sorta di ringraziamento verso una persona cara per l’aiuto che fornisce nell’affrontare le difficoltà quotidiane.
Il CD, 44 minuti spesi benissimo, termina con la dolce Reflection, un raro episodio acustico con tanto di violoncello e tastiere anni sessanta, quasi pop ma di gran classe, e con la title track, un pezzo che nel testo riassume tutto il senso del disco (citando anche il titolo del primo album della trilogia, Based On Lies), mentre musicalmente è un altro slow intenso ed emozionante, con Marco che lo interpreta in maniera decisamente toccante, un misto di cantato e talkin’, quasi alla Roger Waters, ed un crescendo strumentale notevole, un finale perfetto per un altro splendido lavoro.
Ho pochi dubbi: in questo momento i Cheap Wine sono la migliore rock band italiana.
E se dovessero passare dalle vostre parti, non fateveli sfuggire.

[ Marco Verdi – BUSCADERO ]









CALA (-) LAND
C'è un uomo ad un incrocio, all'inizio di “Dreams”, dodicesimo album dei Cheap Wine, eroico gruppo rock marchigiano che ha festeggiato con questo disco il ventesimo anno di attività. (VENTANNI!!)

Metti l'incrocio che noi malati di america chiamiamo crossroad, mettici la chitarra all'inizio di Full of Glow che sa molto di Stones, in un attimo si capisce che stiamo entrando in una storia importante, da leggere, ascoltare e vivere con attenzione.

Quindi il bivio, le crossroads, il blues, che in questo album striscia insidioso un po' in ogni pezzo e ci aiuta a comprendere quanto sia profondo il travaglio del protagonista; e dove c'è un bivio e dove c'è il blues, non può che esserci Robert Johnson.

Full of Glow apre il disco facendoci intendere che chi parla lo vuol fare direttamente, senza filtri o bugie e senza peli sulla lingua; tutte le canzoni del disco sono scritte in prima persona e alla fine dell'ascolto di “Dreams”, forte è l'impressione di aver ascoltato un amico raccontarci del suo viaggio all'inferno, felice di potercelo raccontare.

Il mondo è in disordine, soprattutto quello interiore, e per provare a muoverci dobbiamo incontrare strani personaggi. Sono diversi quelli che compaiono nel disco, a partire dal serpente pigro ed orbo, che predica calma, per proseguire con il blues in persona, mister Robert Johnson, che appare a fine canzone, in compagnia ovviamente del diavolo, per dare la scossa necessaria ad intraprendere questo doloroso viaggio.

La musica come salvezza e come peccato dunque, la spinta per procedere ed il demone sempre a fianco, la musica che contiene in sé gli elementi fondamentali per salvarsi: l'amore ed il sogno, ma che ti ricorda sempre che la tentazione, quella più dolce, è sempre dietro l'angolo.

Full of Glow va collegata alla title track, perchè l'uomo che davanti ad un incrocio resta paralizzato dall'indecisione è lo stesso che parla ad un figlio nel brano conclusivo; la strada è stata lunga, dura e pericolosa, sono servite lacrime, sangue e merda, ma alla fine la strada porta ad un traguardo, che NON sono i fiori sgargianti in copertina, bensì il cielo che si intravede dentro di essi.

Ma per arrivare a tenere in braccio un figlio, metafora molto concreta ed autobiografica e potergli indicare a sua volta una strada, il nostro protagonista passa attraverso momenti importanti e dolorosi.

Il capire la necessità di spogliarsi di tutto per arrivare al cuore, al nocciolo della vita, porta l'uomo alla nudità ed alla derisione; il mondo oggi è pieno di cose e chi se ne libera, fino all'estrema rinuncia, viene deriso, perseguitato ed arrestato, tragicomico paradosso della realtà dove "è il travestimento da condannare".

Un inquietante pagliaccio "kinghiano" compare in The wise man's finger, amara ballata che sottolinea come ormai l'essenziale sia diventato contorno e tutti si affannino alla ricerca del futile. Perfino la luna guarda il dito del saggio, conclude tristemente l'uomo che cammina al buio, uno dei pochi con un cuore, costretto però a nasconderlo, perché ormai anche il cielo non si interessa più della verità ed il diavolo può avvolgerci con i suoi occhi carichi di morte.

Prospettive del genere non fanno altro che creare inquietudine in chi ancora cerca un senso al proprio esistere, quindi in Pieces of disquiet è la paura che regna sovrana, la paura della notte, del buio per gli occhi e per l'anima, che blocca e rende incapaci di proseguire. È l'ennesimo momento cruciale continuare, combattere la paura o arrendersi ad essa? Il brano non risponde, l'uomo è perso ad ascoltare il silenzio nella sua testa, rotto solo da angoscianti insetti che ci camminano dentro.

Bob Dylan che rivisita Orwell, questa a caldo l'impressione che ho avuto ascoltando e leggendo la traduzione di Bad Crumbs and pats on the back; uno scenario tragicomico, conigli e maiali, i corvi che banchettano, il degrado sembra inarrestabile, ma il protagonista in tutto questo fa due cose: si sveglia e ritrova nel suo essere bambino la purezza necessaria ad andare oltre; dopo tanto buio forse davvero è una giornata di sole.

Il viaggio continua quindi e l'uomo si concede il lusso di guardarsi attorno, dopo tanta miseria e tanta oscurità, per riscoprire nella semplicità di ciò che abbiamo attorno un buon motivo per essere speranzosi. In Cradling my mind ancora non si sa dove si stia andando, ma questa indecisione ora è affiancata da una serenità nuova.

Musicalmente tutto il disco pulsa di una energia nascosta, mai esplicita, basso e batteria danno forte il senso della vitalità dell'uomo, ma i giri restano sempre bassi, il motore è impaziente ma il piede non schiaccia mai l'acceleratore fino in fondo.

Tranne in For the brave, dove la macchina da rock che sono da 20 anni i Cheap Wine deflagra potente con l'organo che da la carica come una tromba davanti ad un battaglione pronto all'attacco conclusivo. Ci vuole coraggio, capisce l'uomo dopo che la luce ha preso il posto del buio ed ora l'orizzonte appare meno scuro. C'è una via d'uscita per i coraggiosi, da questo posto che sembra il paese dei balocchi di Pinocchio, raccontato però da Lovecraft.

Si inizia ad intravedere l'uscita e gli ultimi brani ci raccontano le tappe finali dell'uomo, che capisce come l'amore sia la forza principale per attraversare la pioggia come l'arcobaleno. I wish I were the rainbow è la luce che illumina un volto tra tanti rendendolo però unico agli occhi di chi lo incontra, è un sorriso che ci denuda ma stavolta per amore, con amore, per farci arrivare al nostro io più profondo.

Il viaggio è finito, l'uomo riflette sdraiato sul letto, due paia di gambe che si incrociano, pensieri che si alzano e l'uomo che capisce che tutto quello che è successo prima non va dimenticato, nè perduto, ma conservato per crescere; è tempo di volare ora, liberi da fardelli inutili e rischiosi.

Arriviamo a Dreams, brano che chiude il disco.

L'uomo è sul letto, vicino ad un bambino, suo figlio, che cerca di svegliarsi o forse dorme ancora.
L'uomo gli parla come mai ha fatto prima d'ora, le sue parole sono amore, saggezza e libertà: figlio mio, sono qui di fianco a te e ci sono arrivato passando per strade cariche di indecisione, buio, falsità, dolore, ma siamo qui, ora e là fuori c'è un mondo che si sta preparando per te.
Le parole di questa canzone avvolgono il cuore di bellezza ed amore, una sorta di testamento spirituale, per il figlio ma anche per sè stesso, come un esame di coscienza per capire se tutto è stato fatto, e la risposta è SI.

Il padre sa che il figlio dovrà fare la sua strada e probabilmente in certi momenti non ascolterà affatto i suoi consigli, ma sa anche che questo è il fine ultimo di ogni vita davvero vissuta, lasciare qualcosa di buono nella vita di chi ci sta accanto, soprattutto nella vita di chi da noi ha ricevuto la vita.

E dopo tutto quello che ha passato, quando le utopie che pensava fossero sogni irrealizzabili hanno iniziato ad essere concreti obiettivi ecco che ci viene svelato come l'uomo (ed i Cheap Wine stessi) sublimi in questo momento tutte le sue esperienze. L'uomo è scappato dalla beggar town di cui i CW cantavano nel disco precedente ed il padre non si stanca di ricordare che "the system is based on lies" (titolo del terzultimo album e primo di una trilogia che si chiude ora).

Resta un bambino, resta una frase che sintetizza una vita e una carriera
"più di ogni altra cosa, segui sempre i tuoi sogni".

La musica pian piano sfuma, lasciando spazio ad un rumore di sottofondo, quasi come di grilli alle prime ore mattutine.

C'è un giorno nuovo da vivere, c'è una vita nuova da costruire.

[ Alberto Calandriello – CALA (-) LAND ]








AUDIO REVIEW
Sono trascorsi vent’anni dacché i Cheap Wine pubblicavano il primo disco intitolato “Pictures”, era un mini di cinque tracce e usciva su Toast, storico quanto minuscolo marchio dell’underground nostrano. Ci credereste? L’etichetta torinese resta la realtà discografica più grande con cui abbia mai avuto a che fare il combo dei fratelli Marco e Michele Diamantini, da Pesaro. E anzi l’unica, giacché l’intero catalogo Cheap Wine che conta ora con questo nove album in studio cui vanno aggiunti due live, reca come unica griffe la ragione sociale del gruppo stesso.
Indipendente per scelta e non per necessità, se fanno fede la benevolenza sempre mostrata dalla critica, la stima di gente come Steve Wynn (primo loro sponsor già in epoca “Pictures”) e l’affetto di un pubblico di fedelissimi cresciuto con gli anni, i dischi, i concerti.
Pubblico che ha contribuito con un’operazione di crowdfunding alla realizzazione di “Dreams” ed ecco, è la prima volta che i Cheap Wine non fanno tutto, ma proprio tutto da soli, in qualche modo addivenendo a un compromesso.
Dove sarebbero potuti arrivare con un minimo di flessibilità in più e, soprattutto, osando avventure fuori dai confini patri? Band perfetta, per dire, per un’etichetta come la Glitterhouse. Problemi loro.
Per l’appassionato, alla fine, conta soltanto che la qualità dei dischi si mantenga incredibilmente alta, “Dreams” ennesimo centro pieno nel solco di una Americana sempre più inclusiva e valgono forse come promesse di intriganti sviluppi futuri la psichedelica con affaccio sul progressive di Reflection e una title track dall’onirico all’ossessivo: ultimi due brani in una scaletta di dieci aperta da una Full Of Glow che riffeggia e scodinzola alla Rolling Stones e da una Naked che avrebbe potuto scrivere il compianto Tom Petty.

[ Eddy Cilìa – AUDIO REVIEW ]








IT'S STILL ROCK'N'ROLL TO ME
Ormai dei veterani del rock italiano, i pesaresi Cheap Wine non hanno bisogno di troppe presentazioni così come non sono mai venuti a compromessi con niente e nessuno: la scelta di continuare ad autoprodursi, con il basilare aiuto del crowdfunding questa volta, dopo anni (e sono venti!) non può che deporre a loro favore quando si tratta di misurarne il livello d’indipendenza. Anche se mi piace immaginare le lotte con i mostri là fuori, pronti ad avanzare indecenti compromessi per fare il grande salto mainstream nell’epoca in cui un contratto discografico non lo si nega nemmeno all’ultimo dei concorrenti di un talent.
I Cheap Wine rimangono duri e puri. Così come la loro musica. “Dreams” è il disco che conclude la trilogia iniziata da “Based On Lies” (2012), proseguita con “Beggar Town” (2014) e intervallata dall’originale e bel disco dal vivo “Mary and the Fairy” uscito nel 2015 che metteva completamente a nudo la loro vera anima musicale costruita su un approccio al rock libero e incontaminato che solo i grandi dalla forte personalità possono permettersi, e la band dei fratelli Marco e Michele Diamantini (Andrea Giaro al basso, Alan Giannini alla batteria e con il sempre più riconoscibile e indispensabile tocco di Alessio Raffaelli alle tastiere) rientra a pieno merito nella categoria dei grandi.
L’ascolto di due canzoni come ‘Pieces Of Disquiet’ e dell’iniziale ‘Full Of Glow’ potrebbero bastare per descrivere il loro approccio alla musica lontano da qualsiasi etichetta se non un semplice e inclusivo “rock”: la prima avanza con il passo lento, sinuoso, scuro e avvolgente, quasi pinkfloydiana nella struttura, la seconda è un attacco di chitarre fiero e indipendente a metà strada tra gli Heartbreakers di Tom Petty, i Dream Syndicate i gli amati Green On Red. Dopo aver lottato con le menzogne e camminato tra le rovine, i personaggi delle loro canzoni iniziano a lanciare lo sguardo oltre il grigio. Il pezzo mancante della trilogia sono i sogni: il futuro inizia a schiarirsi, colorarsi e fiorire. La copertina del disco , sempre curatissimo il lavoro che c'è dietro, lo annuncia in anticipo. Sognare non è più vietato, sperare è un dovere. Che sia di buon auspicio per il 2018 e oltre.

[ Enzo Curelli – IT'S STILL ROCK'N'ROLL TO ME ]






FILM TV
Tornano i Cheap Wine a tre anni di distanza dall'ultimo album,“Beggar Town”. Questo nuovo si intitola “Dreams” e va a concludere una ideale trilogia cominciata nel 2012 con “Based On Lies”. La band pesarese dai testi rigorosamente in inglese ci ha abituato nel corso del tempo ai concept album, li amiamo anche per questo, per il tentativo (anacronistico?) di considerare un disco come un libro. 
Difficile appassionarsi solo a un singolo capitolo stralciandolo dalla visione e dal suono d'insieme. E “Dreams”, lo diciamo subito, suona benissimo, anche rispetto ai due precedenti, certificando un cambio di pelle dei fratelli Diamantini (Michele chitarrista, Marco cantante e autore dei testi) e degli altri componenti, il batterista Alan Giannini, il bassista Andrea Giaro e il pianista/tastierista Alessio Raffaelli, il cui ingresso in pianta stabile nel combo ha rappresentato la vera novità musicale della trilogia. Pur continuando a considerare album come “Moving” (2004) e “Spirits”(2009) il loro "the best", è impossibile, ascoltando “Dreams”, non riconoscere una maturazione complessiva estranea ai lavori precedenti. Dallo stile più roccioso degli esordi (Green on Red, Dream Syndicate, i Crazy Horse di Neil Young il "loro" suono originario) ad una versione rock più elaborata, che li avvicina senza alcun senso di inferiorità a certe cose dei War on Drugs.
A corredare una narrazione più ottimistica rispetto ai due dischi precedenti, di cui questo “Dreams”rappresenta in un certo senso la pars construens, il raggio di sole tra le rovine, brani di grande intensità, come la magnifica title track o il primo singolo Full of Glow, il cui video ufficiale potete vedere qui sotto (invero il brano più elettrico e vecchio stile dell'intero lavoro).
In Italia un altro gruppo di rock'n'roll così non esiste (né mi pare di poter ascoltare in giro per lo Stivale un altro chitarrista come Michele Diamantini, dal gusto sublime), fate quindi girare “Dreams” il più possibile sui vostri lettori.

[ Mauro Gervasini – FILM TV ]








BAMBOO ROAD
Quest’anno la rock band pesarese festeggia i vent’ anni di musica, cominciata con l’esordio discografico del mini album “Pictures” realizzato a livello indipendente, come d’altronde tutta la loro carriera artistica, caratterizzata da una serie di album da fare invidia ad alcune band oltreoceano. La continua maturazione avvenuta negli anni, disco dopo disco, culminata nel 2009 con l’uscita di “Spirits”, ed il live doppio dell’anno seguente, intitolato “Stay Alive!”.
E’ stato tutto un crescendo di maturità nei testi e nel proporre le loro canzoni: nel 2012 un altro disco bellissimo, tratteggiato dall’amarezza e dal pessimismo, “Based On Lies”, uscito in piena crisi economica, era un ritratto della nostra società; “Beggar Town” arriva nel 2014 e segue la linea del predecessore, testi disincantati e musica cupa e potente.
Dopo un altro live, "Mary And The Fairy" (2015), i Cheap Wine si ripresentano con il nuovissimo “Dreams”, un album pubblicato tramite il crowdfunding (al quale ho partecipato e lo dico con un certo orgoglio; ho ricevuta una copia in anticipo di un mese dalla data ufficiale di uscita, prevista Martedì 3 ottobre 2017, distribuito da Ird).

“Dreams” si presenta come un lavoro molto meno cupo, con testi che affrontano situazioni e temi più favorevoli ed  ottimistici (lo si evince anche dalla foto di copertina piena di colori e di fiori ) e musicalmente posso dire che è forse il loro disco più bello, con Marco Diamantini che, se possibile, ha maturato ancor più la sua espressione vocale, suo fratello Michele è un grande chitarrista potente ma anche virtuoso, in possesso di una buona tecnica ma con grande spontaneità riesce a ricamare trame a tratti davvero irresistibili.
Alessio Raffaelli è un altro protagonista del suono della band pesarese; a tal proposito, ho avuto la fortuna di assistere al loro show lo scorso mese di Giugno alla festa organizzata da Cifarelli per il 50° anniversario della loro azienda sita a Voghera (è periodo di anniversari importanti!) e devo dire che mi sono spesso emozionato durante le loro esecuzioni, c’era una sorta di tensione palpabile ma le vibrazioni erano tutte positive; il suono usciva compatto e la sezione ritmica formata da Andrea Giaro al basso e da Alan Giannini alla batteria davano molto più che un semplice contributo.

Con “Full Of Glow” si parte ed è una canzone di rock tosto e diretto con la chitarra protagonista assieme alla voce di Marco ed un organo in sottofondo creano un sound davvero intrigante , mentre la sezione ritmica tiene il tempo come un metronomo. Giungono, tutti insieme, echi del sound di Neil Young, Green on Red, Tom Petty e Lou Reed.
“Naked” inizia con la chitarra, poi entra l’ organo a dettare le regole sino a quando non subentra la chitarra di Michele che dal sottofondo si fa largo e si lancia in un assolo leggermente noisy.
“The Wise Man’s Finger” si apre con un grande piano elettrico, una melodia da wee wee hours, una ballata urbana notturna e suadente, da ascoltare mentre guidi in piena notte su un asfalto bagnato di pioggia.
“Pieces Of Disquiet” ha un sound tetro e drammatico, ricorda nel sound alcune canzoni di Springsteen degli ultimi dischi;  la voce è quasi un talkin’ e l’uso del piano accentua la drammaticità che ritroviamo anche in brani di Nick Cave o Mark Lanegan: si discosta un poco dal genere che preferisco ma è innegabile, si tratta di una grande canzone. Finale con solo di chitarra.
“Bad Crumbs And Pats On The Back” cambia registro e ci presenta una canzone rock tesa e diretta, con la chitarra e l’organo che ricamano arazzi musicali sotto la voce impostata di Marco. Bella l’intrusione del basso prima del finale corale, accompagnato dall’assolo della chitarra. Grande musica.
“Cradling My Mind” è una ballata di stampo “americana” rilassante ed orecchiabile con cori westcoastiani accompagnati dal pianoforte, ma non è certo da considerare un semplice riempitivo.
“For The Brave” apre una chitarra in chiave surf , poi si aggiungono un organo sixties ed una voce quasi “dark” sostenuta da un gran ritmo che sposta l’asse leggermente verso il border assolato e desertico.
“I Wish I Were The Rainbow” è una ballata rock classica con una melodia semplice ma è la voce ad essere grande protagonista, accompagnata da un organo in sottofondo e la batteria appena accennata. La chitarra qui si prende una pausa ed entra solo nel finale.
“Reflection” apre come un brano dei Led Zep (non scherzo) e poi mantiene un sound acustico per tutta la durata con cello ed organo sixties sugli scudi.
Chiude il brano che da il titolo al disco e chiude un ciclo (nel testo ad un certo punto si cita anche il titolo del primo album della trilogia, “Based On Lies”) è un brano lento e pieno di pathos, emoziona la voce di Marco che si mescola al crescendo strumentale che ha un finale stupendo.
E’ l’una di notte mentre ascolto con le cuffie questo disco che reputo bellissimo, uno dei più belli ascoltati quest’anno. La mia famiglia dorme e tutto intorno è buio. E quando finisce, credetemi, ho le lacrime agli occhi per l’emozione.
Grande band, grande musica e grandi persone.
Signore e signori, i Cheap Wine sono tornati. Andate a vederli dal vivo, ne rimarrete ipnotizzati.

[ Massimo Orsi – BAMBOO ROAD ]








DISTORSIONI
Una carriera lunga vent’anni, ricca di nove album in studio, due live e un mini LP (l’esordio “Pictures”, per l'appunto targato 1997) per un gruppo rock indipendente (nel senso più aderente al significato del termine) italiano rappresenta un traguardo che merita di essere celebrato e i pesaresi Cheap Wine lo fanno nel migliore dei modi con “Dreams”, chiusura della trilogia iniziata nel 2012. Iniziò con “Based On Lies” (nel quale i personaggi cercavano un riparo da una crisi, economica e di valori, che li stava aggredendo), proseguì due anni più tardi con “Beggar Town” (la presa di coscienza della distruzione, l’osservazione delle macerie e la necessità di trovare la forza per rialzarsi e ricominciare a camminare), fu interrotta dalla superba parentesi del live “Mary and the Fairy” di due anni fa. Nel nuovo capitolo le canzoni raccontano la prospettiva di un nuovo futuro, nel quale tornano in gioco i sentimenti, le aspirazioni, i sogni che erano infranti al tempo dell’esplosione della crisi. Come sempre, i testi di Marco Diamantini sono importanti, ricercati, profondi, a sposare musiche, scritte dallo stesso o dal fratello Michele (magnifico chitarrista, misurato ed essenziale, ma all’occorrenza trascinante), perfettamente aderenti al racconto.

L’album è aperto da Full Of Glow, rollingstoniana, cattiva il giusto e perfetta introduzione a un disco marcatamente rock, esaltato dal lavoro di sezione ritmica (Alan Giannini alla batteria e Andrea Giaro al basso, precisi dotati di una certa dose di fantasia) e tastiere (l’ottimo Alessio Raffaelli), spesso a creare un suono “di gruppo” che ricorda il sound di Tom Petty And The Hartbreakers (Naked, The Wise Man’s Finger), ma musicisti capaci di creare atmosfere cariche di tensione anche nelle ballate più oscure, vicine alle uscite soliste di Steve Wynn o Dave Alvin (Pieces Of Disquiet, Cradling My Mind) o di aggiornare il canone del combat-folk (la bellissima Bad Crumbs And Pats On The Back).
Non c’è un solo minuto di stanca, in queste dieci tracce, concluse dai due gioielli rispondenti a Reflection (ballata acustica, d’impronta quasi prog, affascinante) e alla title track, splendida ballata giocata su chitarra acustica e piano elettrico, ritmica discreta, la voce a declamare un testo tra i migliori che mi sia capitato di leggere ultimamente (ci avete fatto caso? Difficilmente si parla ancora delle liriche. In questo contesto, a suggello delle celebrazioni del ventennale, si inserisce anche la pubblicazione di un bel volume contenente tutti i testi, con traduzione a fronte e introduzioni di amici, colleghi, giornalisti. Il libro è ordinabile, come il disco, sul sito della band).
Un grande album per un grande gruppo (e se non aveste mai assistito a un loro concerto, possiamo assicurarvi che sono assolutamente da vedere in azione su un palco, non per niente hanno aperto i concerti per gente del calibro dei Dream Syndicate).
Straconsigliato.

Voto: 9/10
[ Massimo Perolini – DISTORSIONI ]





OFF TOPIC
Bisogna solo ringraziare di avere tra le mani un altro disco dei Cheap Wine. Coi tempi che corrono, col mercato discografico sempre più affossato, il pubblico sempre più disinteressato, soprattutto nei confronti di certe sonorità, il mainstream radiofonico e i mega eventi come unica realtà che possa ritagliarsi dello spazio sui mezzi di comunicazione, che un gruppo come il loro sia sempre qui, ogni due anni o giù di lì, ad offrirci qualcosa da ascoltare, è una notizia al limite del commovente.
Quindi diciamo subito che, per quanto mi riguarda, il fatto che “Dreams” sia uscito è al momento molto più importante di qualunque tipo di ragionamento si possa fare in merito alla sua qualità. Che comunque rimane sempre alta, è bene precisarlo.

A questo giro la band pesarese ha operato una scelta importante e a lungo ponderata: si è affidata al crowdfunding. Erano sempre stati contrari ma adesso si sono ricreduti. Non è una scelta che sta a noi giudicare: sono tempi difficili e probabilmente solo i diretti interessati conoscono i pro e i contro di una decisione del genere.
Sta di fatto che il disco è uscito e che per l’occasione è stato realizzato pure un libro che raccoglie tutti i testi con le relative traduzioni, con tanto di introduzione firmata da Marco Diamantini e contributi vari da parte di fan e persone vicine alla band. Un oggetto prezioso, utile soprattutto perché contiene anche i pezzi di quei dischi che da tempo non sono più disponibili in formato fisico; un’opera che accresce la sensazione di trovarsi di fronte ad un momento significativo per un gruppo che è arrivato all’undicesimo disco e che c’è sempre stato, anno dopo anno, incurante del passare del tempo e del cambiamento dei gusti, a suonare sempre e solo quello che voleva suonare.

“Dreams” è un disco di speranza. Ed è bello poterlo dire, considerato che viene da un lavoro, “Beggar Town”, che era ammantato di cupezza e presentava poche, pochissime aperture, proiettandosi per la maggior parte su un mondo che sembrava avere visto la sconfitta definitiva di tutte le autentiche battaglie per l’esistenza.
Stavolta invece è diverso: la copertina grigia ha lasciato il posto ad un’esplosione di colori come mai, a memoria, si era vista su un disco dei Cheap Wine e il messaggio parla chiaro: le cose non sono migliorate. C’è sempre chi vive per sfruttarci, il lavoro non si trova, le guerre imperversano, le ingiustizie fioccano. Ma noi, dal canto nostro, non abbiamo perso la voglia di lottare. Ci si può sempre svegliare una mattina e dire che, in fin dei conti, “era un bellissimo giorno di sole”, come canta Marco in quello che è uno dei brani più riusciti del lotto. Perché il sole, grazie a Dio, non smette di sorgere e di rendere bello il mondo, nemmeno quando tutto sembra cadere a pezzi.

E poi ci sono i sogni. Che non sono semplicemente castelli in aria privi di senso ma hanno una loro dignità, una loro fisicità, devono essere perseguiti con tenacia, accettandone anche il fallimento, certo, ma non per questo senza smettere di lottare. Perché i sogni, quando non sono totalmente slegati dal reale, sono un carburante potente per mandare avanti la vita. “E più di ogni altra cosa, segui sempre i tuoi sogni”: il disco si conclude così, con la sua monumentale title track, ballata sontuosa col solito dialogo tra chitarre e tastiera a disegnare fughe immaginate, eppure così reali. È dedicata a Federico, il figlio di Marco, nato da poco e in qualche modo ispiratore di tutto questo lavoro. È proprio ascoltando questa traccia, col suo fade out strumentale che immaginiamo assumerà contorni magici dal vivo, che si capisce come questo disco parli d’amore. Un amore concreto, associato a volti precisi, che ha permesso a Marco di lasciarsi alle spalle un periodo buio e ai Cheap Wine di continuare a camminare, aggiungendo un tassello, questa volta un po’ più solare, ad una storia asciutta e drammatica come un grande romanzo americano, e proprio per questo meravigliosa.

Musicalmente parlando, “Dreams” è un altro grande disco, l’ennesimo centro di una carriera che non ha mai conosciuto flessioni di sorta. Anche perché, sembra una critica ma non lo è, questa non è mai stata una band che ha poi variato molto i propri metodi di scrittura. È una band che suona benissimo, composta da musicisti eccezionali ma che ha nell’amalgama tra tutti gli elementi il vero punto di forza. Chi ha visto anche uno solo dei loro concerti sa che, prima ancora delle canzoni che vengono suonate, a rimanere impresse sono le lunghe Jam dal sapore psichedelico, i riff grintosi, le cavalcate epiche, i suoni abrasivi. Ad un concerto dei Cheap Wine si rimane incantati anche senza conoscere uno solo dei loro brani proprio perché incarnano quello che è l’autentico spirito del Rock, trasmettono quella scintilla di verità per cui, se si è veri con se stessi, non ci si può non fermare ad ascoltare.

Anche su disco è così, seppure in un altro modo. Il gruppo ha sempre avuto un suono pazzesco e le loro produzioni sono magnifiche, sontuose, eleganti, potentissime. Anche “Dreams” non fa eccezione: il solito Studio Castriota di Marzocca, dove incidono da sempre, ha offerto ancora una volta una qualità di produzione altissima (Alessandro Castriota è davvero un produttore bravissimo in questo senso). Le canzoni sono sempre quelle, non sono cambiate. Si parte e si ha subito quel senso di Deja Vu tipico di ogni loro nuovo lavoro. Le linee vocali di Marco sono inconfondibili, spesso un po’ troppo simili tra loro (questo è effettivamente l’unico appunto che si potrebbe fare) ma non perdono mai di efficacia. La chitarra di suo fratello Michele graffia sempre a dovere e provoca brividi a più non posso, specie quando si lancia negli assoli. E poi il tocco magico del tastierista Alessio Raffaelli, che ha letteralmente mutato gli equilibri da quando è entrato nel gruppo e che svolge un ruolo essenziale nel caratterizzare l’atmosfera di ogni singola canzone.
La sezione ritmica si comporta ancora una volta in modo egregio, col solito Alan Giannini e il nuovo bassista Andrea Giaro ormai perfettamente integrato nei meccanismi del gruppo.

Quindi alla fine, è questo che conta. Ma ci sono comunque anche le canzoni e queste non deludono. All’interno di una formula più snella dei due precedenti, stanno dieci brani che si muovono su coordinate che richiamano a più riprese il periodo di “Moving” e “Spirits”, se proprio dovessimo tirare in ballo i paragoni con altre fasi della loro carriera. Rispetto al precedente c’è un po’ più di Rock (l’opener “Full Of Glow” ha un bell’incedere robusto e vivacemente ritmato) e non mancano le atmosfere epiche in “Bad Crumbs and Pats On the Back” e in “For The Brave”. Ci sono i colori, ci sono i sogni ma pezzi come “Naked” (che esprime in maniera simbolica la fiera ribellione di chi non si conformerà mai a certi standard imposti dalla società) e “Wise Man’s Finger” presentano quelle atmosfere fumose, psichedeliche e vagamente Paisley Underground che ammantavano quasi in toto “Beggar Town”. Ma nella seconda parte arrivano anche splendide ballate, in bilico tra Folk e Country, come l’acustica “Cradling My Mind”, sulla bellezza di trovare un momento per se stessi guidando e contemplando il paesaggio, o la commovente “I Wish I Were The Rainbow”, dichiarazione d’amore su come un rapporto affettivo possa cambiare completamente la propria visione del mondo. In mezzo, anche un paio di soluzioni mai provate prima dal gruppo, come il suono di tastiera avvolgente di “Pieces of Disquiet” o l’arpeggio a la Roger Waters che apre “Reflection”.

Un disco forte e drammaticamente sincero, come del resto tutti quelli che hanno fatto nel loro passato. Chi li ha sempre amati non smetterà di amarli e chi ancora non li conosce potrebbe proprio iniziare da qui, magari poi vedendoli dal vivo a Milano il 14 ottobre, quando le nuove canzoni verranno suonate per la prima volta in pubblico. Del resto vanno visti sul palco, per capire veramente di cosa stiamo parlando.

[ Luca Franceschini – OFF TOPIC ]






BLOW UP
Vent’anni dalla pubblicazione del “mini” d’esordio, con nove album di studio (compreso questo) e due dal vivo a fargli seguito, senza contare le centinaia di concerti, e i Cheap Wine non si sono ancora stancati di inseguire i loro sogni di r’n’r, ambientati da qualche parte fra la California del Paisley e quella delle solite, immancabili radici. America, America e ancora America, dunque, con canzoni che da un po’ - fanno fede il penultimo “Beggar Town” e il successivo live “Mary And The Fairy” - hanno accantonato i toni più convulsi e psichedelici a favore di trame sempre cariche di intensità e tensione, ma in generale più lente, avvolgenti, evocative.
All’aggiustamento del tiro ha certo influito l’arrivo in organico, sei anni fa, del tastierista Alessio Raffaelli, che ha saputo brillantemente ampliare una tavolozza fino ad allora basata sulle chitarre dei fratelli Diamantini; i dieci brani di “Dreams” ne hanno giovato e i Cheap Wine del 2017 sono più che mai una band equilibrata, forte di un songwriting che a dispetto delle fonti di ispirazione ha acquisito una personalità ed uno stile all’insegna del calore e di un’energia che sorregge ma non esplode. A completare il bel quadro, testi in inglese in bilico tra visioni e realtà quotidiana, dei quali nel libretto è proposta la traduzione italiana; per Marco Diamantini, che li scrive e li canta, le parole sono importanti, e non a caso tutte quelle finite su disco sono state appena raccolte in un libro acquistabile dal sito del gruppo.
[ Federico Guglielmi – BLOW UP ]









SOTTERRANEI POP
Quella dei Cheap Wine è una storia classica di resistenza che, senza voler essere blasfemi dal richiamare storie partigiane, dura da 20 anni, da quando partì l’avventura discografica di quattro ragazzi di Pesaro innamorati del Rock’n’Roll. Un gruppo fiero della sua indipendenza che a cadenza regolare, quasi biennale, è arrivato al dodicesimo capitolo con l’album “Dreams” che viene pubblicato oggi 3 ottobre 2017, data quasi simbolica, perché ricorrente in molte uscite precedenti.
In questo lungo ventennio, Marco Diamantini e compagni hanno fatto tutto da soli, perché hanno ben presto capito che questo era l’unico modo per garantirsi un futuro ed una credibilità presso un pubblico di appassionati che, come loro, ha trovato nel rock una via di salvezza dall’ordinarietà della vita quotidiana.

Venti anni di carriera vissuta tutta nell’indipendenza, con produzioni e tour regolari e continui su è giù per la penisola, rappresentano un caso unico nel panorama musicale italiano, e che ha rischiato di naufragare per la crisi che riguarda tutto il settore.
Così, per continuare ad esistere, i Cheap Wine hanno dovuto ricorrere alla pratica del crowdfunding per realizzare l’ultimo disco. Una scelta dolorosa ma necessaria che ha trovato una risposta positiva tra i fans, gli oramai mitici “wineheads”, che già avevano spinto il gruppo a pubblicare il precedente “Mary and the Fairy” (2015)(recensione quì) unico album pubblicato su vinile dalla band, acquistando le copie ancor prima che venisse pensato e realizzato. Così è nato “Dreams” terzo ed ultimo capitolo della trilogia aperta da “Based On Lies” (2012) (recensione quì) e proseguita con “Beggar Town” (2014) (recensione quì).
La risposta dei Cheap Wine all’affetto dei fans e di chi si avvicinerà all’ascolto di questo disco, è stata quella di regalare loro un album magnifico che va a collocarsi ai vertici della loro produzione. Dieci canzoni sontuose composte, arrangiate, suonate e registrate con amore. Amore per il proprio lavoro, amore per la tradizione del rock, amore per il pubblico cui è destinato. Se vogliamo, una trilogia anche questa.

L’idea di fondo che permea “Dreams” è quella di trovare una chiave di speranza e positività riguardo al futuro, che i personaggi travolti in “Based On Lies” da una devastante crisi economica che ha peggiorato drammaticamente le condizioni di vita, venivano acuite dallo stravolgimento della realtà che i mass media hanno messo in atto per intrappolare tutti in un mondo dominato dalla finzione. Così nel successivo “Beggar Town” ci si trova a riemergere in superficie e trovare solo macerie che non fanno altro che aumentare il senso di desolazione e smarrimento con una sola via d’uscita: la sopravvivenza.
Sopravvivenza che si può trovare solo in un verso di “To Face a New Day”, un brano proprio di “Based On Lies” che recita “Dreams are all that we have to face a new day” (“I sogni sono tutto quello che ci resta per affrontare un nuovo giorno”). Non sappiamo quanto l’arguta penna di Marco Diamantini, in un momento doloroso come quello in cui ha scritto le canzoni di “Based On Lies”, abbia inconsciamente messo questa frase su carta, per indicare una via di fuga che all’epoca non si poteva assolutamente prevedere, ma sta di fatto che questo barlume di resistenza alla fine è riuscito a prevalere ed emergere come un piccolo fiore tra le macerie.
Così “Dreams” prova a togliere la drammaticità che ci circonda e resiste contro chi tenta di minare amore e affetti a noi vicini, con canzoni che raccontano storie che sono un insieme di sogni che tutti noi facciamo, con il loro campionario di bellezza, stravaganza, inquietudine. E i sogni sono una parte integrante della storia dell’uomo perché attraverso di essi si è evoluto, ha progredito, ha imparato a conoscere se stesso e ha anche alleviato le sue sofferenze.
Come dicevo “Dreams” è un altro grande album che non sposta nulla nella storia del gruppo, nel senso che non rappresenta uno scatto in avanti, cosa oramai non necessaria, ma non è neanche una riproposizione di cose già sentite: cioè non è un disco scritto con il pilota automatico, da un autore oramai maturo e da un gruppo di musicisti di grande qualità che cesella gli arrangiamenti con consumata maestria. Quello che i Cheap Wine hanno cercato in “Dreams”, è quello di dare un volto rinnovato al loro suono, soprattutto puntando sul suono delle tastiere che hanno sostituito il pianoforte che caratterizzava il sound dall’ingresso di Alessio Raffaelli. Ci si trova così ad ascoltare sì un classico album dei Cheap Wine, ma che permette ad ogni ascolto di restare piacevolmente sorpresi per la scoperta di un suono, un arrangiamento diverso che non fa altre che aumentare la cifra stilistica della band.

Dieci canzoni in cui si alternano i furori rock’n’roll, con ballate ora cupe, ora sognanti che fanno sì che il disco non abbia mai una caduta di tono, ma trasporti l’ascoltatore in un mondo sonoro ben conosciuto ma altrettanto nuovo in tanti piccoli dettagli che non fanno altro che confermare la maestria di musicisti come Michele Diamantini, chitarrista eccelso che non ha bisogno di mostrare la sua maestria con i lunghi assolo di un tempo, come Andrea Giaro che ricama linee di basso avvolgenti, come Alan Giannini che sorregge tutto con il drumming.

Difficile scegliere o segnalare un brano piuttosto che un altro, se non fare una menzione particolare per i due brani che chiudono l’album. “Reflection” è una ballata folk che richiama alla mente i Led Zeppelin, mentre la title track “Dreams” mette in mostra un Marco Diamantini inedito che mette in campo un piccolo spoken word pieno d’amore per il piccolo Federico, “vero ispiratore” della speranza che permea tutto il disco.
Come sempre il disco presenta tutti i testi con traduzione ed è registrato in maniera eccellente da Alessandro Castriota, ed è arricchito da un video del brano d’apertura “Full of Glow” realizzato dalla maestria grafica di Francesco “Zano” Zanotti” tornato insieme ai compagni di un tempo, seppure solo in veste di disegnatore.
L’album è distribuito da IRD ed è in vendita sul sito della band www.chepwine.net dove è possibile acquistare anche il libro che raccoglie tutti i testi con traduzione a fronte pubblicati dai Cheap Wine dal 1997 ad oggi.

[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]







SPETTAKOLO
Una volta, ai bei tempi, ancora nei giorni del vinile (ma abitudine ereditata anche in seguito dopo l’avvento del cd), prima di decidere o meno in merito all’acquisto di un album (i soldini erano pochi e le alternative, fortunatamente, moltissime…) era necessario approfittare di un prezioso e delicatissimo iter. Il suddetto percorso richiedeva, ovviamente, il sostegno nel negoziante abituale: visione copertina fronte retro, decellofanizzazione laterale senza provocare traumi al packaging ed estrazione del disco, prima di saggiarne con avidità i secondi iniziali (braccio e testina permettendo del solito, paziente ,gestore…) dei primi 3-4 brani almeno. Un delicato e prezioso test uditivo alla “buona la prima”, “dentro o fuori”, “ci siamo o non ci siamo”, “ok, lo compro” o “niente da fare, grazie: riponilo pure”.
Quanti artisti e quante band sono passate attraverso questo procedimento ormai forse obsoleto, ma sempre decisivo e prezioso? Qualcuno, forse, punito oltre ogni demerito; altri, invece, magari esaltati da scafate intuizioni nell’attacco dei pezzi o dalle solenni cantonate prese dall’ascoltatore/sommelier musicale di turno.
Certo, se l’artista era uno di quelli “di fiducia”, la pratica poteva anche essere evasa senza pre-ascolto ma, nella maggioranza del casi, si procedeva così. E lo sforzo ripagava mediamente alla grande, nonostante una risibile percentuale di prevedibili svisate.

Il tutto per giungere al dodicesimo lavoro dei Cheap Wine che, reduci dalla pubblicazione del volume Cheap Wine – Tutti i testi con traduzione a fronte, a due anni di distanza dal live sui generis “Mary and the Fairy” e a tre dall’ultimo lavoro in studio,“Beggar Town”, tornano con un lavoro di distribuzione IRD per chiudere una trilogia iniziata già nel 2012 con“Based On Lies”.
E quei personaggi sconvolti dal peggioramento catastrofico delle loro condizioni di vita, affossati dalla crisi economica, che escono da un bunker e trovano solo macerie, alle prese con una dura lotta per la sopravvivenza a caccia di riscatto e redenzione, ora sembrano davvero aver superato lo shock. E, grazie a un’impennata d’orgoglio, essere pronti anche per affrontare il futuro con decisione. Gli strumenti principali a loro disposizione? Amore, fegato e, ovviamente, sogni (“Dreams”, appunto).
Ecco, mescolando i tempi quasi si fosse in uno degli episodi di Ritorno al futuro, mettiamoci dunque nei panni dell’eterno adolescente Marty McFly/Michael J. Fox che, armato di piumino rosso smanicato e skateboard, si precipitata nel negozio di fiducia. E abbordiamo questo dischetto con il consolidato criterio e la certosina prassi di cui sopra.
L’attacco concesso da Full of glow è di quelli che fulminano con la voce di Marco Diamantini, gravemente seria e cadenzata ma calda e alcolica quanto basta, che pare uscita dall’archivio del foniatra di Lou Reed buonanima e Dan Stuart, occasionalmente in società con l’otorino di Steve Wynn. Il biondissimo clone italiano di Tom Petty, frontman e autore di tutti i testi, pare volerti entrare nell’anima per urlarti tutto ciò che vorresti sentirti dire da un musicista rock. Lasciate, dunque, perdere le vaccate in stile ‘born to be wild’ da parte di viziosi milionari in limousine o le fanfaronate tipo ‘spero di morire prima di diventare vecchio’ di settuagenari afoni e sordi che continuano a portare in giro la caricatura di loro stessi; dimenticate anche gli slogan faciloni, gli accenni politici ruffiani, le rime baciate e i reggiseni che volano. Questa è vita vera: sentimenti, delusioni, sofferenze, precipizi e cadute. Ma anche determinazione, speranza, ostinazione e cuore. Quindi: ok! Esame superato! L’assaggio basta e avanza per convincere anche il più scettico dei profani: lo prendo!

Ebbene,“Dreams”è ovviamente molto, molto, molto meno ingenuo, adolescenziale e hollywoodiano (che suona assai meglio di ‘cinecittàiano’, volete mettere…) di quanto possa far presagire la sua copertina tropicalmente floreale. Una scelta grafica che pare ricordare la tribù da bisboccia rivierasca del ‘No shoes, no shirts, no problem’, tanto cara a Kenny Chesney e al suo nume tutelare Alan Jackson. Qui scendiamo invece, musicalmente parlando, in territori sempre legati al Pasley Underground, ma evoluti e personalizzati all’ennesima potenza. Forse, volendo addirittura essere blasfemi, ben più moderni e sagaci anche rispetto quanto non riescano a fare i numi tutelari di quella storica scena, così acidamente buia e realistica.
I Cheap Wine, come abitudine, fanno così un altro passo avanti e, pur potendoselo permettere, non rifilano ai ‘die hard fans’ una zuppa sicura e consumata, magari approfittando dell’impareggiabile talento alla sei corde di Michele Diamantini (il chitarrista più schivo del mondo, forse affiancabile in questo e al talento solo a Michael Timmins) o della creatività tra piano, organo e fisa del sempre prezioso e incisivo Alessio Raffaelli. In questo caso, più che mai, ‘quelli del vinaccio scadente’ mettono da parte le individualità strumentali e, ancora una volta, ‘fanno gruppo’ contro la miopia di un’editoria discografica che li costringe oggi come ieri alla ‘concreta indipendenza’ (vera e non solo sbandierata ai quattro venti solo per giocare il ruolo dei ribelli in prime time) e alla ‘concreta autoproduzione’ (il supporto economico dei loro fan più sinceri, i wineheads, attraverso il crowfunding, si è rivelato prezioso ma, credo, più sul piano morale che su quello materiale vero e proprio), alla scarsa preparazione di una stampa specializzata troppo spesso composta da piccoli fan e grafomani magari ignoti all’OdG anche dopo lustri di attività (ok, serve poco, conta ancora meno, tutela quasi per niente i suoi iscritti, Pubblicisti o Professionisti che siano, ma almeno potrebbe/dovrebbe costituire un serio baluardo contro l’esercizio abusivo della professione che, in altri ambiti, viene altresì severamente punito), ma anche e soprattutto al prevedibile disinteresse di un pubblico che, oggidì più che mai, preferisce ‘sentire’ piuttosto che ‘ascoltare’, facendosi ‘cadere addosso’ la musica direttamente dagli uffici marketing che foraggiano abilmente tv, radio e stampa generalista (uno, piuttosto importante, decenni fa, si era suicidato a causa di uno ‘scandalo payola’: oggi, invece, si tratta di semplici e limpide transazioni commerciali…) piuttosto che ‘cercandola’ con interesse, passione e dedizione. Come si faceva un tempo, approfittando dei negozi, dei gestori cordiali e… bla bla bla.

Limitarsi a una banale recensione, con i C.W. di mezzo, sarebbe quasi offensivo per le loro posizioni. Liquidare il tutto accontentandosi di citare i brani e scopiazzare la cartella stampa di turno (non oltre 30 righe da imbastire in una ventina di minuti al massimo, mi raccomando…) sono abitudini che lasciamo ad altri lidi. I pesaresi meritano altrettanto coraggio, altrettanta ostinazione e altrettanta combattività anche nei commenti relativi al loro lavoro. Non cercano scorciatoie, non pretendono di essere simpatici, non vanno a caccia di padrini e di sponsor. I C.W. sono quelli di Dreams, prendere o lasciare!
E, sia chiaro, regalano così il loro disco più maturo. Ovviamente, in attesa del prossimo. Un album da ascoltare ‘a volume altro, molto alto’: il consiglio lo forniscono loro stessi, ma diventa quasi una reazione spontanea del fruitore dopo pochi secondi soltanto di ascolto. Un cd da maneggiare con attenzione dopo aver scartato la consueta, scrupolosissima e completissima, confezione che contiene un digipack al solito curato oltre ogni dire con quella copertina di Federico Pazzi Andreoli che anticipa tematiche legate alla speranza e agli affetti, legati in primis alla famiglia, che costituiscono una ricchezza inestimabile e troppo spesso trascurata. “I sogni sono il nostro passaporto per i viaggi più affascinanti, quelli fra il possibile e l’impossibile – sostengono i Nostri – La bacchetta magica che ci libera dal limite del corpo fisico”. Sogni notturni, incisivi. “Belli, brutti, stravaganti, inquietanti. Rassicuranti o spaventosi – insiste la tesi marchigiana – ma indispensabili per capire meglio chi siamo”. Ma anche sogni a occhi aperti. “Per fuggire dalla realtà o vederne una diversa”.
Full of glow, brano di apertura scelto anche per accompagnare il suggestivo e azzeccato video animato realizzato dall’ex batterista della band, Francesco Zano Zanotti, pare un’outtake dei Velvet, suonata dai Green on red che ammiccano ai Flamin’ Groovies. Drammatico ma suggestivo esordio con la voce di Marco Diamantini che pare avvolgere l’ascoltare con la sua cadenza compassata, quasi da reading di poesia, per poi evolvere in uno sviluppo collettivo di rara intensità. La sezione ritmica composta da Alan Giannini (percussioni) e Andrea Giaro (basso) asseconda le esigenze con grande puntiglio e senza mai essere invasiva, lasciando impeto e oscurità al testo che evolve subito nella cadenza più controllata di Naked quando la ballata ‘danse macabre style’ sui generis usufruisce di un inquietante sottofondo di tastiere che aggiunge pathos ai lancinanti assoli di Michele Diamantini.
La successiva The wise man’s finger spinge il pedale verso una misurata incursione psichedelica che profuma di wha wha e tiene basso il ritmo quasi fosse un’esplorazione dell’inconscio che, anche qui, nulla ha di artificiale e/o artificioso ma solo di creativo. Marco, orgogliosamente, preferisce evitare confronti e abbinamenti, ma Pieces of disquiet pare portare il viaggio dal sogno all’incubo e dai corridoi di una casa polverosa fin dentro i cunicoli di una catacomba: passaggio tanto inquietante quanto suggestivo che genera angosciosa inquietudine con il suo ritmo ripetitivo e le rasoiate di chitarra tra le quali il frontman (l’ho già detto che di voci espressive e incisive come la sua in Italia ce ne saranno una decina al massimo?) dribbla i fendenti come Massimo Palanca faceva con i pestoni dei ben più imponenti avversari. Bad crumbs and pats on the back costituisce invece uno dei passaggi più classicamente rock, lanciato da un organo quasi liturgico e da un’aurea quasi morriconiana.
Il giro di boa conduce al brano più corto del lavoro, Cradling my mind (3’06”), passaggio degno di una potenziale opera cantautorale del leader, mentre For the braveriporta in auge l’organo e i ritmi più sostenuti di chiara ispirazione Seventies (i Chesterfield Kings, remember?).
I wish I were the rainbow regala, dal canto suo, uno squarcio di speranza e di cielo azzurro con un tema che David Bowie avrebbe apprezzato e Ian Hunter, probabilmente, voluto incidere. Reflection avvia l’ascoltatore verso l’epilogo con grande garbo, mentre si avvertono reconditi affetti persino per Robert Plant e addirittura inedite sfumature prog (tra una rarefatta While my guitar gently weeps e La carrozza di Hans poco orchestrata), lasciando alla title track il compito di chiudere punto, gioco, set, partita e trilogia con il pezzo più lungo (7’15”) capace di partire come una ninna nanna soffusa e ovattata per poi evolvere in una classica ‘ballata alla Cheap Wine’ con le consuete intuizioni di Michele a regalare guizzi e inedite speranze prima della chiusura. Anche se quel tasto pigiato con ostinata oltranza, proprio sul finale, non fa presagire nulla di buono, purtroppo.
Questi, oggi più che mai, sono i Cheap Wine.
Maturi, mai arroccati sul passato, evoluti, creativi e generosi. L’orgoglio dell’indipendenza e della meticolosa preparazione, un mondo senza mezzi termini, fondato sul talento e sul lavoro duro, sulla ricerca e sull’ostinazione.
Pazzi furiosi o inguaribili sognatori: Cheap Wine, appunto.
Vogliate gradire!

[ Daniele Benvenuti – SPETTAKOLO ]





DRIED LEAVES
Una copertina floreale e un titolo emblematico: “Dreams”, sogni. Argomento affascinante, ricco di sfaccettature perché i sogni non vanno in una sola direzione ma rappresentano, possono rappresentare, i nostri desideri come le nostre paure, ma certamente sono emozioni. E in “Dreams” – anche in “Dreams” – le emozioni non mancano e ve ne sono diverse.

C’è un filo rosso che si svela nel corso dell’ascolto e che unisce l’apertura di Full of Glow alla chiusura di Dreams; tanto è in pena, confuso, vittima di circostanze, delle sue insicurezze e di personaggi equivoci il protagonista di Full of Glow quanto è solido e deciso nell’animo e nelle intenzioni chi chiude il racconto in Dreams, segno evidente che negli episodi di quest’album si perfeziona un percorso, si raggiunge la consapevolezza di quali siano gli aspetti importanti, di cosa è bene diffidare e in cosa è necessario credere.

I dieci episodi di “Dreams” ci portano all’interno di sensibilità e frangenti vari, mai univoci perché ogni circostanza, ogni contesto ha una sua propria ragione. Ed ecco che i singoli capitoli di questo racconto si presentano con forme musicali molto diverse tra loro perché è necessario assegnare a ciascuno la propria caratterizzazione, ciò che si narra ha bisogno della sua atmosfera, le parole devono essere accompagnate dalla musica appropriata, eppure è sempre rock nella sua migliore accezione (I know, it’s only rock and roll but I like it…), ritmi e clima spaziano dalle cadenze sostenute di Full of Glow, alle ampie e oniriche atmosfere di Pieces of disquiet, alla tranquillizzante Cradling my mind per raggiungere l’apice nel bellissimo trittico finale: la dolcezza di I wish I were the rainbow, il racconto acustico di Reflection per finire con la sognante (e certo) Dreams che è una indicazione, una esortazione perché dalle macerie e dalla bugie c’è una via d’uscita. Fedele al motto che sostiene come i testi appartengano a chi li ascolta, (nella mia lettura) l’album è contrassegnato da riferimenti letterari, diretti o esposti come metafora: l’uso degli animali, la tentazione del serpente, il male rappresentato dai topi (il topo è il simbolo del diavolo, non va dimenticato che è raffigurato nell’atto di mordere le radici dell’albero della vita e sono ancora i topi ad uccidere e portare via l’ultimo dei Buendia in “Cent’anni di solitudine” di Marquez), il dito che indica la luna, i saltimbanchi e un mangiafuoco, il cane nero (Black Dog, la disperazione nell’accezione inglese e qualcuno ricorderà i Led Zeppelin), il diavolo che all’incrocio di una strada (Crossroads) ha stretto un patto con Robert Johnson, le beatlesiane strade di marmellata (il sergente Pepper…) o ancora il re nudo della favola di Andersen.
E allora percorriamolo questo racconto nei suoi episodi. È uno squillo di chitarra ad annunciare “Full of Glow”, c’è il piano elettrico che risponde, basso e batteria sorreggono ritmicamente l’incedere del brano e la voce sempre perfetta, il “solo” chitarristico è un inciso più che un assolo vero e proprio, e siamo alle prese con qualcuno dominato dall’incertezza, dal non sapere quale strada prendere, tra chi tende tranelli e strade che bruciano proprio quando si poteva capire la differenza tra una e l’altra, meno male che arriva Robert Johnson con il diavolo.
Ancora le note della chitarra elettrica in concorso con un organo – da ascoltare con attenzione – aprono “Naked”, la storia di qualcuno che procede nudo per la strada ed è naturalmente osservato fino all’arrivo di un poliziotto e il nostro osserva «che solo un travestimento è da condannare», è deciso il “solo” chitarristico che chiude il brano.
Batteria e piano elettrico in evidenza nelle prima battute di “The wise man’s finger”, poi fanno capolinea le note “wah wah” della chitarra che insiste a ricamare durante l’intero percorso del brano, «le auto sfrecciano sbuffando come formiche impazzite su una strada di marmellata» e «anche la luna guarda il dito del saggio come chiunque altro»; attenzione al lavoro congiunto di chitarra e tastiere, sì perché anche un organo si aggiunge.
“Pieces of disquiet”
è senza dubbio l’episodio più particolare dell’album, le spazzole della batteria in apertura, una tastiera disegna lo sfondo del quadro, le noti gravi del pianoforte ed ecco una chitarra acustica, man mano che il brano prosegue si propone una chitarra elettrica che lavora sulle stesse basse del pianoforte; desiderio di fuga, incubi e inquietudini notturne «e i minuscoli insetti che vagano nella mia mente diventano frammenti di inquietudine o qualcosa di più», mentre ci avviciniamo alla fine il pianoforte si fa più drammatico ripetendo sempre la stessa sequenza mentre la chitarra spazia in note lunghe e acide.
Bugiardi, leccapiedi e giochi truccati sono il tema di “Bad crumbs and pats on the back”, l’incedere ritmico è solenne e tosto «mi sono svegliato, comunque ed è una luminosa giornata di sole» a dispetto di quanto mi circonda e inoltre «io cavalco il mio cavallo a dondolo, sono solo un bambino che non è mai cresciuto abbastanza per seguire il vostro stile», intrigante il finale con il basso ad indicare la via. Note di chitarra elettrica ed una atmosfera vagamente “west coast”, “Cradling my mind” si apre così, c’è un leggero organo in sottofondo e il tema è rallentare, non avere fretta, belle «le gocce di pioggia sul parabrezza come il soffice suono del tamburello», tutto il brano è leggero e soffice con tanto di tenui cori di accompagnamento, assolo di tastiere in perfetta sintonia con il contesto sognante perché «la fretta sperpera il tempo».
“For the brave” ha un ritmo sostenuto, organo in primo piano e la voce appropriata per ricordarci che «c’è una via di uscita, ma è per i coraggiosi», c’è questo incedere dell’organo che ripete il tema fino alla fine e «vicino al cielo è facile scivolare, ma ti senti libero come un uccello che vola alto fino al sole» mentre la voce insiste «it’s for the brave».
D’improvviso tutto cambia, piccole note di chitarra, organo, le note lunghe del basso, una batteria discreta ma incalzante, la voce bassa e qualche piccolo arabesco di chitarra elettrica, è evidente la differenza rispetto agli episodi precedenti, “I wish I were the rainbow” si presenta con un’atmosfera morbida, leggera, galleggiante «vorrei essere l’arcobaleno per attraversare ogni goccia di pioggia», «ascolto il rumore del mare accecato dal bagliore della sabbia dorata, il canto delle sirene mi confonde», l’interpretazione vocale è assolutamente perfetta accoppiata con quell’incedere della chitarra, quelle piccole note citate sono una guida esemplare mentre il brano ad un certo punto sfuma lentamente. Bellissima.
“Reflection” è quasi d’altri tempi, un tenero arpeggio di chitarra, una tastiera che suona quasi come un flauto, siamo in pieni anni ’60 e ’70 (a me ricorda i Beatles di Strawberry Fields Forever tanto è “lennoniana”, ma essendo cresciuto a pane e Beatles non faccio testo…), la voce in perfetta armonia con la melodia «c’è un tempo per crescere, c’è un tempo per cambiare, tutto quel tempo non gettarlo via», il finale di nuovo sfumato con una tastiera soffice ad accompagnare le note acustiche della chitarra.
E siamo al gran finale, “Dreams” si apre con una tastiera a fare da tappeto sonoro, arriva la chitarra acustica e un’altra tastiera a dettare la linea, tutto soffice come una nuvola e la voce è recitante, profonda, sussurra, parla più che cantare «il risveglio è faticoso, lo so, ma apri gli occhi, il mondo meraviglioso è al di là di quella porta» e l’incedere della batteria conduce nello svolgimento, «lascia che l’amore fluisca nel tuo cuore, lascia che la musica scorra nella tua anima» ma soprattutto «segui sempre i tuoi sogni» e il finale è un crescendo di strumenti, le note della chitarra elettrica, le tastiere, il lavorìo del basso, tutto rifinito, e si chiude come si conviene: la voce ha detto il suo, gli strumenti sfumano, resta la tastiera a segnare gli ultimi secondi.
Ora sta a voi. “Dreams” chiude la trilogia iniziata con “Based On Lies” e proseguita con “Beggar Town”, i disperati e gli ingannati da un sistema fondato sulla menzogna hanno finalmente trovato un via d’uscita, i tre brani che chiudono “Dreams” ne sono il paradigma: sogni, amore e affetti.
Adesso ci aspettano nuovi orizzonti.
Quali?

[ Fabio Fumagalli - DRIED LEAVES ]








FREAKOUT MAGAZINE
I Cheap Wine non sono mai stati un gruppo politico, nel senso più tradizionale del termine, tuttavia, nel loro modo di muoversi nel mercato discografico e nelle tematiche affrontate c’è il nocciolo della vera politica. Per quanto riguarda il primo aspetto mi riferisco alla loro purezza che si è mantenuta inalterata nel tempo, grazie ad una coerenza e all’indipendenza che ha fatto sì che si producessero tutti i loro dischi. Rispetto al secondo aspetto mi riferisco al fatto che “Dreams”, dodicesimo album, live compresi, in vent’anni di onoratissima carriera, è il terzo capitolo di una trilogia nella quale nei due capitoli precedenti, “Based On Lies” e “Beggar Town”, venivano sviscerati i problemi causati dalla crisi economica.
Con “Dreams”, invece, per il gruppo pesarese è giunto il momento di ripartire dai sogni, quindi dalle aspettative e dalle speranze. Questa è l’attitudine dei grandi gruppi e cantautori perché con il loro lavoro provano sia ad analizzare e a sviscerare le situazioni e a spingere gli ascoltatori a risollevarsi. Quest’ultimo verbo non è utilizzato a caso perché l’atteggiamento dei CW è lo stesso dello Springsteen di “The rising”, album scritto proprio per risollevare i newyorkesi dopo l’11 settembre. Badate bene perché il paragone non è assolutamente ardito, per l’approccio culturale e per un sound che deve molto, se non tutto, al sound Americana e dintorni. In “Dreams” sono presenti brani strutturati essenzialmente su ballate bluesate (“Naked”), vicine all’asse Tome Petty-Neil Young. Il ritmo incalza meno e lascia spazio a landscapes larghi e dilatati con chitarre in lontananza e il contributo dell’ultimo arrivato, il tastierista Alessio Raffaelli, è essenziale e rende il sound pieno e avvolgente.
Le ritmiche, infatti, sono meno taglienti, ma più morbide (“Pieces of disquiet”, “I wish I were the rainbow”). Tuttavia, non mancano brani in cui viene lasciato spazio al rock: “Full of glow” è un brano secco, incalzante, ma non aggressivo, e “The wise man’s finger”, caratterizzato da un funk morbido e trascinante.
Disco che merita di essere ascoltato con attenzione molte volte.
[ Vittorio Lannutti - FREAKOUT MAGAZINE ]










LATE FOR THE SKY
I pesaresi Cheap Wine pubblicano il loro undicesimo album in vent’anni di attività, nono in studio (oltre al mini album d’esordio del ’97), sempre orgogliosamente indipendenti, questa volta con il supporto di una raccolta di fondi organizzata in casa sul sito www.cheapwine.net. E ancora una volta il quintetto guidato dai fratelli Marco e Michele Diamantini centra il bersaglio, dimostrandosi la migliore realtà del roots rock italiano.

Dreams chiude una trilogia aperta nel 2012 con “Based On Lies” e proseguita nel 2014 con “Beggar Town”. In questi due albums hanno raccontato la situazione drammatica dell’Italia di oggi, evidenziando dapprima personaggi distrutti dalla crisi economica e raggirati da un sistema fondato sulla finzione supportata da mass media manipolati (in “Based On Lies”) e poi gli stessi uomini che, preso atto delle macerie e della desolazione, cercavano di sopravvivere, di rimettersi in cammino e di trovare una prospettiva più decente di vita, lottando e non limitandosi a compiangersi.

Con “Dreams” la band cerca, con qualche illusione, di vedere un futuro che in qualche modo offra delle speranze, basandosi sulla forza dell’amore e dei sogni. E questo attraverso la ricchezza data dalla famiglia, dalle amicizie e dalla complessità dei sogni, non necessariamente logici o positivi, in ogni modo indispensabili per capire a fondo la nostra anima.
Dal punto di vista musicale il quintetto prosegue nella maturazione avviata con “Spirits” nel 2009, che ha rappresentato la scelta di un rock meno estroverso e più intimista, a tratti raffinato e complesso, nel quale la chitarra di Michele ha uno spazio ristretto dal punto di vista degli assoli, svolgendo un importante lavoro di raccordo e di arrangiamento, affiancata dal ruolo determinante delle tastiere di Alessio Raffaelli, diventato un elemento determinante nello sviluppo del suono. La sezione ritmica, sempre precisa ed efficace, è affidata ad Alan Giannini (batteria) e al nuovo bassista Andrea Giaro.

Il rock stonesiano incalzante di Full Of Glow apre il disco, seguito dall’eccellente Naked, che esprime lo sconcerto del testo con una chitarra insinuante, sventagliate di tastiere e la voce intensa di Marco. The Wise Man’s Finger è un mid-tempo cadenzato con un tocco di psichedelia, che si apre nel finale lasciato alla chitarra raffinata di Michele. L’ossessiva e avvolgente Pieces Of Disquiet ha qualcosa di Nick Cave, chiudendosi con un calibrato assolo distorto di chitarra. Altri due brani lenti caratterizzano la parte centrale: la ruvida Bad Crumbs And Pats On The Back e la malinconica ballata Cradling My Mind.
Il ritmo torna a crescere con For The Brave, roots rock con un riff di stampo western, ma il mood del disco è più riflessivo come dimostrano gli ultimi tre brani. Dapprima la lenta I Wish I Were The Rainbow, ballata classica con l’organo in primo piano e un testo liberatorio, poi la quieta e sognante Reflection con Andrea Giaro al violoncello, per finire con la splendida Dreams, la traccia più lunga del disco, pacata riflessione che rappresenta un messaggio di speranza narrato più che cantato da Marco con le tastiere e un ticchettio di batteria in sottofondo, fino all’entrata della chitarra che costruisce con discrezione un assolo in crescendo.

Come sempre molto curata la veste grafica, con i testi in inglese e italiano, mentre l’animazione del pregevole video di Full Of Glow è curata dall’ex batterista Francesco Zanotti.
I pregevoli testi della band, un’altra caratteristica non comune con il rock contemporaneo, sono stati raccolti in un volume in vendita sul sito.
“Dreams” cresce con gli ascolti e si candida a diventare un altro classico in una discografia ricca di qualità.
E se i Cheap Wine suonano dalle vostre parti, fatevi un regalo e andate ad ascoltarli: sono sicuro che non rimarrete delusi.

[ Paolo Baiotti – LATE FOR THE SKY ]









RnR Magazine

*****
Even though they have been on the go for twenty years with a hatful of albums, it is possible that many Northern Europeans have yet to come across Cheap Wine, a very talented rock band from Pesaro, Italy.
Their latest release is the final part of a trilogy, succeeding “Based On Lies” (2012) and “Beggar Town” (2014). The back story being one of collapse and catastrophe, and then the struggle of rebuilding.
“Dreams” focuses on an optimistic closure. All that suggests a concept or an operatic approach. This may be so, yet the whole album can be enjoyed for each track in singular exquisite delivery.
Some reviews cite Neil Young and Bob Dylan as influences, and observe a style that cross-pollinates the Greenwich Village underground scene with Southern rock. Perhaps a better pigeonhole, if needed, would be the melodic rock of, say, Pink Floyd.
Marco Diamantini conveys a lullaby lead vocal (all in English) that accentuates the future dreams idyll, just as Alessio Raffaelli’s keyboards underpin the sanguine thread to perfection.
“For The Brave” and “I Wish I Were The Rainbow” embody the flow of the album where every track is a standout.

[ Gareth Hayes – RnR ]











BLABBER'N'SMOKE
Blabber’n’Smoke reviewed an excellent live album from the Italian band, Cheap Wine, back in 2016, and, impressed by it, we delved onto their catalogue discovering several albums steeped in a serious American music jag. Steve Wynn and The Dream Syndicate loomed large in their sound along with E Street urban menace and even some of The Doors’ doomed romance. Now along comes Dreams, their latest studio missive, and it’s clear that they’re continuing to pursue their particular take on the American Dream. However they are no mere copyists, their take on what is by now, a traditional sound (some of their influences go back 40 years- if this were the seventies they’d be sourcing 1930s music) is elevated by the grace and fluency of their playing and, importantly the quality of band leader, Marco Diamantini’s, writing along with his vocals.

Dreams is actually the third of a trilogy of sorts. Previous albums, Based On Lies and Beggar Town reflected the turmoil of the economic crisis with the former quite relevant in these days of “fake news.” Dreams is, at times, an Arcadian vision of the future with Diamantini’s songs obliquely optimistic, dreams being, he says, “The magic wand that free us from the limit of the physical body.” As such he sings of reveries such as walking naked down a road on Naked while Cradling My Mind is a somnambulistic affair as Diamantini describes an idyllic car journey as the band gently press the accelerator.

Much of the album is in a similar vein to Cradling My Mind. The Wise Man’s Finger opens with Doors’ like electric piano and wah wah guitar effects before it unwinds over five hypnotic minutes. I Wish I Were The Rainbow’s arpeggio of rippling guitars and swoonful organ create a mood over which Diamamtini calmly declaims his opaque words. Reflection is a shimmering slice of bucolic acoustic guitars and gentle cello which harks back to English folk psychedelia while the title song, buoyed on another gentle tide of acoustic guitars and sympathetic keyboards has Diamantini speaking in a winning whisper of hope eternal, “Never be afraid of falling down or being wrong ’cause your mistakes will be your guide.” It’s a song which could easily fall into a schmaltzy sentimentalism a la Desiderata but instead it’s delivered with sincerity while the lengthy outro, graced with a fine guitar solo, has a grandiose sweep without sounding pompous. It’s tempting to say that this song would have sounded wonderful coming from the voice of Leonard Cohen. I do believe he would have liked a verse like this, “And remember, the greatest works of art were made for you. Dive into this great adventure and grow, baby, grow. And, most of all, always follow your dreams.”

There are a couple of spikier moments. The opening Full Of Glow is a barbed Paisley Underground rocker and Naked stumbles into view with a Crazy Horse like chunk of rhythm. The band even return to the band that gave them their name on the Farfisa organ fuelled grunge of For The Brave which does sound as if it was buried in an early Green On Red release. Quite wonderful.

[ Paul Kerr – BLABBER'N'SMOKE ]











HOOKED ON MUSIC
Mit “Dreams“ beschließen CHEAP WINE die Trilogie, die sie 2012 mit dem famosen ”Based On Lies” starteten und 2014 mit ”Beggar Town” fortsetzten. Unterbrochen von dem 2015er Live-Album ”Mary And The Fairy”.
Bereits in dem Song To Face A New Day, von “Based On Lies”, wurde mit der Zeile “Dreams are all that we have to face a new day” der Titel des aktuellen Albums “prophezeit”.
Träume sind es, die uns am Leben erhalten, die uns Hoffnung und Zuversicht für die Zukunft geben. Was sonst? Die “Träume“ hier beginnen mit Full Of Glow und zwei der Trümpfe der Band kommen gleich zum Einsatz: Die herrlich crunchy klingende Gitarre von Michele Diamantini und das wundervolle E-Piano von Alessio Raffaelli. Mit diesem Sound ist man als Hörer sofort gefangen. Dazu beweißt sich Marco Diamantini mal wieder als Storyteller erster Güte und kreiert ganz nebenbei noch einen Ohrwurm-Refrain, der die Nummer aufs Beste abrundet.
Bei Naked denkt man, ob der Eingangsakkorde wieder an Neil Young oder – vielleicht im Laufe des Songs noch mehr – an den seligen Tom Petty. Beim Gitarren-Solo ist man dann wieder mehr in Neils Fahrwasser. Auch dieser Song, mit seinem leicht schleppenden Groove, kriegt man so schnell nicht mehr aus dem Ohr.

Auch The Wise Man‘s Finger verzaubet mit seinem melancholischen Flair und seinen tollen Klängen. Da merkt man das jahrelange Zusammenspiel, wie sich die Player ergänzen und aufeinander aufbauen. Erneut ganz stark von Gitarre und Keyboard, aber auch die oft zu wenig beachtete Rhythmusfraktion agiert mit hervorragender Dynamik.
Die Pieces Of Disquiet stoßen sogar in PINK FLOYD’sche Dimensionen vor. Diese Klang-Gemälde hypnotisieren einen regelrecht. An dem Traum hat man noch eine Weile zu knabbern.
Ich finde, das Album wird mit jedem Hören besser und bin geneigt, es schon jetzt zu einem der besten von CHEAP WINE zu zählen. Sänger Marco Diamantini erweist sich ein ums andere mal als herausragender Geschichtenerzähler, in der Tradition von Elliott Murphy und die Sounds hier sind auch richtig klasse. Wer könnte sich vom Americana/Desert Rock von Bad Crumps And Pats On The Back nicht betören lassen? Und von dem Drive! Da fühlt man sich mal an die DOORS erinnert, mal den Wüsten Rock von Rich Hopkins und Songs wie For The Brave schreien förmlich danach in einem Film verwendet zu werden.<(p>

Wie Träume so sind, gerade die von der Zukunft, wird es öfter mal melancholisch, wie in I Wish I Were The Rainbow und auch das – nicht unwesentlich an einen gewissen “Stairway“ erinnernde - Reflection bleibt eher im ruhigeren Gewässer. Und doch spannend.
Im Titelsong schließt sich der Kreis, wenn man mit der Zeile “Don’t forget this system is based on lies wieder auf das erste Album der Trilogie verweist (und gleichzeitig eine der wenigen Wahrheiten dieser Zeit ausspricht!).
Den ganzen Song lauscht man wie im Traum und dieser klingt auch nach dessen Ende noch nach. Und lässt einen noch eine Weile darüber sinnieren. Wie das mit einem richtigen Traum so ist. Kann man das Album ein kleines Meisterwerk nennen? Ich nenn‘ es einfach mal so. Es wäre verdammt an der Zeit, dass darauf auch mal eine größere Plattenfirma und entsprechende Veranstalter aufmerksam werden. Einstweilen erfreuen wir uns an diesem “Träumen“ eben so.

[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]







ROCK TIMES
Interessant, wenn man den Werdegang einer Band über viele Jahre mitverfolgen kann, genauer gesagt seit der Veröffentlichung von Spirits im Jahr 2010. Das sind immerhin nun schon sieben Jahre, die Anfänge mit der Erstveröffentlichung der EP 1997 und den folgenden vier Scheiben bis 2007 blieb uns leider verwehrt. "Spirits" fand ich damals noch recht rockig und so zog ich Vergleiche von den Black Crowes über die Sand Rubies bis hin zu Rory Gallagher. Mit Based On Lies stieß Pianist, Keyboarder und Akkordeon-Spieler Alessio Raffaelli zur Band. Das hatte zur Folge, dass diese Instrumente einen breiteren Raum eingenommen haben, sich somit der Sound doch etwas mehr in Richtung Progressive entwickelt hatte, die Songs 'ruhiger' geworden sind. Ein Nachteil? Keinesfalls, wie immer wieder festgestellt wurde.

Nun liegt mir "Dreams", das für mich mittlerweile fünfte Album der Band (einschließlich der Live-Scheibe Mary And The Fairy), zur Rezension vor und ich bereite mich mental auf die 'Träume' vor.
Zufrieden stelle ich fest, sie können es immer noch, nämlich ab und zu mal rocken und auch die dazu passenden Ohrwurm-Melodien komponieren, was mit "Full Of Glow" eindrucksvoll bewiesen wird. Das Stück bewegt sich in der Dunstwolke von Mellencamp, man könnte aber ohne weiteres Vergleiche mit den Black Crowes ziehen.

Das verschleppte "Naked" gefällt mit einem tollen Gitarrensolo und man neigt unmittelbar dazu, mit den Fingern zu schnippen und mitzusummen. Das Intro zu "The Wise Man’s Finger" beginnt mit einem Keyboard-Intro und wird überwiegend von sehr zurückhaltenden Wah Wah-Gitarren unterlegt (oder wird dieser Sound doch eher vom Keyboard erzeugt?). Auch die Rhythmus-Fraktion agiert mal fordernd, mal dezent, passt sich den Song-Gegebenheiten hervorragend an.

Bei "Bad Crumbs And Pats On The Back" hat sicherlich so mancher Americana/Blue Grass-Held Pate gestanden. Michelle Diamantini entpuppt sich wieder einmal als hervorragender Gitarrist, der die Axt bei den Soli jaulen lässt, wie einen hungrigen Wolf. Und "Cradling My Mind" weckt Assoziationen sowohl an Leonard Cohen als auch an die ruhigen Songs von Chris Rea. Diese Nummer würde mal Qualität in den täglichen Radio-Quark bringen!

Auf eine sechsminütige, düstere Traumreise nimmt uns die Band nun mit "Pieces Of Disquiet" mit. Faszinierend, wie sich dieser Song mit zunehmender Spielzeit akribisch aufbaut. Beginnend mit Percussions und sanft vor sich hin wabernden Keyboards 'erzählt' Marco Diamantini seine düstere Geschichte und sorgt für passende Gänsehaut:

»I was down at the wayside
In this town of lone souls
I was high, I was chased by
awful, bad bogeymen.«

Eine spartanisch eingesetzte Akustik-Gitarre setzt punktgenaue Akzente und man wird das Gefühl einer fast unheimlichen Bedrohung einfach nicht los. Kurz bevor man vielleicht noch einen Kollaps bekommt, wird diese Traurigkeit und Düsternis von der E-Gitarre regelrecht zerschnitten, Piano-Tupfer lassen sogar wieder etwas Frohsinn aufkommen – Spannung pur also.

Hört man genau zu, kann man feststellen, dass sämtliche Stücke eine inhaltliche Bedeutung haben, die von Marco, jeweils passend zum Track perfekt in Szene gesetzt werden: Mal mit sanfter Stimme als Geschichtenerzähler, manchmal fordernd wie in der Up-Tempo-Nummer "For The Brave" oder fast gehaucht, aber niemals mit zu viel Schmalz vorgetragen.
Und bezüglich der Texte kommen mir Tom Petty, aber auch Jim Morrison von den Doors in den Sinn, die beide als geniale Songwriter in die Rockgeschichte eingingen.

Draußen schneit es ausgiebig, unser Ort liegt unter einem weißen Kleid und ich höre mir gerade den letzten Track des Albums, "Dreams", genussvoll an. Marco erzählt noch einmal von seiner Stadt, die voller Entdeckungen, aber auch voller Träume ist. Akustik-Gitarre, ein perlendes Keyboard, punktgenaue Percussion, etwas später eine sanft einfallende E-Gitarre und Marcos zurückhaltende Erzähl-Stimme, das sind die Zutaten, aus denen Träume gemacht werden. Und ja, ich träume auch…. – über sieben Minuten lang und bin einfach nur fasziniert von diesem kleinen Meisterwerk, das Fröhlichkeit und Hoffnung ausstrahlt. Cheap Wines "Stairway To Heaven"?

Hoffnung hat die Band vermutlich immer noch und auch ich frage mich, warum nach diesen vielen Jahren, in denen die Italiener ein feines Album nach dem anderen produzieren, sich sicher sowohl in Rock, Prog Rock und Americana bewegen und ein bestens aufeinander abgestimmtes Dream Team voller Spielfreude sind, bis jetzt immer noch keinen Plattenvertrag haben? Schon 2012 schrieb ich: »Ob Cheap Wine damit nun endlich den Durchbruch schaffen? Ich gebe die Hoffnung einfach nicht auf.« Nun, die Hoffnung stirbt immer zuletzt.
Promoter, Veranstalter, Label – seid ihr wirklich taub auf beiden Ohren!
Nein – das hier ist wahrlich kein schlechter Wein, ganz im Gegenteil! Ich lege jedem Musikinteressierten mit gutem Geschmack die Platte ans Herz.

[ Ilka Heiser – ROCK TIMES ]

 

 

 

 

 

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Mary an the fairy
CD/LP: "Mary and the fairy" (live - 2015)

Blabber’n’Smoke has occasionally ventured into the world of American influenced Italian rock music with bands like Sacri Cuori and Lowlands proving that there’s a genuine feel for the sound in the boot heeled peninsula. Some time ago we spoke to Edward Abbiatti of Lowlands about this and he recommended a band, Cheap Wine and weirdly enough the very same crew recently reached out and sent us a copy of their latest album. A live affair, recorded in Pesaro, Italy it portrays the five piece band as a very accomplished bunch of rockers who inhabit that world frequented by the likes of Tom Waits and Nick Cave although they don’t have the gruffness of the former nor the grimness of the latter. In addition the band (named after an old Green On Red Song) have a definite touch of Steve Wynn’s Dream syndicate about them (Mr. Wynn has enjoyed playing live with them in the past) and there is a hint of E Street balladry, Velvet Underground streetsmarts and Waterboys’ epic sweep on some of the songs while their European heritage flickers into life here and there, a cafe come cabaret loucheness stalking them.

Mary and The Fairy (the title derived from two of the songs on the disc) features eight songs from the band’s back catalogue that they thought deserved to be captured for posterity, songs that in concert stretch out beyond the studio versions allowing the instruments space to shine. It’s a great recording, the sound crisp with only occasional audience applause to remind one that this is live music. The majority of the songs sit astride piano driven melodies with Marco Diamantini’s vocals well to the fore, the lyrics all in English, his accent only just noticeable, his voice slightly wearied. As the band stretch out there’s acres of fluid and fierce guitar soloing that adds fire to the songs making for some invigorating listening.

Three of the songs exceed the ten minute mark, all mini epics. Behind The Bars is a showcase for the excellent piano skills of Alessio Raffaelli with the song opening like a Springsteen jailhouse opera. The guitars flail away but the piano solo midway through is mesmerising. Mary opens with Diamantini describing the titular “queen of drop out street” as if he were Kevin Ayers or Lou Reed as the band creep around him creating an atmospheric milieu until a guttural guitar solo weighs in seven minutes into the song shredding away until the end. The Fairy Has Your Wings (for Valeria)  is another seesaw of intimate lyrics and gentle instrumentation interspersed with thunderous bursts of guitar fury with some excellent calm in the centre of the storm in the shape of another fine piano solo from Raffaelli.

Away from the Sturm und Drang of these longer numbers the band offer the effortless stroll of Based On Lies, the autumnal ballad of Dried Leaves and the nocturnal delights of the noirish waltz that is La Buveuse. The oddly named I Like Your Smell (you need to listen to the lyrics here) is a minor masterpiece with the addition of an accordion allowing the band to sound like an Italian version of The Felice Brothers.

For a live album this is a mighty fine listen even for anyone who isn’t aware of the original versions and for this reviewer a sweet invitation to delve into the band’s back catalogue.

[ Paul Kerr – BLABBER'n'SMOKE ]








Kaum ein Jahr nach ihrem letzten Studioalbum, ”Beggar Town”, legen die Italiener von CHEAP WINE ihr nächstes Album vor und zu meiner Freude, muss ich gestehen, ist es ein Live-Album. Nach ihrem 2010er Live-Doppel-Album, und besonders nach dem Gig in der ”Studio Lounge” in Obertrubach, bin ich von den Live-Qualitäten der Band absolut überzeugt.
Diesmal zwar nur eine einzelne CD und keine Doppel, aber keiner der Songs war auf dem Vorläufer enthalten und mancher (I Like Your Smell, z.B.) ist auch als Studiowerk nicht mehr zu bekommen. Die Idee hinter dieser Aufnahme war, wichtige, ja, nahezu essenzielle Stücke aus dem Repertoire von CHEAP WINE in ihrer Bühnenfassung mitzuschneiden und tatsächlich kann man wohl von der Essenz dieser Roots- und Folk-Rock-Band mit der besonderen Note sprechen.

Mit dem Titelstück des für mich immer noch heraus- wie hervorragenden Albums “Based On Lies“ schleicht man sich gewissermaßen langsam in den Set. Da fällt zunächst – wieder einmal, muss man sagen – das wundervoll lockere, dahinsprudelnde Piano-Spiel von Alessio Raffaelli auf. Im eigenen Land gilt der Prophet selten was und in Bella Italia ist so ein Name vielleicht auch nichts Außergewöhnliches, aber aus der Ferne kann man deutlich sagen: Nur ein Künstler oberen Ranges kann so heißen und das stellt er auf dieser Scheibe mehrfach unter Beweis.
Sänger Marco Diamantini tritt so langsam aber sicher in die Fußstapfen eines Geschichtenerzählers wie Elliott Murphy. Seine Texte wohl mit die besten südlich der Alpen, wen auch manchmal leicht kryptisch, aber Songwriter wie Bruce Springsteen wurden für sowas nahezu heiliggesprochen. Von ihren Fans, nicht vom Vatikan, wohlgemerkt.
Ja, da steckt so viel in einem Song von CHEAP WINE, dass man bereits über den ersten stundenlang reden könnte. Mich erinnert die Nummer immer ein bisschen an D-A-D und besagten Herrn Murphy.
Wenn es in den Songs heftiger wird, ist das meist Michele Diamantini geschuldet, der von eingeworfenen, bluesigen Licks, auf die Überholspur wechselt und den jeweiligen Song in eine Stampede verwandelt.

Vom Album “Spirits“ stammt Dried Leaves, welches eine ganz wundervolle, schwermütige und doch hoffnungsvolle Stimmung zaubert. Slide-Gitarre von Michele und Raffaellis herrliches Piano sind die Stützen, auf denen Marco Diamantini seinen Spannungsbogen balanciert.
Behind The Bars vom nicht mehr erhältlichen Album “Crime Stories“ und ist schon deswegen ein Anreiz. Hier geht man von Beginn an etwas derber zu Werke, es wird lauter, rockiger, und ein kaum zu zügelndes Feuer lodert immer höher. Die (Live-) Philosophie von CHEAP WINE drückt sich hier besonders aus: Lange Instrumental-Parts, die sich nicht nach Zeit oder Richtung orientieren, sondern denen man ihren Lauf lässt. So kommt man leicht auf über zehn Minuten, die sich äußerst dynamisch gestalten und zwischen nahezu Klassik und bretthartem Rock kreuzen.
Bereits erwähntes I Like Your Smell ist vielleicht die Nummer, die am schnellsten ins Ohr geht. Liegt an der eingängigen Melodie, getragen von Alessio Raffaelli, diesmal am Akkordeon, die eine gewisse Fernweh in sich trägt. Überhaupt ein Lied, bei dem man sich “wegträumen“ mag. Erinnert mich ein bisschen an Stefan Saffers letzte Alben.

La Buveuse stammt wieder vom “Spirits”-Album, gibt sich sehr subtil, bluesig und mit leichtem Desert-Rock-Touch. Diesmal hält man die eingeschlagene Richtung und lässt den “Film“ vor dem inneren Auge ohne große Veränderungen vorbeiziehen. Die (An-) Spannung bleibt erhalten, was mit dem entsprechenden Applaus belohnt wird.
Das Album “Ruby Shade“ ist nicht mehr erhältlich, was angesichts von Mary wohl nicht nur ich bedauere. Erneut reichen 10 Minuten kaum aus, um diesen nahezu epischen Song zu zelebrieren. Man spürt förmlich, wie sich die Musiker (und Publikum) auf diesen Trip begeben, dessen Verlauf sie nur vage vorhersehen. Sehnsüchtig heult die Slide-Gitarre, fast sphärisch kommen die Piano-Sprenkel und Marco Diamantini lockt mit seiner Story immer neue Fahrgäste auf diese Reise. Fast erlösend, durchbricht irgendwann Michele Diamantini den Nebel. Gewittergleich zerfetzt er die Schwaden, die sich am Ende ganz leise verziehen. Puh, das hat Kraft schon beim Zuhören gekostet.
Da kommt Waiting On The Door (wieder von “Based On Lies”) gerade recht, um den Hörer auf eine etwas lockerere Reise mitzunehmen.
The Fairy Has Your Wings (For Valeria) hat schon das letzte Studioalbum ”Beggar Town” so perfekt beendet wie bereichert und live entwickelt sich das Stück – erwartungsgemäß – noch mehr und offenbart noch ein paar zusätzliche Facetten. Wie gesagt, bei Nick Cave wäre der Song ein sicherer Hit und hier, bei CHEAP WINE im Konzert ist eine 11 ½ Minuten-Oper, so bittersüß, so betörend, wie es nur “billiger Wein“ sein kann, der aber, ebenso wie diese Band, absolut gehaltvoll ist. Eine erneute Weiterentwicklung, mit teils virtuosen Leistungen.

[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]








Fleißig sind sie ja, die Italiener, die seit dem Debüt Ihrer EP im Jahre 1997 in schöner Regelmäßigkeit Platten veröffentlichen und wenn man auf ihrer Homepage einen Blick in den Tour-Kalender wirft, kann man nur hochachtungsvoll den Hut vor der Band ziehen.
Was liegt somit also näher, als nach dem letzten Live-Doppelalbum aus dem Jahre 2010 sowie den Studioscheiben Based On Lies (2012) und Beggar Town (2014) eine weitere Live-Platte nachzuschieben - "Mary And The Fairy".
Ein Blick auf die Tracklist zeigt: Hier wird eine gute Stunde lang ein gelungener Querschnitt aus der Schaffenszeit der Band geboten.
Mit dem Namensgeber für "Based And Lies" aus dem Jahr 2012 wird das Set eröffnet. Auffällig dabei ist, dass der im gleichen Jahr neu hinzugekommene Alessio Raffaelli seine Position in der Band - für meinen Geschmack - etwas zu sehr ausgebaut hat. War Spirits 2009 noch sehr bluesig gehalten und hat mich damals glattweg vom Hocker gehauen, so überwiegt jetzt Rock Noir à la Nick Cave, Elysian Fields und Konsorten (jedoch etwas filigraner), was aber keinesfalls bedeutet, dass die Band bei mir nun endgültig 'verloren' hat. Ab und zu blitzt ja doch noch der 'alte' Stil durch, was beim 10minütigem "Behind The Bars" vom 2002er Album "Crime Stories" zumindest ansatzweise recht gut zu hören ist. Kurze Randbemerkung: "Crime Stories" nahmen einige Kritiker zum Anlass, Vergleiche zu den Black Crowes zu ziehen.
Michele Diamantini, der gern auch als »best european rock guitar« bezeichnet wird, übernimmt die Führung in "Behind The Bars" und treibt seine Mitstreiter ordentlich nach vorn, bis das Piano mit perlenden Klängen eine feierliche Stimmung zaubert, die von der Gitarre jäh zerschnitten wird.
Man tobt sich aus - live - es wird improvisiert und soliert und so reift aus einer 'ganz normalen' Studionummer mal eben ein überlanger Track, der voller Spannung, manchmal mit etwas Dramatik, aber auch mit viel Spielfreude vorgetragen wird.
Sehr schön ist auch die folgende, von einem Akkordeon dominierte Nummer "I Like Your Smell", ebenfalls aus 2002.
"La Buveuse" stammt vom 2009er Album "Spirits", mit dem ich auf Cheap Wine aufmerksam wurde. In meiner damaligen Rezension fielen Namen wie John Mellencamp,
Rory Gallagher, Townes Van Zandt, Black Crowes, John Campbelljohn oder gar Bob Dylan... somit erklärt sich der bluesige Charakter des Songs ganz von selbst und meine Mundwinkel ziehen sich nach oben.
Und ein weiteres Mal nimmt uns die Band mit auf eine sehr lange, ganze zehn Minuten andauernde Reise, auf der uns mit "Mary" ("Ruby Shade", 2000) eine traumhafte Stimmung erwartet: Zuhören ist angesagt und als solcher muss man sich bei dieser Band wohl oder übel auf alles gefasst machen, aber ich denke, als hartgesottener Cheap Wine-Fan lässt man sich gern darauf ein. Marco Diamantini wird nun zum Storyteller, untermalt wird das Ganze von virtuosen Gitarrenklängen mit Slideeinlagen sowie einem sanft vor sich hinplätschernden Piano, und das Publikum hört ganz gebannt zu, um ja nicht das Ende der Geschichte zu verpassen. Die Ruhe vor dem Sturm könnte man auch sagen - denn plötzlich übernehmen E-Gitarre und Drum das Kommando und bereiten der aufkommenden Träumerei ein jähes Ende. Nick Cave wäre stolz auf sich...
"Waiting On The Door" (aus "Based On Lies", 2012) gehört, im Vergleich zu "Mary" und "Behind The Bars" zu der eher leichteren aber keineswegs schlechteren Kost.
Mit der überlangen, elfminütigen und wiederum sehr abwechslungsreichen Nummer "The Fairy Has Your Wings" ("Beggar Town", aus 2014) walzt die Band noch einmal alles nieder und beendet damit ein Album, dass Spaß macht und welches ich Cheap Wine-Fans schon aus dem Grunde ans Herz legen möchte, weil darauf Songs enthalten sind, deren Platten lt. Bandwebseite leider nicht mehr käuflich zu erwerben sind. Dazu gehören "Behind The Bars" und "I Like Your Smell" ("Crime Stories") und "Mary" ("Ruby Shade"), schade eigentlich.
Vinylsammler aufgepasst: "Mary And The Fairy" ist auch als Doppelvinyl erhältlich!
Mit diesem Livematerial offenbart die Band einmal mehr ihre Vielseitigkeit. Nicht zu Unrecht haben sie sich durch stetiges Touren, aber auch durch die Veröffentlichung ihrer Alben auf hohem Niveau eine breite Fanbasis erarbeiten können und bewiesen, dass man nicht unbedingt eine Plattenfirma nebst Promoter im Rücken haben muss, um gute Musik unters Volk bringen zu können. »Nix mit billigem Wein« schrieb Ulli 2014, recht hat er immer noch.

[ Ilka Heiser – ROCK TIMES ]








Menzogne. Il mondo è basato su un mucchio di menzogne. Based On Lies. Lies. Menzogna.
A un certo punto della vita anche chi è così tardo da essersi sempre fidato di tutto e tutti non può che andare a sbattere contro il muro delle menzogne. L'ho sempre avuto nel retrobottega del cervello, poi un giorno è stato tutto evidente. Quando uscì il disco dei Cheap Wine, quelle parole si conficcarono in uno spazio che si era aperto di suo, adesso mi martellano la mente ogni istante. Lies. Based on lies.

Ci voleva un gruppo coraggioso, non certe parodie di gruppi rock di oggigiorno, per tirare fuori quelle parole. Ognuno può scegliere da che parte cominciare. Puoi cominciare dall'alto, dove c'è chi le menzogne le crea e le distribuisce ai governi, ai media, ai banchieri. O puoi cominciare dal basso, dal tipo che incontri in metropolitana, dal collega, dagli amici. La menzogna è uguale e fa rima con la nostra incapacità di misurarci con quello che sentiamo in fondo al cuore.
Siamo fatti con un desiderio troppo grande per la nostra miserabile pochezza esistenziale. Troppo e troppo difficile, la menzogna è la scorciatoia comoda.

Based On Lies è un grande disco. Altrettanto e forse di più lo è il nuovo MARY AND THE FAIRY, registrato dal vivo in una notte benedetta in un teatro di Pesaro, a casa loro. Una di quelle notti dove la magia si spalanca più che le altre volte, e ogni nota è un incanto.
Solo otto pezzi e se eravate venuti per ballare tornatevene a casa. Il rock denso grondante sferzate elettriche qua c'è poco, lo spirito c'è sempre naturalmente. Ma dopo la rabbia contro le menzogne, ognuno ha bisogno di rimanere solo con se stesso. E ricostruirsi.

Otto pezzi scuri, otto ballate sul filo del rasoio, otto scampoli di un Nick Cave desolato. Questa band suona fottutamente bene. Non sembra possibile che tutto sia accaduto dal vivo, senza montaggi o ricostruzioni in studio. Chitarre, pianoforte, sezione ritmica, il cantante. C'è un fantasma che quella notte era sul palco, era Mary o ero io, o eri tu. Era una fata. Era la donna a cui è dedicato lo straordinario pezzo finale, quasi dieci minuti di intensità stratosferica, The Fairy has your wings. Un solo di pianoforte lungo come un abbraccio, Beethoven suona in una rock band, che non vorresti finisse mai, poi l'esplosione di chitarre basso e batteria. La fata e il fantasma volano verso il paradiso, dove le menzogne non potranno più ferirle. E' un vino da poco, ma vale più dello champagne
Che notte quella notte a Pesaro.

[ Paolo Vites – THE RED RIVER SHORE ]






Succede nella vita di cambiare vita all'improvviso partendo da dove vivi e che il primo disco che metti nel lettore appena ricominci a vivere nella tua nuova vita sia MARY AND THE FAIRY dei Cheap Wine.
Ti metti lì un pomeriggio e ascolti e mentre ascolti scrivi e pensi che ti piace questo momento qui, con questa musica qui, sorprendentemente soffusa, vibrante come un gatto all'erta eppure sorniona, elegante, notturna.
I Cheap Wine avevano incantato in trio per così dire acustico ma non troppo a San Ginesio, nel marzo di quest'anno, in combinata coi Gang; il disco che dopo la consueta battaglia coi mulini a vento hanno sfornato, va da sé autoprodotto, è di un mese dopo, poco più; qui in formazione tipo, in casa propria, Pesaro, Teatro Sperimentale, 30 aprile 2015, erano come treni nel colmo di un tour che non è mai finito perché loro son di quelli che suonano sempre e più suonano e più diventano bravi e se non suonano comunque provano e provano e provano, per non arrugginirsi mai. Si sente.
Delle otto lunghe tracce estratte da quel concerto e immortalate qui, nessuna era già stata catturata dal vivo: per scelta, per arricchire la prospettiva di Stay Alive!, di ormai 5 anni fa, e poi perché nel frattempo erano arrivati altri due album da studio, ovviamente straordinari.
Il repertorio è a questo punto sconfinato, le soluzioni sonore potenzialmente infinite, i cinque possono davvero fare quello che vogliono con gli strumenti addosso. Lo fanno.
Qui, non senza sorprendere, privilegiano i toni dolenti, meditativi, di eroi stanchi della polvere di un viaggio che non finisce ma non si sa neanche dove continui; una scelta di coerenza, di onestà per non nascondere l'attuale momento, la difficoltà dell'esistere resistendo, il canto di Marco Diamantini trattenuto, vorrebbe esprimere ancora più di quanto già non faccia, la voce di chi non ha più niente da vincere e da perdere, e sotto il contrappunto caleidoscopico dell'accordion o le tastiere o il piano di Alessio Raffaelli, e poi, sulla linea ritmica di Alan Giannini ai tamburi e Andrea Giaro al basso, una cosa sola, le dilatazioni, fughe, cavalcate, sussurri, grida, imprecazioni, invocazioni, silenzi, respiri della chitarra di Michele Diamantini che va dove vuole, se vuole, se appena le prende il ghiribizzo. Questa chitarra che non ha forse eguali in Italia, che ogni tanto si ricorda di Frank Zappa, non di rado di Mark Knopfler, di Mick Taylor, di chi vi pare a voi, comunque sempre di se stessa, è lo specchio di questo gruppo: orgoglioso, ripiegato, marginale, fuori dalle traiettorie, basato su una linearità a tutta prova, scortato da un gruppo di fedelissimi che non sarà oceanico ma ne difende bene lo status di culto (il vinile, di prossima pubblicazione, è figlio del loro amore collettivo). È una lunga elegia dolente questo MARY AND THE FAIRY, ma a testa altissima: non cedono, e non si umiliano. Conoscono il loro valore. Per questo, pare a noi che i Cheap Wine riposino su un paradosso un po' grottesco: per quello che suonano, per come lo suonano, non hanno gran mercato, però non possono oltre contentarsi di locali improvvisati o stamberghe: valgono troppo, sono un gruppo che è cresciuto (è sempre stato) molto più della loro immagine, in controtendenza con il 99,99% dello scenario musicale italiano, indie, alternativo, mainstream, come cazzo vi pare.
Di questa distorsione andrà pure tenuto conto perché o li fate suonare, e li fate suonare in teatri, auditorii, insomma posti degni, o li sprecate.
Non so se loro si pongano il problema, ma il problema c'è ed è un problema di qualità, di importanza, di rilevanza. Di crescita.
Loro sono il gruppo che gli americans volentieri adotterebbero, ma stanno qua. Continuano a suonare, a provare, a comporre, a suonare, a migliorare, a lottare coi mulini a vento, a uscirne comunque vivi, a stento, ma vivi, come cani nell'ombra se vuoi, come tensioni estreme di Giuliano Del Sorbo, fatto è che non possono non suonare, debbono suonare. Per la gioia loro, e di chi li ascolta.
Perché suonano come chi per due ore esce dall'inferno, la parentesi di un palco che si apre e si chiude, e fuori torna la vita, che è fatta di ombre, di tensioni estreme, di difficoltà, di abissi sprofondati da cui si vola via col volo di farfalla di un assolo di chitarra.
Tutto questo in questo live (che per me trova la sua catarsi sublime nella coda strumentale di Mary), nella musica dei Cheap Wine sempre.
Se ne facesse una ragione chi non ci arriva, se lo mettessero in testa impresari, gestori, gente che si riempie la bocca con la qualità ma poi la sputa con l'ennesimo coglione. Ai ragazzi, sommessamente, non un consiglio ma un auspicio: a questo punto, se vi serve, vendetevi anche un po': che cazzo avete ancora da dimostrare? Trovatevi un promoter, brigate, giocate sporco, fate quello che volete, è la causa che lo impone; avete creato, mantenuto viva una realtà che va oltre voi, reclama degne ribalte e lo spazio che merita.
Siete cresciuti troppo, vi state maledettamente stretti.

[ Massimo Del Papa – BABYSNAKES ]









Notte, silenzio, buio, una luce tenue che filtra attraverso le persiane socchiuse da un lampione giù in strada o dalla luna, in una oscurità serena con quell'aria leggera e tersa così speciale che si affaccia alla fine di un temporale. Così va ascoltato questo MARY AND THE FAIRY, in solitudine senza l'assillo del tempo, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare dalle note e dalla voce, perché questo non è un solo album dal vivo, è qualcosa che si snoda intorno a te e ti avvolge, quasi fosse un abbraccio. E forse lo è.

È una narrazione composta di otto episodi: ci sono gli affreschi (Dried Leaves, La Buveuse, The Fairy Has Your Wings), le istantanee (Based On Lies, I Like Your Smell, Waiting On The Door) e i racconti (Behind The Bars, Mary), un'ora di musica straordinaria, eseguita, suonata, vissuta. È tutto un susseguirsi di stati d'animo, meravigliosamente tradotti in parole e note.

Emozioni, sensazioni, sentimenti.

L'apertura bluesy di Based On Lies con il suo incedere dapprima morbido e poi via via più solido e il suo finale impetuoso che cede il posto all'incipit tenue e delicato, pianforte e armonica, di Dried Leaves (la mia preferita in senso assoluto da sempre, in questo periodo di più) resa più tenera da un incedere leggermente più lento e cantata in modo sublime, la chitarra che scandisce i sentimenti alternando (in successione) note gravi e lunghe ad altre più rapide e acute perché si può lasciarsi cadere tra le braccia di qualcuno per amore o per necessità. Commovente.
Il lungo racconto di Behind The Bars, impreziosito da un “solo” centrale di piano e con un finale in un tormentato crescendo, la drammatica istantanea di I Like You Smell con una incantevole fisarmonica e poi eccolo l'affresco de La Buveuse, rispetto alla versione di Spirits non ci sono slide e tromba jazz ma piano e le note blues della chitarra non tradiscono affatto - anzi - e disegnano alla perfezione una vita difficile.
Mary si muove piano piano all’inzio, quasi affacciata, in punta di piedi per poi distendersi e la prolungata coda finale varrebbe da sola l'ascolto dell'intero album, con la musica che sfuma lentamente scortata da un esile organo per spegnersi come una candela che si consuma lasciando solo un filo di fumo profumato.

Waiting On The Door con quelle particolari note di piano ti prende per mano e ti accompagna verso il pathos finale di Fairy Has Your Wings colma di turbamenti e batticuore, con un finale toccante per intensità e drammaticità.

MARY AND THE FAIRY è suonato, cantato, eseguito come meglio non si potrebbe, ogni nota è perfetta non solo per tecnica ma per capacità di fare musica, per come è trasmesso, comunicato, direi condiviso con chi ascolta che non è semplice spettatore ma è partecipe, deve esserlo.
Che suonino ancora a lungo i Cheap Wine.

[ Fabio Fumagalli ]







Dopo anni di attività alle spalle ed un discreto, ma non eccellente primo live album intitolato Stay Alive! (2010), i marchigiani Cheap Wine tornano in pista con un cd che racchiude otto brani del loro repertorio suonati dal vivo.
Le canzoni non sono le più note e vengono proposte in versioni altamente stravolte ed allungate.
Il risultato è semplicemente magico, con un suono elettroacustico guidato dal pianoforte e dalla furia delle chitarre, che effettivamente in Italia quasi nessuno può vantare (decisamente allo stesso livello di ben più celebrate band americane).
I Cheap Wine non sono però solo sudore ed energia, ma anche tanta poesia e spessore cantautorale, lo si percepisce chiaramente ascoltando pezzi accorati come La buveuse (dal curioso andamento jazzy) o Mary.
Un album come questo dovrebbe far riflettere tanti in Italia, che sostengono di fare rock ed il rock non sanno nemmeno bene cosa sia.
L'unica pecca è che si tratta di un cd singolo, mentre sarebbe stato proprio bello avere tra le mani un nuovo doppio.

[ Lorenzo Allori - RADIOGAS ]








Questi ragazzi, i Cheap Wine, sono ormai i Rolling Stones di casa nostra. Sui palchi da vent'anni, sono arrivati al traguardo dei dieci dischi con la bandiera del rock ancora saldamente issata sulle palizzate di Fort Apache.
Esorditi nel 1997 con Pictures, costituivano il contraltare da questo lato dell'Oceano (e del Mediterraneo) del Paisley Underground los angelino di Dream Syndicate e Green On Red. Punk, new wave, rock delle chitarre, ballate elettriche, sapori di periferie urbane che confinano con il deserto.
Da questo punto di vista il suo apice la band lo ha raggiunto con Spirits, l'album del 2009, e sigillato con il doppio album in concerto Stay Alive!
Invece di appiattirsi sulla formula, i fratelli Diamantini hanno da allora virato verso una forma ballata più intima,  rinunciando alle chitarre distorte per inseguire un songwriting che, pur nel trade mark del suono originale 100% della band, può portare alla mente, per esempio, Nick Cave e i suoi Bad Seeds, dalle parti di The Boatman's Call.
Il frutto di questa ricerca, seminato in Based On Lies e Beggar Town, i Cheap Wine lo raccolgono finalmente qui, su MARY AND THE FAIRY, Maria e la Fata, uno dei dischi più riusciti ed eleganti della loro storia.
Otto canzoni, lunghe e sognanti, canzoni che non hanno alcuna fretta di terminare, suonate dal vivo in un'ambiente intimo e con un suono presente e squillante (un po' alla Joe Jackson di Body and Soul, un disco che pure era stato registrato dal vivo, o meglio in diretta) che più efficacemente dello studio aiuta a liberare la magia unplugged. Che poggia in gran parte sul pianoforte di Alessio Raffaelli, il Roy Bittan nazionale.
Si potrebbe dire cheMARY AND THE FAIRYinizia dove finiva il precedente Beggar Town, cioè la canzone The Fairy Has Your Wings (for Valeria), che ne rappresentava in momento migliore (e che in effetti chiude anche questo nuovo disco). Nessuna delle canzoni è un filler, ognuna ha un suo fascino ed una sua personalità; ciascuna è la mia preferita mentre sta suonando, come I Like Your Smell introdotta dalla fisarmonica, come La Buveuse, jazzata e notturna, come Dried Leaves, springsteeniana d.o.c..
Peccato la copertina non includa i testi.

Un disco come MARY AND THE FAIRYnon ha nessun complesso di inferiorità verso il rock di oltremanica e di oltreoceano; anzi, stento a citare qualche disco internazionale di quest'anno che possa vantare l'identica forza e poesia. A sottolineare come l'underground italiano, del tutto ignorato dai media, avrebbe in sé la forza di costituire una scena di successo.
Sapete cosa mi piacerebbe fare, se non dovessi lavorare per far quadrare i conti? Acquistare un vecchio furgone Volkswagen e girare il Paese per distribuire dischi come questo, assieme a libri come quelli di cui racconto in Assegni a vuoto. Perché sono sicuro che, se solo il pubblico avesse occasione di ascoltarlo, non perderebbe l'occasione di comprare un disco come Maria e la Fata. 

Da ascoltare. Da conoscere.

[ Blue Bottazzi ]








Dopo che il doppio dal vivo Stay Alive! (2010) aveva fatto da spartiacque nella carriera artistica, e forse anche nella vita, dei Cheap Wine, da lì in poi il loro percorso è mutato, come pure, in gran parte, la loro musica, e se in quell'occasione avevano "sondato" per la prima volta la collaborazione con il pianista Alessio Raffaelli, poi è entrato nel gruppo in pianta stabile, la band marchigiana, dopo lo splendido Based On Lies (2012) e l'acclamato Beggar Town (2014), sente l'esigenza di fissare su disco un nuovo concerto; un lavoro preparato accuratamente nei minimi dettagli, sia nella scelta dei brani, andando a riprendere alcune canzoni dai dischi ormai fuori catalogo, ma anche e soprattutto, vestendo le canzoni con arrangiamenti totalmente nuovi e davvero vincenti. Il 30 aprile 2015 al Teatro Sperimentale di Pesaro, davanti ad un pubblico che per la bisogna è quasi in "religioso silenzio" (se non per qualche discreto applauso alla fine di ogni brano) si consuma l'heimat di MARY AND THE FAIRY , un album di sole otto canzoni, peraltro equipaggiate con lunghissime versioni che in tre casi vanno oltre i dieci minuti, ma tanto pregnante da lasciare ammirati. Mai come in questo caso i Cheap Wine (forse consapevoli di dover lasciare un'impronta importante nella discografia live del rock italiano di matrice internazionale) sfoderano esecuzioni completamente rivisitate delle canzoni previste in scaletta e lo fanno con l'autorevolezza che solo le grandi formazioni sono in grado di fare.
La musica dei CW è come un fiume carsico, le chitarre di Michele Diamantini creano uno scorrere continuo e sotterraneo di suoni a sostegno del cantato di Marco Diamantini (qui particolarmente incentrato su un registro vocale molto consono alla sua estensione e particolarmente evocativo oltre che funzionale agli arrangiamenti) per poi sgorgare in improvvisi e lunghi solo di grande intensità ed efficacia.
Il pianismo liquido e bluesy in Based On Lies, grande brano che apre il disco, e la chitarra che ricama per poi esplodere, come nello stile di Michele, fanno da perfetto accompagnamento al duro testo di denuncia di Marco.
L'intro armonica e piano (molto springsteeniano), la batteria spazzolata di Alan Giannini in Dried Leaves lasciano intendere che sarà un concerto molto ispirato. Le sciabolate elettriche della chitarra e la voce, anch'essa molto younghiana, di Marco, inframmezzate da un assolo bellissimo di Raffaelli, sono il tessuto connettivo di Behind The Bars, ripescata da Crime Stories (2002) e qui in una versione goduriosa da 10',30"!
I Like Your Smell si avvale dell'utilizzo della fisarmonica che dona un'ulteriore patina di "sana" malinconia ad un pezzo già triste nel testo.
La Buveuse, ispirata dall'omonimo quadro di Toulouse-Lautrec, è molto jazzata e ammantata di un'atmosfera (non fosse per il testo) quasi da murder ballad.
C'è finalmente spazio anche per Mary, tratta da Ruby Shade (2000), album ormai introvabile, in una versione lenta in cui il suo tratto psichedelico si manifesta in tutta la propria natura, sostenuta da hammond in sottofondo e chitarra (che parte da Knopfler per finire a Gilmour) che esplodono in un finale che non può lasciare indifferenti.
The Fairy Has Your Wings (for Valeria), commovente ed ispirata come e più di sempre, chiude un disco che nell'essere singolo ha un altro dei suoi pregi, in quanto, alla fine dell'ascolto, ti lascia con una gran voglia di ripartire per il viaggio.
Che dire di più? Che il digipack è artistico e di pregio con i dipinti di Giuliano Del Sorbo, che la qualità della registrazione è perfetta, quasi da live in studio, che i Cheap Wine sono in ottima forma e che MARY AND THE FAIRY è un album "Diamantino" e, nella loro discografia, un disco imprescindibile che può rappresentare il biglietto da visita perfetto per catturare nuovi sostenitori, i futuri Wineheads.

[ BUSCADERO - Gianni Zuretti ]






Poche volte mi è capitato di trovarmi immerso in un silenzio surreale durante un concerto, tra quelle poche volte sul palco c’erano i Cheap Wine, capaci di creare un clima di ascolto, di attesa interiore e di tensione musicale rarissimo da incontrare e da vivere.
Le loro performances live rasentano la perfezione stilistica, nulla è lasciato al caso e tutto convoglia in un ascolto ingordo per cogliere ogni accordo, ogni nota, ogni sospiro, in un equilibrio assoluto dove nessuno dei 5 assurge a protagonista o frontman, dove ogni particolare è importante, dove ciascuno è un tassello insostituibile che assume valore grazie a tutti gli altri componenti inserendosi perfettamente nell’alchimia e nel mecanismo oliato da tanti anni di lavoro insieme, da una solida amicizia e da un rispetto, collaborazione, fiducia e coesione difficili da trovare in tante altre band.
Vederli ed ascoltarli live è una esperienza unica, è come essere davanti ad un monolite una solida band che da anni lotta, sgomita crede in quello che fa, si autoproduce, non si svende e porta alto nel panorama musicale italiano il verbo della musica, alzando, album dopo album sempre più l’asticella della qualità del loro suono e delle loro canzoni.
MARY AND THE FAIRY
raccoglie 8 canzoni che vanno a completare il precedente Stay Alive!(2010) e raccolgono i frutti di 5 anni di live insieme al piano di Alessio Raffaelli dimostrando come il suono della band sia mutato, cresciuto e si sia raffinato. Una maturazione che per i ragazzi è incominciata fin dal secondo disco, una ricerca di soluzioni e suoni che non si è mai fermata, il loro è un cammino inesauribile verso l’essenza di quello che per loro rappresenta la musica, a tratti meno graffianti, ma sicuramente più intensi… così i pieni hanno lasciato spazio a i vuoti che accrescono e aumentano il pathos in ogni canzone. Così come le storie narrate, sempre più vissute e impregnate di significati che toccano da vicino ognuno di noi per una somma musicale e artistica che tocca direttamente l’anima.
Il disco riassume alla perfezione lo spirito di Cheap Wine, rispecchia l’animo onesto, semplice ed introverso della band, i 5 riversano tutto il loro “essere” nella musica, vendendoci pochissimo fumo e tantissimo arrosto andando al centro, toccando i nervi e i recettori più sensibili, un disco in studio o un disco live dei Cheap Wine non sarà mai un disco “ruffiano”, non ci sarà mai il sentore di… o il profumo di…  questo è il suono di Cheap Wine senza compromessi, diritti alla meta della Musica, quella che regala emozioni, quella che ti fa restare a bocca aperta, quella che ti fa sperare che le canzoni di questo MARY AND THE FAIRYpossano non finire mai. Ancora una volta chapeau, con tutta la stima, l’ammirazione e il rispetto per voi e per il vostro lavoro… a nome di tutti vi dico Grazie di esserci e di continuare crederci ancora fino in fondo perché con i Cheap Wine continuo ad avere sempre una ragione in più per credere che, nonostante tutto, la buona musica, quella vera e pura continua a vivere.

[ Lele Guerra – BACKSTREETS ]








Antefatto: Carpiano, 3 Giugno 2006, Cheap Wine e il pittore Giuliano Del Sorbo. Ricordo molto bene quella serata, di cui conservo ancora su una mensola in cucina la bottiglia di vino (vuota, ovviamente) con etichetta personalizzata che venne distribuita fra i presenti. Action painting e rock’n’roll uniti in un binomio entusiasmante, un’occasione unica e speciale per assistere alla suggestione reciproca di musica e pittura mentre intersecano la propria arte in un divenire di suoni e colori che mi impressionò molto.

Da allora sono passati quasi dieci anni e di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia: la band pesarese è cresciuta a livello esponenziale fino ad arrivare al secondo live in carriera,MARY AND THE FAIRY, che proprio Del Sorbo illustra con i suoi dipinti, due volti immaginari ispirati alle due donne protagoniste dell’album. La chiusura del cerchio, il ritrovarsi di artisti che fanno della libertà espressiva il loro credo, che catturano con suoni e colori il fluire spontaneo della creatività lasciandosi guidare dall’istinto nel cogliere la magia di momenti unici e irripetibili.

La performance racchiusa inMARY AND THE FAIRY è un estratto del concerto tenutosi al Teatro Sperimentale di Pesaro lo scorso Aprile e fotografa i Cheap Wine in otto intensi brani, mirabile espressione del loro attuale stato di grazia. Non è un live usuale (per questo basta rivolgersi all’ottimo doppio Stay Alive! del 2010 e comprendere cosa rappresenta un loro concerto), nel senso che qui è sottesa un’idea ben precisa di suono, di fare musica, che lo rende un concept, un unicum nella loro discografia dove i brani sono uniti da un filo logico che travalica i singoli episodi: non ci fossero gli applausi a ricordarci che è stato registrato dal vivo, potremmo tranquillamente pensare ad un album in studio frutto di un lavoro molto accurato in fase di produzione. Invece (e proprio qui sta il bello) tutto ciò è il fermo immagine della band nell’attimo stesso in cui il tempo si dilata, sospeso tra finzione e realtà, e la musica interpreta le pregnanti visioni della scrittura immaginifica di Marco Diamantini, che prendono corpo e si dispiegano nel libero fluire di lunghe code strumentali. Messi da parte i sing along da sottopalco, sono i colori scuri e autunnali a prevalere, così ben riprodotti non solo dalla musica ma anche dalla grafica di copertina. L’impatto è fortissimo: l’universo in cui siamo proiettati ha i contorni di una lunga discesa agli inferi in quella beggar town dove siamo costretti a vivere, dove le pietre rotolano senza direzione, dove non c’è riparo, ne speranza. Non abbiamo scampo, potremo uscirne solo alla fine del nostro tempo e librarci, questa volta sì, sulle ali di una fata, finalmente liberi.

Colpiscono la straordinaria compattezza e omegeneità conferita a brani che pure provengono da periodi diversi della storia del gruppo. La direzione intrapresa a partire da Spirits trova qui la sua naturale evoluzione e confluisce in un sound robusto, corposo, assolutamente personale: l’impianto elettroacustico è l’innesto su cui poggiano le acide e poderose staffilate della chitarra di Michele Diamantini (di cui non smetterò mai di lodarne la bravura) e i virtuosismi del pianoforte di Alessio Raffaelli, che nell’alternarsi continuo degli assolo caratterizzano un live act di primissimo livello. La voce di Marco, più bella che mai, ricca di sfumature ed espressività soprattutto nei toni medio bassi, si adatta alla perfezione a questi brani dalle tinte forti.
Quelli ascoltati qui sono i migliori Cheap Wine di sempre: ispirati, intensi, emozionanti, dotati di una grande tecnica sfoggiata con estrema naturalezza, senza perdere di vista il risultato complessivo.

Il mio personalissimo cartellino vede ai primi posti una stupenda Dried leaves, introdotta dal pianoforte di Raffaelli e gli echi dell’armonica, seguiti poi dalle note malinconiche della slide e da una batteria appena accennata: versione da brividi! Altre gemme sono I like your smell, ballata ripresa da Crime stories, che gode di un nuovo arrangiamento reso struggente dalla fisarmonica, e La buveuse dall’atmosfera jazzy in cui i significativi interventi della chitarra hanno un suono particolarmente azzeccato. Fuori classifica Mary, dovete solo ascoltarla per capire a che altezze possano arrivare Michele e la sua chitarra spaziale! Se questi sono solo alcuni semplici esempi rientranti nella sfera dei gusti personali, vi assicuro che il resto non è da meno: ogni brano di MARY AND THE FAIRY è affascinante ed ha saputo conquistare il mio cuore. Il consiglio è quindi quello di assaporare tutto l’album dalla prima all’ultima nota e di lasciarsi trasportare dall’ondata travolgente di sensazioni che è in grado di trasmettere. Una menzione particolare va fatta all’ottima qualità della registrazione che restituisce un suono preciso, ben definito, e permette di godere anche del più piccolo passaggio strumentale.

In conclusione non posso che ripetere quello che sostengo da tempo: i Cheap Wine sono una delle migliori realtà della scena italiana e fanno di passione e credibilità le armi vincenti. Affrontano da soli, da veri indipendenti, ogni aspetto del fare musica e produrre dischi. Non hanno mai sbagliato una scelta e, passo dopo passo, sono cresciuti sino a maturare la splendida forma che dimostrano oggi.
MARY AND THE FAIRY
è il più recente tassello di un percorso straordinario iniziato diciotto anni fa che non smette di sorprendere ed entusiasmare. Un album molto importante nella forma e nei contenuti che resterà per sempre nel cuore di chi ama la buona musica!

[ Andrea Furlan – OFF TOPIC ]









Passione: è questo, probabilmente, il vocabolo che meglio riassume il senso diMARY AND THE FAIRY, la nuova uscita discografica dei Cheap Wine, a poco più di un anno di distanza dal precedente Beggar Town.

Una passione che risulta evidente ancor prima di infilare l’album nel lettore CD (o, magari, di posarlo sul piatto dello stereo, come vedremo poi) dalla cura con cui è stato realizzato il disco anche da un punto di vista grafico, come peraltro ormai abitudine della band marchigiana che stavolta però supera se stessa, con una bellissima copertina appositamente disegnata dal pittore Giuliano Del Sorbo.

Un’attenzione particolare, quindi, per il supporto fonografico in sé propria dei veri appassionati a fronte dell’incontrollato dilagare della cosiddetta musica liquida e delle piattaforme digitali, ancor più apprezzabile considerando come i Cheap Wine siano una band assolutamente indipendente che confeziona da sé i propri dischi: evidentemente il buon gusto e, perché no, il rispetto per chi ancora compera dischi riescono ad arrivare dove spesso non arrivano le strategie di marketing e gli art director delle grandi major discografiche.

Naturalmente, però, passione e attenzione per gli ascoltatori non sono condizioni sufficienti per confezionare un buon disco: serve la buona musica che certamente non manca inMARY AND THE FAIRY, album che attesta una volta di più le qualità dei Cheap Wine che forniscono in quest’occasione la dimostrazione di una versatilità espressiva non comune, indice di grande personalità e consapevolezza, confermandosi band di indubbia statura internazionale.

Registrato dal vivo "in casa" - ovvero al Teatro Sperimentale di Pesaro - nello scorso mese di aprile, MARY AND THE FAIRY è il secondo episodio live nell’ormai nutrita discografia dei Cheap Wine, dopo Stay Alive!, doppio album pubblicato nel 2010 senza però che vi sia alcuna sovrapposizione tra le rispettive track list.

Ne scaturisce quindi una rappresentazione del potenziale live della band complementare a quella che emergeva da Stay Alive!non solo riguardo il repertorio scelto, ma anche per la cifra stilistica adottata.

Degli otto brani di MARY AND THE FAIRY solo uno - I like your smell - presenta infatti la durata canonica del formato canzone inferiore ai quattro minuti, mentre tutti gli altri si dilatano su un minutaggio più ampio con tre pezzi che sforano il muro dei dieci minuti, lasciando quindi largo spazio a lunghe code strumentali dominate dalla chitarra di Michele Diamantini e dalle tastiere di Alessio Raffaelli che non scadono mai nel mero esercizio stilistico ma risultano funzionali ad una precisa idea del suono che la band ha inteso realizzare in questo suo percorso di crescita ed evoluzione.

Grande prova di duttilità espressiva arriva dalla voce di Marco Diamantini, mentre è da segnalare la presenza al basso, per la prima volta su disco, di Andrea Giaro, recentemente entrato in formazione in sostituzione di Alessandro Grazioli a costituire una nuova sezione ritmica con il batterista Alan Giannini.

Otto, come si diceva, gli episodi del disco, in cui accanto a brani della più recente produzione - un pezzo estratto dal già citato Beggar Town e due per gli immediatamente precedenti Based On Lies e Spirits - vengono ripescati e rivestiti a nuovo due pezzi di Crime Stories, anno di grazia 2002, nonchè Mary, tratta dall’ancora più lontano Ruby Shade, presenza pressoché fissa nelle scalette dei concerti della band con il lunghissimo assolo di Michele Diamantini.

Tanti i momenti meritevoli di essere ricordati in un album che non presenta passaggi a vuoto, da Dried Leavescaratterizzata da un`emozionante apertura per piano e armonica, alle cavalcate elettriche di Behind the Barse della già citata Mary(la ruggine non dorme mai, verrebbe da dire, per rimandare a un modello certamente presente nel background dei fratelli Diamantini) sino ad arrivare a I Like Your Smell, condotta dalla fisarmonica di Alessio Raffaelli.

Chiusura riservata a The Fairy Has Your Wings (for Valeria) che già concludeva l’ultimo album in studio e che - legata ad una vicenda personale dell’autore Marco Diamantini - riesce sempre a commuovere.

È bello ricordare che, sulla spinta dei Wineheads - zoccolo duro dei fan della band pesarese - MARY AND THE FAIRY è stato edito anche in vinile, primo album della loro discografia a godere di un tale onore: anche in questo caso, la passione ha superato le logiche del mercato e di questo dovrebbero compiacersi tutti coloro che amano la buona musica.

[ Luciano Re – MESCALINA ]








Alla vigilia del ventennale di carriera, i Cheap Wine tornano sul mercato discografico con un nuovo disco dal vivo, il secondo della loro corposa discografia, che prosegue il filo conduttore degli ultimi album in studio che hanno contraddistinto la seconda decade di questi anni duemila. Perché pur essendo una collezione di canzoni naturalmente già edite, MARY AND THE FAIRY può essere considerato un album compiuto a tutti gli effetti, per come si sviluppa la tracklist e per un mood molto intimo che riveste tutte le canzoni.
L'idea di partenza di Marco Diamantini e compagni è stata quella di scegliere dal concerto registrato al Teatro Sperimentale di Pesaro lo scorso 30 aprile, otto canzoni che unissero brani tratti da album fuori catalogo da tempo come "Mary" da Ruby Shade (2000), "Behind the Bars" e "I Like Your Smell" da Crime Stories (2002), accanto a brani del repertorio più recente che nell'esecuzione dal vivo, godono di un arrangiamento diverso dalla versione in studio.
Il disco è arricchito dalla veste grafica curata dal pittore Giuliano Del Sorbo, un artista che come i Cheap Wine percorre una strada difficile , lontano dai circuiti dominanti e dalle logiche commerciali, per affermare la sua arte.
Il risultato che le "tronie", termine olandese che significa "volto", molto diffuso nella pittura fiamminga del Seicento, danno al disco è di grande impatto emotivo ed elegante allo stesso tempo, e sarà sicuramente amplificato nella versione doppio vinile dell'album che verrà prodotta verso la fine dell'anno in formato gatefold, per come auspicato da tempo dai fans che hanno gratificato la band con un massiccio numero di copie ordinate in pre-order, e che per la prima volta porterà alla pubblicazione di un'opera targata Cheap Wine anche in questo formato.
Molte sono le differenze rispetto al precedente disco dal vivo Stay Alive! (2010), a partire dal formato singolo invece che doppio, dalla band sostanzialmente diversa nella formazione oramai stabilmente a cinque elementi, e con un suono non più diviso in parte elettrica e parte acustica, ma che media come atmosfera proprio per il fatto che il concerto da cui e tratto si è tenuta nella cornice di un teatro.
Il disco si apre "Based on Lies" titletrack del penultimo album in studio che è diventata da subito una canzone manifesto della visione che i Cheap Wine hanno dei tempi in cui viviamo.
Il brano mette da subito l'accento sulla maturità raggiunta dalla formazione pesarese, con la solida sezione ritmica che poggia sul drumming preciso e senza sbavature di Alan Giannini e sulle eleganti linee di basso di Andrea Giaro, mentre la chitarra di Michele Diamantini ed il piano Alessio Raffaelli giocano di rimandi scambiandosi il ruolo di conduzione del brano, integrandosi alla perfezione. La voce di Marco Diamantini si attesta su registri più bassi e consoni alle sue potenzialità, rivestendo le canzoni di un colore inaspettato.
Subito dopo arriva "Dried Lives" brano tratto da Spirits (2009) che mette in evidenza la crescita esponenziale che il suono dei Cheap Wine ha avuto dall'ingresso in pianta stabile di Raffaelli, con la canzone che viene letteralmente trasformata in meglio dal nuovo arrangiamento che mette ancora più in risalto la maestria chitarristica di Michele Diamantini che riesce a trovare una nuova vita molto di più adesso che "condivide" la leadership del suono con le tastiere di Raffaelli. Un aspetto che emerge con maggiore prepotenza nella successiva "Behind the Bars" vero e proprio anthem della discografia dei Cheap Wine, colpevolmente lasciata fuori dalle scalette dei concerti (e anche dal live precedente) per troppo tempo, ma che per fortuna è tornata se non al centro, per lo meno ad occupare il ruolo che gli spetta, nel progetto live della band. Con il nuovo arrangiamento si può dire che ci troviamo davanti ad una canzone completamente nuova visto che il ruolo portante del brano viene assunto dal pianoforte che ne accentua la drammaticità del testo, amplificando il carattere nel lungo assolo centrale in cui Alessio Raffaelli mostra tutta la sua bravura, ed il valore che aggiunge ad una band di per sé già eccellente.
Man mano che la scaletta del disco si dipana si coglie il senso compiuto di questo lavoro che come dicevo all'inizio ha un mood molto intimo che non si adagia sui facili territori di ricercare il consenso a suon di hits, ma punta tutto sulla qualità di una proposta senza tempo.
Anche "I Like Your Smell" gode della nuova veste sonora con gli arpeggi di chitarra e la fisarmonica a sottolinearne la linea melodica.
"La Buvese" è in un certo senso il brano più sorprendente, non tanto perché possa sembrare una canzone molto diversa dalla versione apparsa sull'album Spirits, ma per quanto possa essere definita la canzone trainante dell'album, con la batteria di Alan Giannini ed il basso di Andrea Giaro che la rivestono di colori jazz mentre Michele Diamantini e Raffaelli swingano sostenendo il cantato di Marco Diamantini mai così ben messo a fuoco come in questo brano. Un brano propedeutico alla successiva "Mary" altro pezzo da novanta della discografia del gruppo, che arriva dal lontanissimo Ruby Shade (2000) che si sviluppa lungo i suoi dieci minuti nella cui parte finale la chitarra di torna prepotentemente protagonista per dare l'imprinting ad un suono che trova pochi eguali in Italia.
"Waiting on the Door" spezza un po' la tensione creata da "Mary" ma messa in questa posizione della scaletta sembra quasi voler mostrare le differenze tra il suono degli esordi e quello attuale della band, ed anche in questa veste mostra di essere la cosa più vicina ad un singolo uscita dalla penna di quel grande autore che è Marco Diamantini. Un momento di leggerezza che prepara il terreno al brano forse più intenso dell'intera discografia dei Cheap Wine.
"The Fairy Has Your Wings (For Valeria)" arricchito da un crescendo strumentale rispetto alla versione in studio, viene rivestito di nuovi colori, nonostante il brano abbia poco più di un anno di vita, e sia una canzone perfetta, con la musica che non solo sottolinea la tristezza del distacco, ma riesce nel contempo a trattenere quanto di bello la protagonista ha lasciato nella vita dei Cheap Wine.
Una chiosa perfetta per un album che annulla e ribalta il concetto classico di Live Album.

[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]









Non è la prima volta che i Cheap Wine pubblicano un disco dal vivo (cinque anni fa c'era stato Stay Alive!),ma mai prima un loro album era stato commercializzato in vinile oltre che in CD; un dettaglio, certo, ma un dettaglio che a ben vedere rafforza la "mitologia" sommersa ma solida della band, prossima a festeggiare - accadrà nel 2016 - i due decenni di attività.
Registrato lo scorso 30 aprile nella Pesaro che ai Nostri ha dato i natali, MARY AND THE FAIRY non lascia spazio ai brani grintosi e trascinanti che pure caratterizzano le esibizioni del gruppo, concentrandosi invece sulle ballate avvolgenti e ricche di pathos; com'è ovvio non mancano momenti dove l'energia prende un po' il sopravvento, ma nel complesso la scaletta predilige i toni intimisti e notturni.
Nessun pezzo è inedito, ma di sicuro gli estimatori storici gradiranno i nuovi arrangiamenti che, assieme alle ben note qualità dei fratelli Diamantini (Marco voce e chitarra, Michele chitarre), fanno apprezzare quelle del pianista/tastierista Alessio Raffaelli.

[ Federico Guglielmi – BLOW UP ]










La presenza del loro Crime Stories (2002) nel novero dei venti dischi rock italiani da avere, scelti da Federico Guglielmi su queste pagine, potrebbe bastare come buon biglietto da visita e incuriosire chi ancora non li conoscesse. La band dei fratelli Marco e Michele Diamantini arriva anche al prestigioso traguardo dei vent'anni di carriera con il secondo disco dal vivo dopo Stay Alive! (2010).
Quello che esce prepotente da questi concentratissimi sessanta minuti di classic rock, registrati durante la data del 30 aprile al Teatro Sperimentale della loro Pesaro, è la perfetta coesione raggiunta negli anni (in mezzo alle chitarre, in cattedra ci finisce spesso il pianoforte di Alessio Raffaelli) e culminata nella perfezione degli ultimi due album in studio.
Anche stavolta troviamo quella voglia di fare musica che non si è mai spenta, nè piegata a mode e che mai ha tentato di percorrere le facili scorciatoie del successo.
Le canzoni scelte sono solamente otto, ma le capacità di riarrangiarle, allumgarle ("Mary") e farle rivivere, le fanno sembrare infinite e senza tempo.
Avanti così.

[ Enzo Curelli – CLASSIC ROCK ]








Un disco dal vivo è solitamente un affresco sullo stato dell'arte di una band, attimo in cui catturare la maturazione di un suono. Nei casi meno fortunati è un passaggio a vuoto, un riempitivo per riordinare le idee in attesa delle prossime scadenze discografiche, un debito contrattuale, qualche volta una semplice mossa commerciale. È evidente che gli ultimi esempi non si addicono affatto alla pubblicazione di MARY AND THE FAIRY, un'ora di musica che tenta un approccio differente, quasi una costruzione a posteriori sul materiale edito dal gruppo marchigiano.
Registrato in casa, al Teatro Sperimentale di Pesaro lo scorso 30 aprile, l'album mette in scena un volto specifico dei Cheap Wine, scegliendo accuratamete brani e relative atmosfere che si legano fra loro, senza ripetere una formula che aveva già ottenuto il suo rito collettivo nel doppio Stay Alive! (2010).

MARY AND THE FAIRY è qualcosa di più e di diverso, in questo dimostrazione ulteriore dell'indipendenza della band, del suo percorso ostinato e contrario. Un po' come i dipinti di Giuliano Del Sorbo, le cui eleganti e misteriose "tronie", ritratti e volti immaginari, arricchiscono fronte e retro di copertina (andrebbero a questo punto godute a pieno nella stampa in vinile, a tiratura limitata, disponibile da novembre per iniziativa dei fan del gruppo). Pittore e musicisti si sono incontrati anni fa durante una performance di musica dal vivo e "action painting" e oggi incrociano un'altra volta le loro strade. Una scelta affascinante quanto questo disco, che coglie otto istantanee dei Cheap Wine più bluastri e notturni, in prevalenza ballate elettriche che sviluppano un suono urbano, romantico, da sempre componente essenziale della formula "classic rock" impressa dalla formazione dei fratelli Diamantini.

Sono episodi spesso "dimenticati", eppure mai abbandonati nelle esibizioni live, tratti da alcuni dischi importanti per la loro crescita artistica: la dilatata e soffusa tensione di Mary (da Ruby Shade, per chi vi scrive il disco che rivelò il talento dei Cheap Wine), il trascinante rotolare street rock di Behind the Bars e la dolce cantilena a trazione roots, con fisarminoca e chitarre acustiche, di I Like Your Smell, entrambe da Crime Stories; o ancora il blues waitsiano e sinuoso di La buveuse e una Dried Leaves scandita da piano e armonica, resuscitando il sentimentalismo dello Springsteen di The River, queste ultime due provenienti da Spirits, personale apice artistico, almeno per il sottoscritto, dei Cheap Wine.
Pezzo dopo pezzo, fino alla più recente The Fairy Has Your Wings (for Valeria), dalle evoluzioni fin quasi progressive, il disco modella un'idea precisa di suono e parole: dalle eterne cavalcate in cui la chitarra di Michele Diamantini ha imparato ad attendere, prima di mordere ed esplodere, dal lirismo cristallino del piano di Alessio Raffaelli, vero elemento caratterizante del repertorio e fautore di una decisa maturazione melodica della band, dalla stessa voce di Marco Diamantini, più misurata ed elegante nel muoversi fra i toni scuri di queste canzoni, si riceve una visione particolare della musica dei Cheap Wine. Non esaustiva certo, ma dotata di una seduzione che i singoli brani, sparsi nella vasta produzione (una decina di lavori in quasi vent'anni di storia) non potevano assumere.

In questo passaggio si rivela forse l'esigenza diMARY AND THE FAIRY, che ai più apparirà soltanto come "un altro disco dal vivo dei Cheap Wine", persino poco rappresentativo dello stile del gruppo. Niente di più falso, sia ben chiaro: basta immergersi nell'immaginario un po' noir e al tempo stesso lasciarsi trasportare dal lato romantico creato dalla band in questi episodi, entrata ormai in una fase di piena padronanza della propria storia e di un repertorio che può offrire diverse chiavi di lettura.

[ Fabio Cerbone – ROOTS HIGHWAY ]







C’è il vino costoso e c’è quello economico. Quello pregiato e quello scadente. Un Amarone della Valpolicella e un Tavernello da autogrill, tanto per dirne un paio.
Come ci sono, solo per concedersi un azzardato accoppiamento, i meteorici X-pensive Winos e i ben più regolari Cheap Wine che, magari, aiutano in maniera ‘linguisticamente’ perfetta a completare i nostri sillogismi da vocabolario ma traggono, altresì, clamorosamente in inganno sotto l’aspetto qualitativo della metafora. Il progetto collaterale del ‘glimmer twin’ più rugoso e meno piacione, per la verità, si colloca su binari artistici e palchi completamente diversi rispetto quello dei Diamantini Bros., ma la realtà dei fatti conferma ancora una volta che (metafora per metafora, tanto, ormai…) non ci ritroviamo per nulla a fare i conti con una lotta apparentemente impari tra le mitragliate prodotte da una delle tante Olympia incatramate di Charles Bukowsky e quelle uscite dall’Olivetti, invece, perfettamente oliata degli ispirati marchigiani. Tra le sbornie furibonde di Richard Burton e l’immonda fiatata alcolica di Ezechiele Bluff (in arte, Superciuk). Tutt’altro!
Due live nel giro di un solo lustro, ma nessuna carriera da celebrare con presunzione o da archiviare commossi (si spera vivamente…), per i sei pesaresi (tra autoctoni e onorari, Maurizio Ciocchetti compreso) che tornano in pista a distanza di un solo anno da ‘Beggar Town’ e a tre da ‘Based on lies’. Gettando sul tavolo verde altri otto brani dopo i 21 complessivi, e completamente diversi, già immortalati sui due dischetti di ‘Stay Alive!’ nel 2010.
Le tracce, questa volta, arrivano da un concerto tenuto al Teatro Sperimentale di Pesaro il 30 aprile scorso, in piena tana ‘wineheads’ (i fan più pazzi e fedeli, degni epigoni degli strafattoni ‘deadheads’ sempre in carovana alle calcagna di Jerry Garcia & Co. o dei ben più creativi ‘parrotheads’ che tuttora si sfondano di Margarita e cheeseburgers in Paradise ai concerti di Jimmy Buffett…), ma non vanno a caccia di troppo facili consensi o di scontate apoteosi casalinghe. Al punto che l’entusiasmo di questo pubblico di fedeli e competentissimi viene volutamente relegato ai contenuti e civilissimi applausi di gradimento all’inizio e al termine di ogni tappa del periplo. Niente di più: nessuna bolgia auto compiaciuta, nessuna predica ai convertiti e nessun salamelecco.
La scelta della scaletta cade invece su pezzi incisi per album esauriti da tempo e fuori catalogo oppure, qualora più recenti, caratterizzati da arrangiamenti stravolti. Mattoncini che, a detta dei C.W., “meritavano di essere ufficialmente documentati e che esprimono un lato molto significativo della nostra personalità musicale. Brani suonati senza prestare attenzione all’orologio, che si sviluppano istintivamente senza limiti e senza preoccuparsi del passare del tempo. Perchè le nostre lunghe code strumentali non sono mai orpelli ornamentali, ma parte integrante della canzone”.
Anche in questo caso, l’obiettivo non è quello di riproporre in maniera ‘esemplare’ un concerto dei Cheap Wine (nessun parlato, ma proprio nessuno; zero comparti apertamente prestabiliti; introduzioni bandite ed entusiasmi della platea, come detto, pudicamente ‘sfumati’…), bensì ricostruire un altro romanzo nel quale le parole feroci scritte da Marco Diamantini trovino equilibrata punteggiatura nel lavoro alla chitarra dello schivo, ma incisivo assai, fratello Michele. Uno che rifugge la ‘mistique’ del chitarrista rock alla stregua di Michael Timmins ma che, alla fine, finisce sempre per pesare come un macigno nell’economia del suono ‘vinicolo’.
MARY AND THE FAIRY’ (distribuzione IRD), benché già disponibile in anteprima sul sito della band specializzata in concept album, uscirà ufficialmente solo quest’oggi mentre, in dicembre, farà seguito anche il formato in vinile per completisti (doppio LP con copertina gatefold, apribile) in edizione limitata: 300 copie numerate e autografate anche dal pittore Giuliano Del Sorbo cui si deve tutto l’impianto grafico, crocicchio dove far intersecare due percorsi artistici paralleli, nonché (malauguratamente?) lontani dai circuiti dominanti e (volutamente?) dalle logiche commerciali. Escono dalla sua mano, infatti, i visi umani tradotti in ‘tronie’, termine olandese che significa ‘volto’ (assai diffusi nella pittura fiamminga del Seicento) per rappresentare con estro e fantasia sia ‘Mary’ che la ‘fata’ del titolo.
L’undicesima fatica dei Cheap Wine (dal 1997, quasi certamente, la band italiana indipendente ‘sinceramente, disperatamente e orgogliosamente’ più longeva), a differenza di Stay Alive! che cercava di riprodurre in maniera più fedele la personalissima concezione di ‘R’n’r circus’ della band pesarese, rigira invece la frittata in formato digipack e per un’ora spaccata senza l’ombra di inutili cover regala un ulteriore viaggio sotto il tendone dell’imbonitore Diamantini Marco, frontman, autore dei testi e di quasi tutte le musiche. Una sorta di primus inter pares che accompagna l’ascoltatore lungo le varie tappe dell’itinerario.
Inutile elaborare congetture brano per brano, sviscerare opinioni personali sui pezzi che avrebbero meritato di esserci ma rimasti, ovviamente, fuori dal progetto (anche se ‘Ruby Shade’, dannatissimi loro, avrebbero anche potuto farcelo stare…). Lamentarsi perché non è doppio come il suo fratello maggiore. Oppure perché non si sente neppure una parola in italiano per far comprendere a tutti, ma proprio a tutti, il complesso ma spesso condivisibile ‘C.W. pensiero’, il ‘credo’ di questo manipolo di sobri e coraggiosi piccoli-grandi eroi del backstage caratterizzati da un’ostinata (e generosamente sconsiderata) fiducia nei loro mezzi. Un’identità sagomata con paziente lavoro di cesello, moltiplicando le soluzioni con certosina pazienza e ostinata applicazione non solo in studio e in cantina ma anche e soprattutto attraverso centinaia di date archiviate sempre con onore anche nei contesti più improbabili e davanti alle platee più difficili.
Testi tanto veri quanto reali, partoriti tutti dalla creatività di un Marco che, dietro al microfono, somiglierà anche in maniera sempre più inquietante al quasi giovane Tom Petty ma che, penna alla mano, non nasconde profonde e sensibili influenze dettate dallo studio, dall’applicazione costante e dalla capacità di tenere sempre gli occhi bene aperti. Testi infarciti di influenze artistiche, letterarie, cinematografiche e socio-politiche, impegnati moralmente al di là di ogni forma di etichetta ideologica che potrebbe garantire loro ampi e facili spazi sui quotidiani schierati o sulle riviste di partito. E soprattutto, mai come in questo caso, non risponde certamente all’immagine del r’n’r hero tutto sex, drugs & violence; men che meno, però, a quella del loser acculturato ma sfatto, topo da bassifondi alla Chuck E. Weiss (quello che, a detta di Tommasino Waits pre deragliamento rumoristico, sarebbe stato capace di vendervi come fede nuziale un buco di culo di topo…).
Detto anche del quasi offensivo talento alla sei corde di Michele, anti divo per eccellenza e virtuosamente incatalogabile, rimane una sezione ritmica, Alan Giannini seduto dietro ai tamburi e l’ormai amalgamato Andrea Giaro in piedi al basso (che ha raccolto la pesante eredità lasciata da Alessandro Grazioli), capace di non perdere un solo colpo e senza invadere mai la scena, nonostante in questo caso sia quasi sempre costretta a lavorare più di cesello che di randello. Ai tasti di Alessio Raffaelli, un Groovers ormai inserito da tempo in pianta stabile anche fuori Rimini, il compito di rivaleggiare (quasi) alla pari con la sei corde di Michele in quanto a incisività e versatilità.
Ovviamente, prima di inserire nel lettore il nuovo cd, sono andato prudenzialmente a riascoltarmi Stay Alive! e devo dire che i due prodotti sono assolutamente complementari, a parte la totale diversità di repertorio. Potrebbero quasi costituire un azzeccato box.
Il doppio, metereologicamente parlando, era più associabile a un’intensa grandinata accompagnata da improvvisi e violenti scrosci temporaleschi: torrenziale, incalzante, vario e ‘cattivo’ al punto giusto con rari momenti di intimità. Il nuovo singolo, invece, pare più nebbioso, albeggiante e crepuscolare: mai gridato, quasi per nulla aggressivo, costituito solo ed esclusivamente da ballate. Crude e drammatiche finchè si vuole ma, sempre e comunque, ballatone dagli sviluppi strumentali imprevedibili e dalle code talvolta angoscianti.
Qui, dunque, i C.W. creano il ‘buzz’: ossia, alzano addirittura il tiro. Anche perché, ormai e una volta per tutte, siamo ben lontani dai tempi del derivativo ‘Paisley underground style’ e dai giorni delle frettolose (ma, comunque, corrette) etichette di fratellini mediterranei dei Green on Red e del folle Dan Stuart. Ovvio, la zuppa è sempre quella: psychedelia, garage di sponda Nuggets e r’n’r Velvet style. Ma, questa volta, più Opal che Long Ryders; più Naked Prey e Giant Sand che Dream Syndicate e Rain Parade; più Karl Precoda che Syd Griffin. E anche quando il piede sembra voler pestare sull’acceleratore, pare che il freno a mano sia stato comunque e volutamente lasciato tirato senza il rischio di un testacoda! Tanto, ormai, oggi come oggi sono ‘solo ed esclusivamente’ i Cheap Wine: sempre, però, ‘duri e puri’! “Senza essere violenti, sguaiati e facinorosi – li avevo dipinti nel 2014 - O, ancor peggio, banalmente retorici come un rapper di borgata più ingolfato di timbri, anelli e collane che gonfio di idee”.
MARY AND THE FAIRY sembra quasi un originale tentativo di B-movie onirico e struggente che parte in sordina, senza fronzoli e nessuna presentazione. Meno di 5” di applausi composti (non siamo in un’arena, ma piuttosto in un cenacolo) con tanto di sigla iniziale affidata a ‘Based on lies’ (dall’album eponimo del 2012) che richiama, udite udite!, l’avvio di ‘La nocc’ del sempre troppo sottovalutato Davide Van De Sfroos con piano e ricami di basso a introdurre il cantato quasi da crooner sbadato di Marco Diamantini con i tocchi sapienti di Michele a spedirlo a passeggiare la tra spazzatura di un sordido vicolo, lercio e caotico ma non pericoloso. Ma solo se sai dove mettere I piedi. Nel finale la chitarra prende il sopravvento da par suo, e alla fine dell’album sarà una costante, senza però invadere i terreni altrui e condendosi a una dichiarazione di intenti (bugie, non a caso…).
La successiva ‘Dried leaves’ (da ‘Spirit’, 2009) riparte da un azzeccato intro di Raffaelli che riporta dalle parti dei record Plant Studios intorno al 1974 insieme all’armonica in cui soffia Marco. Cresce alla distanza con tanto di cantato suadente ed è ormai chiaro che chitarra e tasti ‘nero-bianchi’, così i tifosetti rompicoglioni ‘pro o contro’ non rompono le balle…, costituiranno fino in fondo il fulcro delle sonorità.
L’interminabile ‘Behind the bars’ (da Crime Stories, 2002) si contende solo con il saluto finale, cronometro alla mano, il titolo di tassello più lungo del puzzle e, benchè non è che si decolli, i ritmi si alzano comunque un filino mentre il muro sonoro avvolge ulteriormente e progressivamente. Numerose le suite quale classico biglietto da visita, brano forse meno acido e più polposo, si rivela generoso di alti e bassi che pungono ora al cervello e ora allo stomaco. La parte strumentale è quasi roba da head banging (moderatissimo, anzichenò…) ma a occhi chiusi e piedino battente. La solita eterna cavalcata, biglietto da visita che introduce ‘I like your smell’ (altro tributo a Crime Stories) per esaltare anche la fisarmonica di Raffaelli, capace di dominare ma senza intralciare la voce di Marco, usata come uno strumento.
Anche la ‘La Buveuse’ arriva da Spirits ed è una specie di swing crepuscolare, quasi un contenzioso tra Leonard Cohen, Nick Cave e John Campbell buonanima per un racconto urbano degno di ‘Daunbailò’ targato Jim Jarmush, featuring John Lurie.
La successiva ‘Mary’ (chiusura di Ruby Shade, 2000) regala una galoppata che pare interminabile nel corso della quale la grancassa di Giannini simboleggia un battito del cuore a cadenza lentissima, mentre Michele si supera come un chirurgo che vuole salvare la vita a un paziente e come un cecchino che attende fino all’ultimo secondo prima di schiacciare il grilletto. È il primo riferimento ai due personaggi femminili che tornano anche nel titolo dell’album: “Personaggi forti, dolci e misteriosi – spiega Marco - ma anche un po' inquietanti e inafferrabili. Come il contenuto del disco”.
‘Waiting on the door’ (altra citazione da Based On Lies) è senza dubbio la più ritmata, anche perchè la combriccola salta bordo di un macchinone yankee decapottabile e si lascia scarrozzare lungo una polverosa strada di campagna da un Belzebù al volante, come da omonimo videoclip horror-esistenzial-campestre realizzato con il contributo del maestro del trucco cinematografico Carlo Diamantini.
Il gran finale, ‘The fairy has your wings (for Valeria)’ (omaggio anche a Beggar Town, l’album del cane rognoso impegnato a fissare la sua ombra mentre un temporale gli scaraventa sul garrese tutta la sua fragilità e il disinteresse del mondo nei suoi confronti), proprio come nel cd del 2014 chiude le danze e si rivela quasi interminabile per un commiato ad alto tasso pianistico e sentimentale, straziante modo per salutare nuovamente con affetto Valeria che, di certo, accompagna i C.W. dall’alto del cielo e “li tiene strettamente ancorati alla loro strada lastricata di coerenza, impegno e creatività nelle lunghe nottate al volante del furgone per rientrare a Pesaro – scrivevo dodici mesi or sono - nei momenti di sconforto e in quelli di esaltazione; davanti alle platee che li meritano e persino a quelle che parlottano distrattamente; fissando perplessi l’estratto conto bancario, ma anche leggendo e rileggendo soddisfatti i commenti dei critici avveduti”.
Un saluto di speranza, in continuo crescendo grazie a un piano sempre più cattivo e quasi isterico, mentre la batteria accompagna verso le saettanti dita di Michele Diamantini per un’esplosione strumentale che chiude degnamente il lavoro.

[ Daniele Benvenuti - INSTART ]






Il quintetto pesarese pubblica il secondo live nel giro di cinque anni. Tuttavia non pensate che sia un’opera speculativa come fanno e hanno fatto moltissimi artisti che battono il ferro finché è caldo. Si tratta, al contrario, di un lavoro di completamento. In MARY AND THE FAIRY i CW, infatti, hanno voluto pubblicare sia canzoni presenti in cd fuori catalogo (in particolare da Ruby Shade e da Crime Stories), che per loro sono ancora molto importanti, sia brani a cui hanno voluto dare un arrangiamento diverso.
Le canzoni sono state tutte registrate in un unico concerto, svoltosi a Pesaro lo scorso 30 aprile nel quale hanno acquisito una maggiore intensità. Hanno in generale un approccio meno rock in quanto sono strutturate su stilemi blues. Il piano e la tastiera di Alessio Raffaelli sono messi più in evidenza, sia in assolo che nell’intreccio con le chitarre. I brani, a parte “I like you smell”, sono tutti tra i cinque minuti e mezzo e gli undici minuti e mezzo, per cui il gruppo ha voluto soffermarsi su dilatazioni e lunghe code rock, degne di Neil Young: ascoltare per credere “Behind the bars”.
Le dodici battute sono rese intriganti e decadenti ne “La Buveuse”, dove Marco Diamantini & soci riescono a far convivere The Cesarians con Vinicio Capossela, mentre Hugo Race ricorda a Nick Cave i primi momenti dei Bad Seeds in un locale parigino in una notte autunnale e uggiosa. “Mary”, è stata dilatata e resa ancora più intensa con tutti gli strumenti che hanno il loro momento di gloria. Il brano più lungo, “The fairy has your wings (for Valeria)”, è un lunghissimo valzer mascherato di rock, degno del miglior Tom Petty. Un disco curato in tutti i dettagli, come ognuno dei CW, con la veste grafica curata dal pittore Giuliano Del Sorbo

[ Vittorio Lannutti - FREAK OUT ]



Beggar Town
CD: "Beggar Town" (2014)

Hey Cheap Wine, I really enjoyed Beggar Town.
You guys continue to develop and evolve and find new sounds and new ways to tell your stories. That's a good thing.
[ STEVE WYNN ]




The band ‘Cheap Wine’ with album named ‘Beggar Town’ - fitting don’t you think?
This Italian band are 10 albums in now and this is the 10th offering.
It is clear from the start that this band has a long history. The playing is incredibly tight, showing both a great deal of individual skill but more importantly a real understanding of each other musically.
Cheap Wine seem to have an overall American influence on their sound. The typical 4 piece rock band setup is given much more depth by the addition of some excellent piano playing throughout. Of 12 tracks some really stand out.
‘Your Time Is Right Now’ has a real Tom Petty feel to it; simple chords are combined with extremely memorable and anthemic vocals, making for a great pop-rock song complete with lengthy solo at the end!
One thing I noticed in the album was the extensive use of guitar effects. I’m on the fence about this. In some songs they were a pleasant variation on the norm, the delayed wah guitar that joins the piano intro of ‘Fog On The Highway’ is fantastic, but other times the effects felt a little too much.
The concept of Beggar Town is intriguing and is a concept album based on characters from the band’s previous ‘Based On Lies’. This continuity from their previous work is just another reason this album seems so coherent, both musically and lyrically.
[ Jack Lyons - AMERICANA UK ]




Nun ist RockTimes ja wahrlich nicht bekannt dafür, in irgendeiner Weise mit cheap in Verbindung gebracht zu werden. Weder sind es unsere Artikel, die in der Fläche stets kompetent und ausführlich sind, noch sind es die Vorlieben der RockTimes-Gourmetfraktion, die in puncto Essen, Trinken und Rauchwaren auch bei Lebensmitteln, Bier, Wein, Whiskey und Zigarren auf Qualität stehen. Das musste jetzt mal gesagt werden, wenn in der Überschrift dieses Artikels schon der Name Cheap Wine steht.
Aufmerksamen Lesern ist diese Band natürlich nicht unbekannt, haben wir doch bereits zweimal Platten von ihnen besprochen. Und einem Leser waren diese Jungs vor fünf Jahren so wichtig, dass er uns anschrieb und von Cheap Wine schwärmte. Obwohl die meistens von uns mit den vielen Scheiben die die Redaktion erreichen zwar mehr als ausgelastet sind, sind wir auch in solchen Fällen nicht cheap, sondern gehen den Sachen nach, was sich im Falle dieser italienischen Band als weise Entscheidung herausgestellt hat.
Spirits aus dem Jahr 2010 und das 2012er Based On Lies begeisterten einfach nur. Der vor zwei Jahren erwähnte Neuzugang Alessio Raffaelli ist nach wie vor an Bord und hat seine Position weiter ausgebaut. Und nach wie vor ist es traurig und unverständlich, dass auch vorliegendes Album "Beggar Town" (das zehnte!) in Eigenregie, also ohne Label produziert wurde. Allerdings in irrer Qualität. Alessandro Castriota zeichnet für Mix und Mastering; aufgenommen wurde die Platte in Marzocca im Castriota Studio.
Der Qualität der Produktion in nichts nachstehend sind Handwerk der Musiker, Songwriting, Choreografie und auch die Lyrics, die, abgekürzt, über die Tiefen des Lebens, die Ungerechtigkeiten desselben, über die Verlierer und Gewinner, über Heilige und Zwielichtige berichten. Gleich im Opener "Fog On The Highway" wird klar, dass Beggar Town eine Scheibe zum Zuhören ist. Alessio Raffaellis Pianointro verströmt dieses typische leere-Bar-aber-der-Pianoman-spielt-trotzdem-Flair, Michele Diamantini schält sich per Wah Wah in die Leere und die Lyrics erzählen von zerknitterten Geldscheinen auf dem Boden - neben Kippen, zerbrochenen Gläsern und schwarzen Pillen. Abziehende Rauschwolken umweben »naked souls« und »disguished fools«, die auf der Suche nach einer willigen billigen Frau oder einer Schlägerei sind.
Das alles ist musikalisch perfekt begleitet und immer wieder lässt die Stimme Marco Diamantinis faszinierend schaudern, wenn er die Stories erzählt. Beggar Town ist Film Noir in bester Lynch-Tradition. Keine Note zu viel und genauso keine zu wenig. Wenn Tristesse das Thema eines Songs ist, dann wird diese von den Musikern perfekt in Szene gesetzt. Von Harp, Slide und Banjo hin zu dem Piano war einfach eine geniale Idee, wenn man diese Art von Musik spielt. Und dann ist da ja Micheles Gitarrenarbeit. Er setzt das Wah Wah dermaßen gekonnt ein, dass aus einem Bhut Jolokia problemlos ein Marzipantörtchen werden könnte. Dann bricht er mit messerscharfen Soli aus waberndem Nebel und reitet mehr als eine tour de force, sein Instrument kann klagend sphärisch oszillieren oder hart sägend Stahl zerschneiden. Immer kongeniale Partner sind Drummer Alan Giannini sowie Bassmann Alessandro Grazioli, ohne deren punktgenaue Arbeit das Gesamtkunstwerk nicht möglich wäre. Piano und Wah Wah geben dem Ganzen eine Würze, die das Rezept aufgehen lassen lässt; mehr noch, sie machen es zum Sternenenü.
Cheap Wine anno 2014 sind schwer zu packen, was eine Einordnung angeht. Auf jeden Fall wabert über dem gesamten Album eine Dunstwolke die vielleicht am ehesten aus der Richtung Lou Reed, Sand Rubies, Rich Hopkins, Tom Waits, The Perc und Red Hill weht.
Cheap Wine hat mit Beggar Town zweifelsohne ein Meisterwerk abgeliefert. Nix mit billigem Wein. Das Blut der Engel ist reif. Die Flasche sollte geöffnet werden. Unbedingt!
[ Ulli Heiser – ROCK TIMES ]



Der Zugang zu dem neuesten Werk von CHEAP WINE gestaltet sich unter Umständen etwas schwieriger, als zum Vorgänger "Based On Lies" oder gar der Live-Scheibe “Stay Alive”, aber wer sich etwas in Geduld übt, der bekommt womöglich das Album diese – oder jedes! – Herbstes geliefert.
Das liegt natürlich auch daran, dass “Beggar Town“ oft sehr schwermütig klingt, ohne dass die Musik an Drive verloren hätte. Ist die eingeschworene Truppe noch ausgefeilter geworden? Könnte man durchaus meinen. Und das wiederum, weil hier ein paar hervorragende Instrumentalisten agieren, von denen zunächst Pianist Alessio Raffaelli besonders hervorsticht. Er dominiert mit seinen treffsicheren Akkorden und perlenden Läufen gleich den Opener Fog On The Highway, den Sänger Marco Diamantini in mit seiner weit im Vordergrund stehenden Stimme – teils fast gesprochen – in den Soundtrack zu einem Road Movie verwandelt. Ja, es gehört schon eine gewisse Klasse dazu, so ein Album einzusteigen und die Spannung trotzdem umgehend aufzubauen.
Der “Breitwand-Film-Charakter“ bleibt auch in Muddy Hopes erhalten. Der Regisseur für diesen, leicht gefährlich brodelnden, Streifen könnte Tarantino heißen und die Szenerie spielt sich irgendwo auf einer dunstigen Straße ab. Man kann sich nur schwer diesem Plot entziehen.
Zwischen Stimme und Piano schiebt sich immer wieder Michele Diamantini, mit staubig-heulenden Desert Rock-Sounds. Wie eine wütende Hornisse umschwirrt er die Stimme seines Bruders am Mikro. Teils verhalten im Hintergrund, teils nach Vorn preschend. Das kommt im schwungvoll-hüpfenden Titelsong besonders eindrücklich.
Zeilen wie “the captain is weak and the sailors tell lies“, in Lifeboat, kommen zu dieser Zeit, in der die Gerichtsverhandlung um den Untergang der Costa Concordia begonnen hat, natürlich besonders bedrückend und auch der Song trieft vor Melancholie. Hätte ein Nick Cave kaum besser hinbekommen.
Man atmet direkt auf, als die lockeren Akustikgitarrenakkorde von Your Time Is Right Now ertönen und sich ein schöner Harmoniegesang erhebt. Ausgelassen Freude will da nicht aufkommen, aber dieser Ausflug in folkig-psychedelische Gefilde befreit doch irgendwie.
Wie bei dieser Band häufig der Fall, muss ich immer mal an Tom Waits denken und immer öfter auch an Mitch Ryder. Besonders was dessen jüngste Veröffentlichungen angeht.
Das leicht “schwebende“ Claim The Sun, mit der feinen Slide-Gitarre, gehört zu meinen liebsten Songs auf dieser Scheibe. Vielleicht weil es so etwas Hoffnungsvolles birgt und eine ganz wundervolle Stimmung transportiert. Und ein paar ultra-feine Gitarren-Licks.
Erhebend ist auch immer das Piano-Spiel von Raffaeli. Wenn er einen Song wie Utrillo’s Wine eröffnet, mein man immer, eine Sinfonie beginnt. Keine Sorge, auch der Groove kommt nicht zu kurz, wie etwa in dem funkigen, tanzbaren Destination Nowhere. Swamp-Sounds laden hier zum Mitgrooven ein.
Gegen Ende wird es immer rockiger und besonders Michele Diamantini gibt hier immer mehr Gas. Seine Sounds werden rauer, dreckiger, auch verzerrter und drängen sich in den Mittelpunkt. Das klingt in Black Man schön dirty und I Am The Scar schon fast heavy. Kommt gut.
Das abschließende The Fairy Has Your Wings (For Valeria) präsentiert sich von Beginn an als Ohrwurm und würden hier besagter Nick Cave und, sagen wir: Kylie Minogue, duettieren, dann wäre der Hit schon fertig und vorhersagbar.
So bleibt uns ein Album, welches eine recht lange Halbwertszeit haben dürfte, ob seiner oft zutage tretenden Melancholie mehr für die nicht ganz so hellen Tage passt und uns so manch einsame und/oder späte Stunde versüßen und das beweißt: Gibt man ihm etwas Zeit, dann reift auch "Billiger Wein" zu einem Qualitätsprodukt.
[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]





Qualcosa di buono dobbiamo pure avere fatto in Italia per meritarci i Cheap Wine.
In un paese dove la parola "meritocrazia" riempie solo le bocche di chi vuole suggestionare i più deboli di mente che vada tutto bene e che il "sogno Italiano" è ancora possibile, io sto con le parole, la musica e la coerenza di una band che col passare del tempo continua a stupirmi, a sorprendermi ed emozionarmi.
In un momento in cui non è facile vendere dischi e sarebbe stato molto più fruttuoso cavalcare melodie "ruffiane", i Cheap Wine alzano le vele verso un oceano sonoro che fino a questo momento avevo potuto assaporare solo durante i loro concerti, un mare di sensazioni e di visioni che mi ha lasciato spiazzato e mi ha fatto innamore fin dal primo ascolto di questo disco.
La cosa strana è che ho letto i testi solo dopo aver ascoltato il disco per più volte e mi sono stupito come le parole che la musica mi aveva suscitato, fossero quelle che Marco ha utilizzato per i testi, mai e ripeto mai, la corrispondenza tra le "mie visioni" ed i testi è stata così affine, alla luce di questo, il mio cuore mi suggerisce che Beggar Town è il capolavoro dei Cheap Wine, un disco perfetto, un equilibrio straordinario, un Rum invecchiato 18 anni che a berlo ora si riesce a cogliere tutti i suoni, i sapori e i profumi dei precedenti 9 dischi.
Al di là della abilità e bravura dei nostri 5 amici, dei suoni, degli arrangiamenti... questo è un disco che spacca, un disco che dovrebbe entrare nell'antologia della musica dove suoni, testi, emozioni diventano un tutt'uno con l'anima.
Galoppate, rincorse, visioni, suoni ipnotici un continuo fluire e intrecciarsi di emozioni in un costante progredire di pathos che alla fine delle 12 tracce mi ha portato ad una totale empatia con il disco ed i suoi meravigliosi testi.
I Cheap Wine, hanno osato a toccare vette fino a questo momento rimaste immacolate, se Based On Lies era un disco "arrabbiato", Beggar Town invece racchiude in sè una consapevolezza, una presa di coscienza che racconta e parla di una situazione concreta ma che lascia una lunga scia di speranza, sembra dirmi che non è tutto finito, che bisogna lottare e sperare e che nonostante i momenti di sconforto, oltre la nebbia c'è una luce e le tracce di questo disco mi portano diretto a quella luce.
L'amalgama del piano di Alessio ora è perfettamente riuscita e le melodie scorrono che è una meraviglia, Michele regala sprazzi, le sue chitarre sono come lame penetrano la pelle, la ritmica è solida e possente e la voce di Marco scava ancora più nel profondo.
Fog On The Highway è come se fosse da sempre stato scritto nel mio dna, penetra dentro come un coltello nel burro lasciandomi attonito a contemplare un orizzonte infinito dove vedo perdersi e convogliare milioni di note e di emozioni.
Muddy Hopes è come una Sfida all'Ok Corral è come se Clint Estwood in persona, mi urlasse di tirare fuori i muscoli perchè la sfida è iniziata e non posso tirarmi indietro, il sudore incomincia ad imperlarmi il corpo e non posso fermarmi devo essere io il più rapido ad estrarre la colt.
Beggar town è una fuga, una ricerca,  un vorticoso turbinio di domande e risposte, un continuo, costante e stancante guardarsi attorno ed è come sempre la chitarra di Michele ad indicare la direzione che porta diritta a Lifeboat. L'atmosfera è proprio quella di un mare tranquillo in cui navigare per trarre respiro e porre i paletti per il futuro, questo è un viaggio, il viaggio che tutti prima o poi abbiamo intrapreso o meditiamo di intraprendere... ipnotica!
Your time is right now è un grande pezzo è il qui ed ora, il carpe diem, un alzati e cammina... il tempo è il mio, la vita è mia, sono io a decidere, non gli altri e la chitarra di Michele ancora una volta è un'onda forte ed imponente e non mi resta altro da fare se non cavalcarla ed aggrapparmi a ciò che so non mi abbandonerà mai... alla musica, la musica che non tradisce, che non delude, la musica che regala forza, rabbia, tristezza, felicità, la musica alla quale affidare la mia anima, la musica che regala speranza, la musica che salva, questa è Keep on playing e questo è il messaggio di Beggar Town.
In Claim the sun la voce di Marco sembra provenire da un'altra dimensione, dove inseguire un sogno, dove credere in un amore può dare la forza e la speranza di vivere una vita bella nonostante il grigio che ci avvolge perchè ci sarà sempre un raggio di sole a cui aggrapparci.
Utrillo's wine è un inno alla bellezza ed alla forza del momento creativo, è la catarsi dell'ispirazione il momento nel quale si è disposti a rinunciare a tutto pur di abbandonarsi al puro istinto, quel momento in cui è solo la pancia a comandare, quello che non te ne frega niente di ciò che hai attorno e senti una attrazione, magnetica irresistibile verso l'oggetto dei tuoi sogni.
Destination nowhere è la desolazone e la paura che si insinua dentro di noi ma anche quando si pensa di avere toccato il fondo basta un sorriso delle persone che amiamo per darci la spinta per tornare verso l'alto, la chitarra di Michele mi fa cadere in abissi profondi è come se mi trovassi in uno scivolo che continua a portarmi giù, ancora giù, sempre più giù.
Black man è un iseguirsi di ombre, di rumori di passi, di sospiri, una folle corsa a nascondersi lontano da paure inconscie ed irreali, vogliono farmi credere di essere quello che non sono, allora scappo e tremo, il cuore pompa come la batteria di Alan e le dita di Alessio  e le gambe sono veloci come le dita di Michele.. ma l'uomo nero non esiste per chi ha la speranza dentro.
I am the scar è un urlo liberatorio, un moto di rivoluzione che parte da dentro ognuno di noi, è rabbia che esplode e lo fa attraverso la musica, la stessa musica che domina e impregna questo disco, il messaggio che mi arriva attraverso alla musica torna alla musica, la musica dona e riprende, chiede e risponde la musica è la speranza, è la forza, è tutto qyuello che desideriamo e vogliamo che sia.
Il disco si conclude con The Fairy Has Your Wings (For Valeria) ed è un augurio a tutti noi, un invito ad essere liberi e lo si può essere anche su questa terra, ora e qui.
Finchè c'è musica c'è speranza, Beggar Town è un disco di speranza, è un messaggio forte da cogliere e tenersi dentro... finchè ci saranno i Cheap Wine ci sarà la musica a donarci la speranza.
[ Lele Guerra – BACKSTREETS ]







Dieci album sono un bel traguardo, tanti sono i dischi che i Cheap Wine hanno realizzato dal lontano 1997 in modo del tutto indipendente e autogestito.
Solo questo basterebbe ad elevarli ad eroi del rock'n'roll nostrano anche se gli eroi oggi stanno da un'altra parte e vivono una condizione esistenziale ben più problematica e drammatica, come quella dei protagonisti di Beggar Town, album che segue di due anni il positivo Based On Lies. I personaggi di quel disco apparivano sconvolti dal peggioramento delle loro condizioni di vita, determinato dalla crisi economica, intrappolati in un mondo basato sulla finzione, dominato dai mass media che manipolano la realtà e ne danno una visione distorta, le figure di Beggar Town vivono una condizione ancora più critica e devono fare i conti con quelle macerie, con il vuoto che è rimasto sotto i loro piedi.
In queste canzoni si respira un'aria di cinismo, di smarrimento, di desolazione, stati d'animo rabbiosi e disperati, con rari squarci di orgoglio e speranza. Il rock di protesta di Marco Diamantini ha forse raggiunto con Beggar Town il punto più cupo e pessimista, da questo stato si può solo risalire, in caso contrario c'è l'annientamento fisico e psichico.
Quello dei Cheap Wine è un viaggio dentro la precarietà del mondo di oggi, iniziato molti anni fa ma che ha subito una svolta netta nel 2007 con Freak Show, il disco che stabiliva un più sostanzioso allineamento tra le tematiche cantate da Marco Diamantini ed il suono della band. In sequenza sono arrivati altri dischi che hanno testimoniato il connubio tra una lettura sociale della realtà, pur con un frequente ricorso alle metafore, e la dirompente carica del loro rock anche quando questo si veste di sonorità acustiche.
Prima lo splendido Spirits, il loro momento più notturno e bluesy, e poi l'arioso e poppeggiante (nel senso positivo) Based On Lies, altra perla della loro discografia.
Beggar Town
continua sulla stessa strada in maniera altrettanto eccellente, mostra una continuità tematica con Based On Lies pur nella radicalizzazione dello stato emotivo dei protagonisti delle canzoni ma, come da tempo ci hanno abituato i Cheap Wine, sottolinea una ulteriore sfida a livello sonoro perchè è difficile trovare, nella loro discografia, qualcosa che assomigli a ciò che è stato immediatamente prima.
Così Beggar Town riesce ad essere diverso da Spirits e soprattutto da Based On Lies, il disco in cui già era presente in pianta stabile il tastierista Alessio Raffaelli. Proprio Raffaelli è uno degli artefici delle "innovazioni" nel sound dei Cheap Wine, il suo pianoforte è diventato un fondamentale tassello nell'economia sonora della band, stabilendo una perfetta sintonia con il tocco acido e psichedelico del chitarrista Michele Diamantini. Melodia da una parte, tagliente rock dall'altra, in mezzo la voce di Marco Diamantini, mai così misurata come in questa occasione, sferzanti ganci elettrici, armonie e ballate che sovrappongono squarci di visionaria west-coast a duri scenari metropolitani, la solita incalzante sezione ritmica di Alan Giannini e Alessandro Grazioli (purtroppo alla sua ultima uscita discografica con la band), questo è il marchio stilistico dei Cheap Wine ribadito e riaggiornato in Beggar Town, un sound che è diventato riferimento nel rock "fatto" in Italia. Il nuovo disco lo esalta in tutta la sua pienezza, maturità, dinamicità.
Mai uguali a prima ma coerenti con la loro storia e la loro progressiva evoluzione, forse nel prossimo futuro un po' di ironia e spirito guascone nei testi non guasterebbe ma oggi i Cheap Wine toccano con Beggar Town il punto climax della loro avventura.
Basta ascoltarsi l'inizio per capire che loro non sono indietreggiati di un centimetro e adesso la loro musica è veramente la sintesi e l'evolversi di dieci anni di duro lavoro e tanti concerti.
Con Fog On The Highway si fa sentire subito Alessio Raffaelli, il suo pianoforte sa di vaudeville in contrasto con la voce cupa di Marco Diamantini e l'assolo cruento del fratello Michele che dilania anima e corpo.
Il talking sommesso di Marco allude a speranze infangate e ad un pozzo di desideri a secco, è il tema di Muddy Hopes, risposta realistica ad High Hopes, il pianoforte è una nobiltà classica dentro una poesia rock di chitarre, vengono in mente le atmosfere di Spirits.
Nella canzone-titolo Raffaelli crea col pianoforte una marcetta irridente ma la chitarra di Michele svolazza impazzita dietro la voce di Marco che impreca contro la città di mendicanti dove gli assassini scorazzano sotto il sole e i cani randagi non corrono mai.
In Lifeboat prevale un suono liquido e jazzato, come se la barca avesse a bordo Herbie Hancock. C'è attesa davanti ad un mare calmo e silenzioso, la tempesta sta per arrivare ma Michele con la sua chitarra e con il drumming di Giannini tengono fino alla fine questo insidioso stato di attesa.
Finalmente l'orizzonte si apre alla luce, Your Time Is Right Now è corale e ariosa, una bella rock ballad con dentro la west-coast, i Rolling Stones e i Pink Floyd, senza che nessuno di questi riesca a definire completamente il brano. Gli fa eco Keep On Playing con un inizio da cantautore, chitarra acustica e piano, ma poi Michele fa il Mike Campbell della situazione e allora potete immaginare come va a finire.
Claim The Sun e Utrillo's Wine, storia sulla dipendenza alcolica del grande pittore e su un episodio tragicomico della sua amicizia con Modigliani, sono forse gli episodi più deboli del disco, cancellati dalla grande prova di Destination Nowhere, dove i Cheap Wine sfoderano una rabbia al calore della black music, con un basso funky assassino ed un groove contagioso.
Black Man è l'uomo nero che veste i panni di un riffone hard-rock anni '70, poca speranza nelle strade, la sezione ritmica picchia, le chitarre urlano, il Freak Show è ancora in città. In concerto, Michele col suo assolo non farà prigionieri.
Chiudono I Am The Scar, ancora rock'n'roll dei settanta, uno sfregio dal suono duro alleggerito dal piano elettrico di Raffaelli, e la dolce e commossa The Fairy Has Your Wings, ballata dedicata all'amica Valeria, volata via troppo presto.
Beggar Town è pronta ad accogliervi col suo carico di rabbia ed energia.
[ Mauro Zambellini – BUSCADERO ]







"La luna sta scomparendo, le stelle si spengono, cala l'oscurità. Ed è allora che sento dentro di me il bianco e il nero che camminano l'uno accanto all'altro. L'angelo guarda in lontananza e dice: amo il diavolo, siamo la stessa cosa. Ci sono giorni in cui mi sembra di essere un santo, ma a volte sono malvagio come Jesse James."

È nato in tempi cupi questo "Beggar Town", ottavo disco in studio dei pesaresi Cheap Wine (nono, se contiamo anche l'esordio ormai introvabile "Pictures"), una delle più belle ed autentiche realtà del nostro panorama rock.  
È figlio della crisi, di giorni in cui le aziende chiudono, in cui padri di famiglia faticano a tirare la fine del mese, in un paese dove trovare lavoro è sempre più difficile e i giovani emigrano all'estero per non pesare tutta la vita sulle spalle dei genitori. È il canto funebre di un'Italia che sta andando alla deriva, come una nave in cui "Il capitano è un debole e i marinai sono dei bugiardi", mentre "i passeggeri si lamentano. Qualcuno prega, altri piangono". Non lasciano troppo spazio all'interpretazione, i testi di questo lavoro. 
L'apertura è lenta, cupa, a tratti strascicata, con il rock che sembra mancare all'appello, sostituito piuttosto da un blues oscuro che suona come un incrocio tra il primo Tom Waits e il Bob Dylan di "Oh Mercy". Un lavoro in bianco e nero, si potrebbe dire, come del resto è ben ritratto nella splendida e suggestiva cover ad opera di Serena Riglietti, illustratrice di fama e già al lavoro sul precedente "Based on Lies"
E il bianco e nero domina anche nel bel video della title track, dove si vedono i cinque immergersi nel mare che bagna la loro città, in cerca di un'insperata catarsi, in fuga dalle periferie desolate e dai luoghi in cui l'orrore sembra regnare sovrano. "C'è una città dove la polvere si infiamma e cade dal cielo come una pioggia di fuoco. Gli assassini scorrazzano sotto il sole cocente. I cani randagi oziano, non corrono mai. È lì che vai quando la speranza è morta, quando nessuno è più dalla tua parte. Io avevo qualcosa di marcio in testa e nessun antidoto per il dolore. Ma cercavo un posto dove nascondermi da chiunque scrutasse la mia esistenza. Ero un malfattore, un rifiuto contaminato, un rottame caduto in disgrazia." 
Ci hanno messo un anno a realizzarlo, questo "Beggar Town". Ma nel frattempo non si sono mai fermati, girando in lungo e in largo l'Italia (con qualche breve puntata all'estero) per far sentire il loro "Based on Lies", un album che già non era tenero con l'attuale stato di cose. Niente è migliorato nel frattempo, semmai nuove bugie sono state pronunciate e nuove speranze sono state infrante. A chi è rimasto solo con il proprio dolore e con le bollette da pagare, forse la musica può costituire davvero un'ancora di salvezza. 
Già, perché man mano che si procede nell'ascolto, quel bianco e nero sembra affievolirsi e qua e là appaiono delle inattese macchie di colore. Il piede sull'acceleratore non viene pigiato mai, quello succedeva nel disco precedente o in un lavoro come "Freak Show", che aveva una vena più satirica e giocava maggiormente con il rock and roll. Eppure, in pezzi come "Your Time is Right Now" o "Keep on Playing" gli accordi si aprono, le chitarre acustiche vanno in primo piano e la speranza torna a fare capolino dai solchi del cd: "Rilassati, allontana lo sguardo dal destino. Il tuo momento è adesso, vivilo alla grande, in ogni modo." E ancora: "In ogni caso, continuerò a suonare. Perché ho bisogno di cantare una canzone per essere felice."
Basta questo per sconfiggere i demoni? Basta una chitarra e una bella canzone per ridare la dignità a chi sembra averla persa del tutto? Probabilmente no. Ma d'altronde anche loro ne sono consapevoli, se a un certo punto cantano che "tutti i tuoi bei discorsi crollano miseramente, di fronte ad un senzatetto ridotto alla fame". La realtà, insomma, è più dura di tutti i discorsi e resiste ad ogni tentativo che possiamo fare per abbellirla. 
Ma i Cheap Wine, nel loro piccolo, ci provano. Da vent'anni on the road, ad autoprodursi ed autofinanziarsi, tirano avanti grazie alla passione, al sudore versato e ad un indubbio talento. Certo, perché il cuore ovviamente non basta, quando non hai dalla tua la capacità di scrivere belle canzoni. Considerato che non hanno mai sbagliato un disco, possiamo dire che questa capacità i pesaresi ce l'hanno eccome. "Beggar Town" può non fare breccia al primo ascolto, può inizialmente assomigliare di più all'abbacchiato cane della copertina, che rimane a testa bassa, non osando sperare di avere delle possibilità. Poi però, dandogli fiducia come la stessa band chiede di fare nelle note di accompagnamento, ci si accorge che l'attesa paga. C'è innanzitutto la produzione stupenda (ad opera come sempre della band stessa, negli studi dell'ormai fedelissimo Alessandro Castriota), che offre un suono nitido, pieno e rifinito come non mai in ogni dettaglio. C'è il pianoforte di Alessio Raffaelli che dialoga intimamente con le chitarre di Michele Diamantini, c'è la batteria di Alan Giannini che suona potente e perfettamente al servizio delle canzoni. C'è la voce di Marco Diamantini che, forse più delle altre volte, vive di ogni parola delle storie narrate. 
Ma al di là di tutto questo, ci sono le canzoni. Senza mai variare troppo la loro formula compositiva, i Cheap Wine ci consegnano dodici inediti bellissimi, nel loro stile ma, nello stesso tempo, ammantati di quella malinconia grigia di cui dicevamo all'inizio. Un lavoro non facile, quindi, poco movimentato, che si muove, sembrerebbe, a metà strada tra la cupezza e il degrado di "Crime Stories" e quella sorta di psichedelia che insaporiva il successivo "Moving". Ma sono solo punti di riferimento vaghi. Perché, come è accaduto ad ogni loro uscita, anche "Beggar Town" vive di un'anima propria. 
Un'anima che i Cheap Wine hanno voluto far scoprire ai loro fan in un'occasione speciale, il giorno stesso dell'uscita del disco, presentando dal vivo i brani dell'album nella cornice affascinante e intimamente raccolta dello Spazio 89 di Milano. È la prima volta che tentano qualcosa del genere, come ci hanno tenuto loro stessi a ricordare: tutti i brani del nuovo disco suonati uno di fila all'altro, in ordine di track list, davanti a un pubblico discretamente numeroso e affezionatissimo, composto da amici, parenti, fan storici e giornalisti, i quali sono tra i pochi ad avere già sentito le canzoni nella loro versione studio. 
Un'iniziativa rischiosa, se vogliamo (dare in pasto al primo ascolto un lavoro che richiede pazienza e dedizione) ma che già alla terza canzone capiamo pagare alla grande: il nutrito gruppo di "Wineheads" che scandisce il coro "Hail hail to the King" della title track fa capire che questi pezzi hanno un fascino e una potenza che li farà presto diventare classici all'interno del repertorio targato Cheap Wine
È anche l'occasione per fare conoscenza col nuovo bassista Andrea Giaro, che ha sostituito il veterano Alessandro Grazioli, dimissionario in modo del tutto amichevole, subito dopo la fine delle registrazioni. Se la cava più che bene e anche se un po' statico e visibilmente emozionato, siamo certi che si inserirà alla grande nelle date future. 
Dal vivo, i nuovi pezzi acquistano potenza e tanta, tantissima profondità. Guardando in faccia i cinque e soprattutto Marco Diamantini, che come sempre ha scritto tutti i testi, si capisce davvero perché "Beggar Town" sia così importante per loro. Il pubblico segue in silenzio, rapito, e applaude fragorosamente tra un pezzo e l'altro. Ci sono poche improvvisazioni, i vari episodi sono eseguiti, per questa prima volta, in maniera piuttosto simile alla versione originale. È però interessante notare come nella parte bassa della tracklist, brani come "Destination Nowhere", "Black Man" e "I am the Scar", un po' trattenute in studio, vengano qui lanciate a piene briglie e si rivelino come rock songs da manuale, oltre che future presenze fisse nei futuri live del gruppo. 
Ma c'è un momento che fa capire più di ogni altro la consistenza di questo disco e il tentativo coraggioso che i nostri hanno voluto fare. È il finale dell'ultimo pezzo, "The Fairy Has your Wings", toccante ballata dedicata ad una persona vicina al gruppo, scomparsa di recente. Marco si commuove visibilmente al momento di annunciarla, per un attimo sembra che non ce la farà a cantarla ma poi, appena gli altri si tuffano nel brano, sfodera un'interpretazione magnifica, probabilmente l'highlight assoluta di tutto il concerto. Sul disco, il brano sfuma con il piano di Alessio che rimane solo sulla scena; dal vivo, tutti gli strumenti entrano prepotentemente dopo un crescendo epico che ricorda un po' la springsteeniana "Backstreets". È qui che la ballata esplode in un fragore di note, con Michele che si lascia andare in un assolo nel quale affiora tutta la rabbia di una domanda. 
Ecco, è proprio qui, in questo finale tirato allo spasimo, che a mio parere sta tutta l'essenza di "Beggar Town". "Io la morte non la capisco, non ho risposte da dare", aveva detto poco prima Marco, parlando di questa canzone. E allo stesso modo si potrebbe dire della crisi, di questi tempi che stiamo attraversando. Chi può pensare anche solo lontanamente di capire? Chi può pretendere di fornire facili ricette? Eppure c'è quell'assolo. Quelle note che tagliano tutte come la lama di un coltello. Non è una risposta esauriente, non è un chiudere la ferita. È un ricordarci che siamo vivi, nonostante tutto, e che con questa vita ci dovremo fino alla fine fare i conti. 
Terminata la prima parte, ci si tuffa per un'ora abbondante nel vecchio repertorio: dopo una scurissima "Murderer Song", che funge ottimamente da collegamento tra le due sezioni, spazio al rock: ecco dunque arrivare alcuni estratti dal precedente "Based on Lies" tra cui una irresistibile "Give me Tom Waits" che costringe tutti ad alzarsi in piedi. Da qui in avanti, sarà un autentico tripudio, una festa vera e propria sulle note di "Reckless" e "Freak Show", con tanto di assolo infinito a chiudere il set regolare. Si ritorna per i bis: "Jugglers and Suckers" e la scatenata "Dance Over Troubles" fanno nuovamente saltare e ballare i presenti che, se potessero, non andrebbero più via. Invece sono le ultime cartucce, per questa sera. Si va tutti a casa dopo due ore belle piene; un tempo leggermente inferiore a quello a cui i Cheap Wine ci hanno abituato di solito ma non è il caso di fare gli schizzinosi: stasera in ballo c'era ben altro e direi che l'obiettivo è stato portato a casa alla grande. 
Nulla da dire. Se c'è una cosa per cui l'Italia non è in crisi, sono gli autentici gruppi rock. E i Cheap Wine, questa sera lo si è visto ancora una volta, sul palco non hanno davvero rivali. La palla passa ora agli amici Lowlands (in uscita a fine ottobre) e Miami and the Groovers (probabilmente a inizio 2015). Nel frattempo, tenete d'occhio la sezione concerti del loro sito ufficiale: il tour di "Beggar Town" farà presto tappa anche dalle vostre parti... 
[ Luca Franceschini – IL SUSSIDIARIO ]







Dicono i Cheap Wine che è difficile entrare in sintonia con quest'album al primo ascolto e a me non sembra. A me ha preso subito, diversamente dai predecessori che avevo dovuto frequentare per un po' prima che la scintilla scoccasse. A conquistarmi al volo sono semmai sempre state una o due canzoni, che erano comunque poi quelle che restavano in memoria per il loro prepotente stagliarsi sulla media, sicchè ogni disco finiva per diventare il disco del brano X. Non accadrà con "Beggar Town", dove al limite ci sono un paio di pezzi meno ispirati e tutto il resto riluce, piccolo capolavoro di una maturitàin ogni senso sofferta in capo ad una strada lunga quasi vent'anni.
Sentiero stretto e a ostacoli, come ci si può immaginare per un gruppo italiano con riferimenti musicali tutti d'oltre Atlantico - sin da un nome che viene dai Green On Red di "Gravity Talks", classicone del Paisley Underground - e che si ostina a cantare in inglese. Neil Young, Springsteen, Dylan i maestri, Nick Cave, Steve Wynn, Howe Gelb fratelli maggiori, l'orbita quella di un roots-rock di attitudine però - filosoficamente - punk.
Fanno tutto da soli da sempre, i Cheap Wine, ed erano per questo da ammirare prima ancora che si cominciasse ad ammirarli per un live act che non fa prigionieri e una scrittura di raffinatezza ed efficacia rare.
Forte anche di una registrazione rimarchevole (imparassero certi produttori che vanno per major e per la maggiore!), "Beggar Town" fa sinossi di ciò che c'era stato sinora, aggiungendo nel contempo nuovi colori alla tavolozza e valga come sommo esempio una "Utrillo's Wine" splendidamente pianistica e alla Bill Fay. Uno dei vertici con il country-surf "Muddy Hopes", la languida ballata alla Calexico "Claim The Sun", l'assalto garage-psych "I Am The Scar".
[ Eddy Cilìa – AUDIO REVIEW ]







Sempre in tema di musica tipicamente americana, gli italianissimi Cheap Wine sono una bellissima conferma del panorama attuale. Inoltre, se dalle Marche sono riusciti ad imporsi, a farsi conoscere e a rimanere continuamente sulla scena senza mai avere delle cadute, è perché la loro bravura è classe di cristallina bellezza e questo loro ultimo album, ne è la splendida conferma, o se vogliamo, la loro definitiva consacrazione.
Probabilmente sono e saranno sempre un gruppo di culto, per il loro vagabondare fra locali alternativi e piccoli teatri di periferia, ma le scelte che si sono imposti per rimanere sempre vivi con le loro passioni, sono l'esempio di come la sincerità e la semplicità sono doti appartenenti a chi è veramente grande, se qui per grandezza intendiamo quel rapporto che unisce la bravura di tutta la band, con l'umiltà senza fronzoli, o l'umanità se vogliamo, di questi ragazzi cresciuti per inseguire i loro idoli ed emularli, diventando poi, idoli loro stessi, per il nutrito pubblico che li segue da anni.
Beggar Town è un insieme di canzoni splendide: una più bella dell'altra, infilate come se una collana di perle fosse la sequenza perfetta per immedesimarsi con le melodie profuse; le schitarrate sempre efficaci a tal punto che non si riesce a star fermi con le mani; tutta la strumentazione e la buona alchimia fra la voce e i testi; insomma, una miscela di southern-rock e rhythm and blues quanto basta per sentirsi trascinati nelle terre dove, queste ballate senza fine, fanno parte dell'immaginario della mia generazione. Tra l'altro, lo stile di questi bravissimi ragazzi, consiste nell'essere talmente puliti nelle esecuzioni che, pur quando vogliono trascendere, non raggiungono mai la distorsione pura: esiste invece un equilibrio fra tutti i componenti del gruppo, dove uno non si sovrappone mai all'altro; solo nei finali, la chitarra elettrica di Michele Diamantini prende il sopravvento come degna conclusione e se vogliamo, apoteosi immaginifica per un eventuale coro, o per un alzata di mani gonfiate per applaudire.
Ci sono dischi che vengono comprati quasi d'istinto, o se vogliamo, tanto per fare un'accoppiata un altro acquisto ritenuto più importante: una spalla degna di essere tale, così, per non ritornare a casa con solo prodotto che magari delude e allora si passa alla seconda scelta. E qui mi scuso, perché definire i Cheap Wine una seconda scelta, oltre che riduttivo è sostanzialmente sbagliato, infatti, è successo quello che a livello sensitivo avevo percepito: la prima scelta si è rivelata deludente, mentre questi ragazzi pesaresi si sono imposti sul mio lettore in maniera prorompente, entusiasmante, gioiosi e liberi quanto basta, feroci e romantici in ogni lato, bravi e cattivi per farsi amare ad ogni traccia. Non è casuale che, se un lavoro come "Beggar Town", non se ne vuole andare e si ascolta a ripetizione senza perdere mordente, anzi, continua a crescere a dismisura ascolto dopo ascolto, allora, definirlo capolavoro non è per niente un'espressione esagerata.
Il basso di Alessandro Grazioli, la batteria di Alan Giannini, le tastiere di Alessio Raffaelli (mai in primo piano come ora), la voce del front-man Marco Diamantini con i suoi testi abrasivi ed efficaci, sempre in tema con la nostra realtà che ci circonda, e infine la chitarra di Michele Diamantini che giganteggia prorompente diventando una tempesta elettrica scaricata su di noi; sono la perfetta simbiosi di chi non si è messo insieme per caso, ma continua a rivendicare il loro essere vagabondi per divertimento: vivere quanto basta per vivere e gioire con se stessi.
Non è casuale se dal loro sito leggiamo che Beggar Town lo ritengono un disco ambizioso, scorbutico, anarchico e ribelle, che non tiene conto di nulla, se non della loro anima e dei loro cuori. Ed è proprio così… ti entra nel cuore e non se ne vuole andare, ma seguirà la nostra vita, la loro vita magari sempre in equilibrio fra una birra e il doversi inventare una nuova giornata: un viaggio infinito che li trasforma oltre che bohémien, a piccoli, grandi uomini… grandi, immensamente grandi. E' rock'n'roll… grande rock'n'roll !!!
[ Antonio Bianchetti – SOURTOE COCKTAIL CLUB ]





Beggar Town, il nuovo album dei Cheap Wine è un disco di contrasti, di contraddizioni e di battaglie.
È un album ricco, denso, niente affatto superficiale, che richiede ascolti attenti e che dimostra ampiamente l'amore ed il rispetto con cui la band pesarese si approccia alla musica ed al giudizio del pubblico.
Un album dove si è in dubbio se partire o fuggire, si combatte con la propria coscienza e con la propria morale, si è in precario equilibrio tra disperazione e speranza, tra rabbia e perdono, tra vendetta e ricostruzione.
Un album dove, musicalmente, questa serie di duelli irrisolti vengono simboleggiati dal ruolo della chitarra di Michele Diamantini e del piano di Alessio Raffaelli; quest'ultimo è il protagonista indiscusso di diversi pezzi, con il suo suono honky tonk, le sue nenie quasi da carillion, il suo incedere sempre comunque trascinante, a cui si contrappone la chitarra di Michele, che spesso esprime sentimenti di fuga ed esplosioni di rabbia, sempre mitigati e in contrasto con il suono del pianoforte. Sembra, più di una volta, quasi come se i due bravissimi musicisti vogliano “imporre” all'altro il proprio riff, decidendo in che direzione vada il pezzo e da questa dicotomia nasce buona parte delle atmosfere dell'album.
Un disco cupo, teso, canzoni che sembrano sul punto di deflagrare ma si avvolgono su loro stesse. Disco come detto molto pianistico e di conseguenza con alcuni rimandi al Tom Waits fumoso, quello che canta immerso nel tabacco e nell'alcol, capace con tre accordi di spaccarti il cuore.
Ma se Tom Waits porta il fumo dei locali e il gusto amaro in bocca, a questo disco partecipano anche le tensioni oscure e malate di diversi brani di Steve Wynn e il Bruce Springsteen pessimista e disperato di alcune canzoni presenti in Nebraska e Devils and Dust.
Le prime tre canzoni delineano un paesaggio spettrale, un luogo in rovina; la nebbia che avvolge le strade in FOG ON THE HIGHWAY è quella che nasconde la vera realtà delle cose e del mondo che ci circonda; già dal primo pezzo entrano in scena i contrasti di cui parlavo all'inizio: il bene ed il male, l'onestà e la tentazione, la bontà e la cattiveria, gli angeli e jesse james; in un mondo dove tutto è in dubbio, niente è più vero, anche la giustizia diventa mera opinione, mutabile e volatile. Il primo risultato di questa situazione è che la nebbia si trasforma in fango, fango che, misto a merda, ricopre sogni, speranze e ambizioni; incontriamo in MUDDY HOPES due personaggi chiave, la strega e la fata, una ride, l'altra muore, il male sembra avere la meglio, ma ci ritorneremo sopra.
BEGGAR TOWN, title track e primo singolo, diradata un filo la nebbia, ci racconta dove siamo finiti: è morta la speranza, le illusioni crollano e siamo costretti a rinunciare ai nostri sogni; nulla resta oltre al mendicare, un pasto, un reddito, una dignità, una vita. BEGGAR TOWN è la CITTÀ PIENA DI PERDENTI di cui si parlava circa 40 anni fa in New Jersey, solo che ora non ce ne possiamo andare, né possiamo sperare di vincere. Il Re di questa città è il burattinaio dai mille volti e mille nomi che tutto manovra e tira i fili delle nostre esistenze; un nemico troppo grande da combattere e troppo oscuro da identificare, unica scelta possibile, adorarlo, perchè sulle nostre disgrazie e sulle nostre lacrime è fondato il suo regno.
Arrivati a questo punto, sembra improbabile andare avanti, serve una svolta, che le successive 4 canzoni cercano di delineare. La scialuppa di salvataggio in LIFEBOAT è inevitabile; fermate tutto, io scendo, me ne vado, fuggo dalla nebbia, dal fango, dai mendicanti.
Arriva, a sostenere il protagonista nelle sue scelte un coro, come nel teatro greco, che afferma con forza la bontà delle sue intenzioni.
È il momento, è il TUO momento, ecco cosa dice, con atmosfere da west coast YOUR TIME IS RIGHT NOW: mettiti in cammino, cerca la verità, cercala nel viaggio, cercala dentro te stesso e la troverai, troverai la luce.
KEEP ON PLAYING e CLAIM THE SUN  sono due pezzi che vanno a braccetto, si completano e formano un unico messaggio: il vagabondo che trova nella musica l'unica forza, l'hobo che bene conosciamo noi che sogniamo il ritorno di Woody Guthrie, proprio nella musica ha la sua luce, la sua verità, così come l'uomo onesto e vero trova nella sua coscienza la forza per restare ritto ed integro; la musica, la coscienza, sono queste le armi che abbiamo per riprenderci ciò che ci spetta e trascinare altri con noi, per poter finalmente pretendere quello che è nostro, pretendere un futuro luminoso, pretendere il sole.
Nell'aneddoto di UTRILLO'S WINE si nasconde la minaccia del male, che non vuole darcela vinta; la dipendenza, nemica della creatività che rende cattivi anche chi ha animo buono e buone intenzioni.
Arriviamo quindi a DESTINATION NOWHERE, l'altra faccia del viaggio, visto come fuga, sconfitta, rassegnazione; ci abbiamo provato, sembra dire la canzone, ma non andiamo da nessuna parte; unica speranza, quella, un giorno, di ritornare, di risorgere, anche se ora il sole che pretendevo nel pezzo precedente, sta tramontando su una piazza deserta.
Ritorna quindi forte il dualismo tra bene e male e tra buoni e cattivi, perchè in tutto questo, ancora non è chiaro chi sia davvero buono, cosa sia realmente giusto. BLACK MAN parla di compromessi, di decisioni sbagliate, ma in un certo senso rese obbligate, parla di valori che non ci sono più e di scelte di campo. Se è la mia dignità ad essere in gioco, allora voglio stabilirne il prezzo, voglio che mi renda qualcosa.
Il climax di questo tormento lo si raggiunge in I AM THE SCAR dove non esiste più speranza, né illusione, né voglia di sistemare le cose; tutto ciò ha lasciato il posto alla rabbia sorda, al furore, alla voglia di vendetta; fucili, tombe e cicatrici, sembra che la BEGGAR TOWN alla fine, porti solo a questo e non a caso, per la prima volta la musica, spesso trattenuta, esplode realmente, in un boato rancoroso e cattivo.
Posta alla fine del disco, I AM THE SCAR getta un'ombra assai inquietante sul mondo visto dai CHEAP WINE e sulle possibilità che si possa uscire da questa situazione.
Ma per fortuna, l'ultimo pezzo è una grande, grandissima dichiarazione di speranza; la strega e la fata di cui si parlava in MUDDY HOPES ritornano per dirci che no, non tutto è perduto, perchè la fata, simbolo di speranza ed ottimismo, è viva, vola ancora, vola in alto ed ha delle ali bellissime.
Perchè le ali della nostra fata sono quelle di una persona meravigliosa, che nel breve, brevissimo tempo che è stata con noi ha lasciato un'impronta indelebile, indimenticabile e che ci fa urlare a gran voce che possiamo vincere, perchè è enorme la forza che lei ha lasciato in chi le è stato vicino fino all'ultimo e il ricordo che ha lasciato in chi, come me, le ha parlato solo un paio di volte, ma ricorderà per sempre il suo sorriso. Alla fine è l'amore la chiave di tutto, l'amore che ci da forza e grinta, che ci fa trovare pace e voglia di andare avanti. L'amore è il motore.
LA PAURA DEL BUIO NON PREVARRÀ si canta in THE FAIRY HAS YOUR WINGS, perchè le ali che abbiamo ricevuto ci renderanno capaci di volare sopra tutte queste rovine e ricostruire qualcosa di nuovo, come da un lutto, da una perdita, da una tragedia si può rinascere, ripartire, vivere.

Grazie.
[ Alberto Calandriello – CALA (-) LAND ]




Ho visto scomparire la tua immagine sbiadita mentre riprendevi la via del ritorno a casa. Dopo aver incrociato vampiri in libera uscita e troppe anime disilluse dalle bugie. Con una pietra al posto del cuore, perdute dentro al loro dolore. Ti ritrovo dopo due anni. La tua auto è la tua casa. I sedili posteriori una camera dove non riesci a sognare. Riprendi la strada principale, tra banchi di nebbia e un grigio denso ed opprimente. Non ci sono illusioni quando il volante ti dirige verso la tempesta imminente. Nessuna deviazione, nessuna uscita. Non hai scampo.

Una pioggia incessante ha allagato le strade, il fango deturpa paesaggi e speranze. Dalla radio esce una musica cupa, claustrofobica. Solo qualche tocco di piano crea sprazzi di luce. Ti muovi incredulo nel tripudio dei sensi più estremi. Apocalisse di urla e rifiuti. Regno di mosche e cani randagi ormai stanchi di ululare. Assaggi la vergogna come un misero pasto mentre assisti alla parata in onore del Re dei Mendicanti. Sei nella loro città, Amico mio. Senti tintinnare monete al suolo, come ogni riff di chitarra scuote il tuo corpo. E il rullante dà il via al prossimo giro di carte. Non avrai scampo se rimani in questo lurido posto.

Rifugiati in un sogno, la tua ultima oasi. Sogna di mare in burrasca e di navi senza timonieri. Di occhi sbarrati e di codardi al guinzaglio. La scialuppa di salvataggio da prendere solo, come il pittore quando rimane schiavo dei suoi demoni. Capace di barattare il futuro per una tavolozza dai colori cangianti. Sogni di chitarre e canzoni. Ultimo baluardo contro l’indifferenza degli aguzzini. Reclami il Sole, perché asciughi le strade e le lacrime. Sembra realtà. Ma il risveglio è brutale tra le macerie prodotte dalle troppe bugie raccontate. Nessuno ti ha aspettato, la fuga è iniziata. Destinazione verso il nulla.

I tuoi occhi spalancati sul disastro. L’incubo divenuto realtà. Prodotto finito dell’industria dello scempio. Ladrocinio spietato ed impunito di dignità e decoro. Feccia. Della peggior specie. L’unica cosa che puoi ora investire non è certo il denaro ma la tua rabbia. Profonda, truce. Non ti rimane che stringere una turpe alleanza con l’Uomo Nero. Ormai sei complice di un disegno, tanto malvagio quanto salvifico. Limitrofo alla vendetta verso chi ha indossato il ghigno delle grandi occasioni. Parallelo al disgusto che provi nel guardare lo scempio allo specchio. Hai rapinato una banca, ti sei rimesso al volante con il cuore in subbuglio. Squassato da un giro di basso a tutto volume. Adrenalina agognata, elettrica estasi in “la maggiore”.

Sei pronto per la resa dei conti, sfregio da lasciare sul corpo di bugiardi e criminali, di chi ti ride alle spalle, di chi ti ruba il futuro. L’auto non trova più ostacoli, sei il paladino di chi più nulla ha da perdere. Perché quando hai un fucile carico nel bagagliaio, la pietà è un inutile orpello. Vedo fuoco e cenere nelle tue pupille, accecate dall’odio. Ascolto il tuo respiro affannoso, dopo la carneficina di anime in saldo. Annuso il profumo del nulla e di una libertà che ormai trovi solo sulle ali di una Fata.
[ Fabio Baietti – OFF TOPIC ]




Forse mi sbaglio, sicuramente sbaglio ma io di questo disco mi sento complice.
Perché so esattamente dove e quando ha cominciato a germogliare. Nella mia cucina, una sera di un autunno fa, davanti a un vassoio di pizze. Marco Diamantini ed io ci raccontavamo le rispettive sciagure, né poche né lievi, e alla fine, come a volerle riassumere, me ne sono uscito: quando cominciate a lavorare a un nuovo album? Non lo so, mi ha risposto Marco, non so da dove cominciare, tutto è troppo contorto, ho un grumo enorme che non riesco a sciogliere, ho così tanto dolore da dire ma non posso ancora superarlo. È la tua fortuna, risposi, devi solo lasciare che esploda.
Lì il fiore del male cominciò a spuntare, e quasi un calendario dopo ecco qua Beggar Town. E' il primo album di 10 dei Cheap Wine dove le parole sono più importanti della musica, dico meglio, dove la musica, mai così epica, si mette al servizio delle parole, ne diviene ancella. Di lusso, ma ancella. Perché quelle parole non sono più versi e non sono racconti, come nei dischi immediatamente precedenti. Sono diventate confessione, ammissione, resa, sconfitta e fallimento. E i fallimenti, si sa, ce li cresciamo come figli, ce li custodiamo. Sono l'unica ricchezza nostra, conquistati a fatica, col sangue della coerenza, con l'ossigeno dell'isolamento.
Eccolo qua Beggar Town: "Non giudicarmi al primo ascolto, vorrei restare a lungo nei tuoi pensieri", chiede nella sua autopresentazione il disco, confezionato con il solito doloroso commovente amore grazie anche al talento grafico di Serena Riglietti.
Vaffanculo a quei loschi trafficanti degli U2 e ai loro frigidi ricatti tecnologici. Qui c'è il calore del sangue. Dodici momenti di sangue. Io continuo a insistere perché Diamantini canti in italiano, lui non vuol saperne ma insomma sono scelte, agli artisti non puoi rompergli più di tanto i coglioni. Comunque ci stanno tutte le traduzioni, così uno non si perde niente. Perché qui davvero ogni parola è spremuta per urlare, per restare, anche per giudicare. Chi siamo noi per perdonare? Chi ci crediamo di essere, e cosa diventiamo se perdiamo la facoltà del discernimento? Questo disco è una lancia spuntata, puntata e acuminata. Rossa sulla punta.
Il seme del dolore sale dalle radici di un tempo sprecato, che si ribella al suo destino. Che riguadagna dignità, e si mostra con orgoglio in tutte le sue ferite. Lo sappiamo, l'abbiamo capito, nessuna targa per i Cheap Wine, né ieri né mai (del resto, i premi di latta sbaraccano): solo un cazzo di rapporto con un pubblico che non sarà oceanico ma è viscerale. Perché quel pubblico capisce. Perché si rispecchia. Si immerge.
Quanti gruppi conosci che possano vantare anche un millesimo dello stesso legame con chi li segue? I ragazzi li conosco tutti, Marco da molto di più facciamo quindici anni almeno. Da ragazzo era un bel ragazzo, biondo, scavato, tipo quegli americani chiari, di ceppo mezzo albino. Poi si è imbruttito, specie negli ultimi due o tre anni l'ho visto accartocciarsi, segnarsi come una foresta; adesso è un uomo di mezza età tutto solcato, lo sguardo è pieno di abissi, sorride poco e le pieghe intorno alla bocca sembrano spaccargliela.
Tieniteli cari questi sfregi amico mio, ti serviranno.
Ti hanno portato dove altri neppure possono sognarsi, dove non sospetteranno mai.
Ti portano in quelle parentesi di due ore dall'inferno che sono i concerti.
Ti portano tra le fragili ebbrezze di Utrillo e Modì, fra le infangate speranze e la realtà di vetro, nella luce di chi non c'è più e nella merda di quello che c'è, che manca, che poteva esserci e che non sarà mai.
Si diventa vecchi, amico mio: ma non è mica un male, se sai come farlo. Se ogni taglio serve. La tavolozza sonora non è mai stata così impiastricciata, ricca di sfumature, perfino quasi il jazz, i capricci progressive, le evocazioni sinfonico-zappiane (in coda a Your Time Is Right Now), le ballate rarefatte, le slide che allungano cavalcate elettriche, loro marchio di fabbrica, che però non inseguono più la polvere di sogni ma di incubi, sempre quel senso di bruciore anche quando vorrebbe essere dolcezza, quel ronzio di chitarra che innerva il brano eponimo, quelle tastiere che sanno essere altrettanto umbratili (è un disco di ombre lunghe questo, seppur chiede il sole, guarda il video e dimmi se mi sbaglio).
Si apre su tenui dissonanze di piano e s'inoltra subito nel blues. Con un suono terso, pulito. E la voce di Marco è ormai rotta come lui; e chi cazzo ha più voglia di scherzare, casomai danzare come pupazzi grotteschi; e a questo punto suonano come professionisti senza mai perdere il meraviglioso dilettantismo che è solo dei migliori.
Sbaglierò: ma suonano come se non avessero più niente da perdere. Eppure non si rassegnano, sembrano dire: perderemo, ma vi facciamo vedere come. Da mendicanti di classe, a testa alta. Lungo, più d'un'ora, per non tenersi niente dentro. Meno male che faticava a uscire, 'sto disco. E poi Beggar Town, parliamoci chiaro, mica è Pesaro o un ristorante ucciso, è l'Italia, questo lavoro è la colonna sonora di un viaggio nel Paese annaspante, pescione sull'asfalto.
Un altro album i Cheap Wine, un altro giro, e quel pubblico, poco o tanto che sia, che tiene viva l'ultima fiammella. Noi sappiamo, Marco, che se anche quella dovesse spegnersi nulla c'impedirebbe di prenderne atto e farla finita: la nostra parte qui, bene o male l'abbiamo fatta, qualcosa pure lasceremo, il Padreterno si trovi qualche altro stronzo da torturare.
[ Massimo Del Papa – BABYSNAKES ]






C`è chi la rivoluzione la fa a parole, magari nel comodo salotto di casa, pontificando davanti al caminetto con gli amici. C`è chi invece la trasforma in uno stile di vita, una conquista quotidiana, una scelta professionale da difendere senza troppi compromessi. A questa seconda categoria appartengono i Cheap Wine, la rock band pesarese guidata dai fratelli Marco e Michele Diamantini che orgogliosamente si autoproduce da quasi vent`anni, cantando rigorosamente in inglese tanto per rendersi la vita ancora più difficile. A due anni da Based On Lies (2012), il decimo capitolo di questa storia ormai consolidata è Beggar Town, titolo che prende spunto dalla visione di “città schiantate dal sole, polverose, lente, violente”, popolate di mendicanti, con cui lo scrittore francese Emmanuel Carrère conclude il suo Limonov, biografia romanzata (e di successo) di un eccentrico politico russo d`opposizione. È un`immagine dietro la quale si intuisce la nostra quotidianità: oltre il consumo insensato degli ultimi scampoli di abbondanza, si fa largo una moltitudine di mendicanti spirituali, forse finalmente in cerca di valori autentici.
Nei testi, firmati da Marco Diamantini (e tutti meritoriamente tradotti in italiano nel libretto del cd), si alternano paesaggi di rovine e nuove fondamenta su cui costruire il futuro, oscurità e squarci di luce, desolazione e speranza, in un filo rosso che attraversa tutto il disco. Una doppia anima che si svela anche negli intrecci tra la chitarra di Michele Diamantini e le tastiere di Alessio Raffaelli (già piacevole rivelazione su Based On Lies), che ricamano senza sosta sullo sfondo. Lo spettro di emozioni che i due riescono a creare, lavorando sul contrasto tra le loro sonorità, è di un`ampiezza eccezionale per una rock band, e questo senza abbandonare mai i solidi binari tracciati della sezione ritmica (Alessandro Grazioli al basso e Alan Giannini alla batteria).

Una cascata di note al pianoforte introduce, con Fog On The Highway, un romanzo rock a tinte fosche e drammatiche, una discesa agli inferi tra banconote accartocciate, vetri rotti e nuvole di cocaina. È il mood cupo che caratterizza i primi tre brani (Fog On The Highway, Muddy Hopes e Beggar Town), dove imperversano i rantoli e gli urlacci wah-wah della chitarra di Diamantini. Muddy Hopes, una delle tracce migliori dell`album, richiama gli amati Green On Red, Tom Waits, l`indimenticato Willy DeVille e ancora il Dylan di Man In The Long Black Coat, già “coverizzato” su Spirits (2009). Poi una schiarita inaspettata, uno squarcio di serenità e speranza, dove la musica si fa più leggera e corre a briglie sciolte almeno fino a Claim The Sun, l`unico vero pezzo rootsy dell`album. Per Lifeboat Raffaelli passa al piano elettrico, sostenuto con efficacia dal drumming delicato di Giannini. Your Time Is Right Now è solare, quasi West coast, con una longa coda chitarristica un po` jazzata e un po` progressive. L`abbondanza delle parti strumentali dilata i pezzi, e chi apprezza una musicalità piena, con un approccio molto live, ne godrà. Utrillo`s Wine fa storia a sé, ed è una piccola gemma: il malinconico riff del pianoforte (e una breve improvvisazione di poche note sospese) fa da sfondo a un episodio da bohème parigina d`inizio Novecento che ha per protagonisti il pittore francese Maurice Utrillo e il nostro Amedeo Modigliani. Il primo è costretto a vendere i vestiti stracci del secondo pur di soddisfare il suo devastante alcolismo. Musicalmente siamo nei dintorni dell`ultimo disco di Bill Fay (o almeno a me l`ha richiamato). Nelle tre tracce successive si torna alle più robuste sonorità iniziali, anche nell`incrocio tra stili diversi. Destination Nowhere è un`altra wah-wah song funkeggiante: le rasoiate di Michele Diamantini non risparmiano nessuno. Black Man è sano rumore elettrico, volutamente scoordinato e disarticolato. I Am The Scar è un treno in corsa, a tastiere spianate, un po` Deep Purple: difficile non andare a sbatterci contro. Chiude The Fairy Has Your Wings (for Valeria), un commosso ricordo a un`amica che non c`è più, e quindi da rispettare senza troppi commenti.

L`aspetto più esaltante di Beggar Town è il suo essere un disco ideato, scritto e suonato per suonare autenticamente rock, senza troppi aggettivi: una rarità per il nostro Paese. Molto meno concept e “a tema” di quanto possa sembrare all`inizio (ed è un bene), rivela invece una straordinaria varietà d`ispirazione, costruita sul solido mestiere maturato in quasi due decadi d`esperienza. Un disco da godere molto più che da pensare, e chissà che questo non sorprenda anche i suoi autori.
[ Pietro Cozzi – MESCALINA ]






«Strani racconti che parlano di un crocicchio e di una tempesta in arrivo»: così nella prima canzone "Fog On The Highway", a dare il là a un disco limaccioso, sempre rock ma con appunto uno sguardo che da quel crocicchio non si stacca mai. Vi passarono Robert Johnson e il Diavolo; quest'ultimo torna nella stessa canzone affascinante come un angelo, quale di fatto è.
Si intitola Beggar Town il nuovo lavoro dei pesaresi Cheap Wine, con testi rigorosamente in inglese, come loro solito, e un respiro unitario che fa pensare una volta di più a un concept album. Ma al di là delle liriche tra il romantico e l'aspro del cantante Marco Diamantini, l'elemento unificante è questa volta soprattutto musicale: il blues.
Meno roccioso di prove passate (il pensiero va a Freak Show, 2007), Beggar Town raccoglie l'eredità del disco precedente, Based On Lies (2012), valorizzando al massimo il membro "nuovo" della band, Alessio Raffaelli al piano, al quale si deve uno dei pezzi migliori, "Utrillo's Wine", dedicato al pittore Maurice Utrillo che una notte rubò i vestiti dell'amico Modigliani per barattarli con due bottiglie di vino, immaginiamo "cheap".
Il perno del combo, come è giusto che sia, resta Michele Diamantini, il miglior chitarrista elettrico italiano su piazza (almeno per chi scrive) ma la complessità dei suoni, il perfetto inserimento del pianista e del suo sofisticato fraseggio, rendono Beggar Town uno dei loro migliori dischi.
[ Mauro Gervasini – FILM TV ]






Notturno e crepuscolare. È un album che trasuda emozioni, sentimenti, carne viva; è una presa d'atto che viviamo in mondo arido che non ha rispetto delle persone, delle sensibilità, dei diritti. Ma non ci si arrende, al contrario: c'è una via d'uscita in fondo al tunnel. E non si tratta di semplice ottimismo, ma di rabbia, voglia di lottare, consapevolezza di quello che si può e si deve fare, di quali siano le priorità. C'è spazio ,eccome, anche per tenerezza e dolcezza, prova inconfutabile ne sia il commovente finale. Ho dedicato tanti ascolti a questo Beggar Town per entrare in sintonia con l'atmosfera dell'album, dapprima la musica perché si deve entrare in accordo con le composizioni, con la musicalità che trasmette, poi ho inserito i testi. Sono importanti i testi e parimenti era “incastrarli” nel disegno musicale, il come le parole sono pronunciate all'interno dei diversi episodi è altrettanto importante. E poi è un album che chiede un'attività spesso dimenticata o sottovalutata; bisogna fermarsi, ascoltare e pensare. Sì, fermarsi e pensare, prendersi il tempo necessario per comprendere, per mettere insieme – appunto – musica e testi, per apprezzarne appieno il lavoro, le sfumature. Nulla è frutto del caso. Notturno e crepuscolare perchè molti brani creano atmosfere che si addicono ad ascolti nel silenzio e nel clima ovattato della notte, quando le sensazioni sono più liquide, suoni e distanze hanno proporzioni diverse da quelle del giorno; crepuscolare perchè le tinte sono spesso fosche. Fosche, non rassegnate, insisto perchè è rilevante questo aspetto. Non mancano gli episodi più sostenuti, ma prevale la ricerca delle sensazioni rispetto al ritmo puro. Merita, quindi, attenzione e ascolto, è un album di qualità assoluta, va sorseggiato lentamente, si deve intercettare ogni retrogusto. È vino pregiato.
Note di pianoforte, un sussurro della chitarra, la batteria secca che irrompe ed ecco Fog On The Highway, con il “wah wah” a definirne i contorni. Eccola l'atmosfera notturna e ovattata, piano e chitarra iniziano il loro dialogo incessante; siamo in luogo dove l'aria è triste e d'altra parte «The blame is a wicked lie, used against the helpless minds». Le note lunghe del basso accompagnano il “solo slide“ di Michele che ci guida verso la fine ma con la dovuta cautela e attenzione perché «There's fog on the highway that bends into the unknown».
Muddy Hopes è un elenco cantato a bassa voce, quasi sussurrato, di grandi e piccoli guai quotidiani, di furbizie e menzogne, tutto si svolge attorno al pianoforte che lavora, ricama e abbellisce. Nessuna resa ,sia chiaro, nessun cedimento: «The war has started and I won't fall back », il drammatico "solo" di Michele mette il punto. E a capo.
È ancora il piano di Alessio ad introdurre Beggar Town, ritmo e melodia incalzanti, la chitarra di Michele che suona angosciante e non potrebbe essere altrimenti, il protagonista è senza speranza e vaga cercando di nascondersi dove può, «He has nothing to lose or pay». Angosciante, cruda, una frustata.
Spazzole, piano e chitarra acustica aprono Lifeboat. Di nuovo le atmosfere crepuscolari incalzano, Marco con un filo di voce ci porta all'interno di una nave alla deriva; ancora e ancora il gran lavoro del pianoforte che non è mai di puro accompagnamento, da contraltare le misurate note della chitarra di Michele, ora lunghe e stirate, ora piccole e tenui, un inserto di organo a dare ulteriore spessore mentre la scialuppa di salvataggio se ne va in cerca di nuovi orizzonti, abbandonando quella nave di malfattori.
Your Time Is Right Now è forse la più sorprendente. Se le precedenti erano notturne e crepuscolari, qui siamo all'alba, un nuovo giorno si annuncia, c'è rugiada tutto intorno; la melodia è cantata a più voci, quasi rilassata «You'll find the smile, on the way», poi d'improvviso tutto si ferma e il pianoforte disegna una frase jazz, un organo contrappunta, e anche la chitarra si aggiunge; ecco che però arriva il "solo" chitarristico in un'aria sognante, onirica, quasi una “jam session” di tre minuti abbondanti, e come nelle migliori tradizioni jazz, il finale torna sul disegno originale. Il quadro è completo, il cerchio si chiude. Splendida.
È una storia di resistenza e speranza Keep On Playing e Marco ce la racconta come meglio non si può; intorno il mondo si muove e celebra i suoi riti, quali essi siano. Ma «Anyway, I'll keep on playing. Because I need to sing a song to make my day». Finale impreziosito una volta di più dai ricami di Michele e Alessio.
Ritornano le atmosfere rarefatte con Claim The Sun. La “slide” di Michele ci trascina alla ricerca di una prospettiva, del sole. «I was saved by a spark of love and an angel down from the sky». Basta? A sottolineare il mutato stato d'animo, un “solo” attento e gentile di Michele, note corte e intanto la “slide” scivola lentamente in secondo piano, in sottofondo.
Come si può rendere l'idea di un'amicizia drammatica, disperata, povera e ubriaca come quella tra Modigliani e Utrillo? Con delle dolci ma tristi note di pianoforte e una voce che si appoggia a quelle note, raccontando con il necessario pathos quanto accade in una drammatica notte, forse una delle tante ma, se possibile, questa più disperata di altre. Quanto disperata? Ce lo dicono le dissonanze di pianoforte che chiudono Utrillo's Wine.
Batteria in primo piano con il basso a sostenerla, “wah wah” e pianoforte ad assecondare il ritmo, qualche nota strappata di Michele a dare il giusto tono drammatico al racconto di Destination Nowhere.«Have you ever felt ashamed for something you are not to blame?», ahimè sì. Eppure anche qui c'è speranza, il desiderio di cambiare, di riemergere, la necessità di sentimenti e sensazioni dolci, non solo rabbia «I need your smile, I need your eyes» perché «I'll rise again someday».
Rock e ritmica saltellante introducono Black Man, l'uomo nero che racconta come «Bankers, politicians they're all friends they suck blood of all women and men», ottimo “solo” di Alessio prima di uno stop e un sanguigno intervento di Michele, grintoso e sparato, altrochè.
Ancora rock in I Am The Scar, basso e cassa della batteria a cadenzare il brano (la premiatissima ditta Alan & Alessandro), piano e chitarra questa volta seguono il minaccioso incedere di questo brano; l'interessante lavoro delle tastiere che in un paio di occasioni suonano molto “beatlesiane” (a me ricorda “Being For The Benefit Of Mr. Kite”, ma l'età non volge a mio favore...) e un meraviglioso “solo” di chitarra introducono alla riflessione: Marco canta sul solo accompagnamento di basso e batteria e al ritorno di chitarra e piano ci dice che «You've got no place to hide. I'm gonna blow you away». Ah, però...
The Fairy Has Your Wings (For Valeria). È terribile perdere una persona cara, che hai amato. Ti restano in mente immagini, situazioni, colori, profumi; ricordi le parole che hai ascoltato, pronunciato e quelle che non sei riuscito a dire, per mille e mille ragioni che ti sembravano chiare allora e ora improvvisamente perdono ogni significato. Lentamente il pianoforte assume il ruolo di guida, sono leggere, eteree le note della chitarra, basso e batteria scandiscono il tenue tempo, Marco racconta qualcosa di Valeria. Il testo va assaporato nella sua pienezza nella raggiunta simbiosi perfetta con la musica, ma come non fermarsi a pensare ascoltando «The wicked witch went crazy with rage. The fairy has your wings and she's flying away». E ancora «And the time is a lie, playin' with our madness and then flying away». Inatteso il canto si placa e il pianoforte apre le porte del dramma e va oltre, le note si fanno più intense, la batteria sferza l'aria e l'atmosfera è struggente, intensa per poi frenare: la tragedia si è compiuta. Rimane il pianoforte, da solo, in una lunga suite a condurci mano nella mano per l'ultimo saluto a chi non c'è più, per versare una lacrima. Addio.
[ Fabio Fumagalli ]




Dopo il salto di qualità di Spirits e l'affermazione del monumentale doppio dal vivo Stay Alive, i pesaresi Cheap Wine hanno confermato la loro posizione di punta tra le formazioni di roots rock europeo nel 2012 con Based On Lies, un disco meditato ed impegnativo sulla falsità del mondo contemporaneo, sulla finzione e sulla manipolazione della realtà da parte dei mass media. In questo ambito si muovevano i personaggi delle canzoni, uomini sconvolti dal peggioramento delle loro condizioni di vita, causato da una crisi economica della quale non conosciamo probabilmente le vere cause. A due anni di distanza Beggar Town descrive un'evoluzione della situazione precedente, con uomini e donne che devono fare i conti con le macerie del nostro mondo, con la desolazione e lo smarrimento, lottando per la sopravvivenza. I testi di Marco Diamantini raccontano di personaggi che sono consapevoli della loro situazione, la soffrono, ne sono schiacciati, ma vedono anche qualche squarcio di luce, hanno voglia di lottare e cercano di rialzarsi senza rassegnarsi.
Come capita raramente nei dischi contemporanei, Beggar Town è da assaporare lentamente e con cura, perché è stato costruito in questo modo e merita questo tipo di attenzione. La prima parte del disco si basa su toni crepuscolari e su ritmi mediamente lenti, quasi a rimarcare questa situazione tragica. L'atmosfera cupa di Fog On The Highway è scandita dal piano di Alessio Raffaelli, sempre più al centro della proposta musicale della band e dalla chitarra distorta di Michele Diamantini, le speranze infangate di Muddy Hopes sono rivestite da un'atmosfera mitteleuropea nella quale si insinua un aspro assolo distorto di chitarra che esprime la drammaticità del testo, la polvere infiammata di Beggar Town è rappresentata da un ritmo incalzante dominato da una chitarra vibrante e da un piano ripetitivo. Lifeboat disegna un'oasi di pace con un passo lento e notturno che sembra seguire il ritmo delle onde del mare, facendo da ponte di collegamento con la parte centrale del disco, nella quale cambiano atmosfere e sensazioni.
Your Time Is Right Now è forse la testimonianza migliore della maturazione dei pesaresi: una chitarra acustica e una languida elettrica fanno da tappeto a intrecci vocali westcoastiani in un brano che rappresenta uno squarcio di luce dopo il buio iniziale, fino a quando un break di piano jazzato introduce un fantastico assolo di chitarra psichedelica doppiato da una seconda chitarra. Keep On Playing ha un'introduzione di chitarra acustica e piano che richiama il miglior rock progressivo, ma dopo il morbido cantato di Marco un riff degno degli Who apre la strada alla chitarra di Michele.
Il ritmo rallenta con due ballate intense, Claim The Sun che prosegue nel solco della speranza con l'esortazione a riprendersi la propria vita e la pianistica Utrillo's Wine, ispirata da un episodio tragicomico della vita dei pittori Maurice Utrillo e Amedeo Modigliani.
Nella parte finale il ritmo cresce con la rabbia di Destination Nowhere per un lavoro che spacca la schiena in cambio di una paga da fame, lo smarrimento di chi vaga senza speranza di Black Man e le minacce di I Am The Scar raccontate con un rock incalzante degno di Green On Red e Dream Syndicate, fino alla liberazione di The Fairy Has Your Wings con una superba coda pianistica, perché "il cielo è per volare, per abbandonare tutte le zavorre che ci impediscono di essere liberi nel profondo".
Un disco tosto, serio e importante, registrato con la consueta cura e completato dalle eccellenti illustrazioni di Serena Riglietti. Come scrivono i Cheap Wine è da ascoltare a volume alto, con attenzione, senza fretta, leggendo i testi…il contrario di come è concepita la musica che ci circonda.
[ Paolo Baiotti – ROOTS HIGHWAY ]







Piccola premessa. Sabato scorso, 4 ottobre, sono andato allo Spazio Teatro 89 di Milano per la presentazione ufficiale del nuovo album dei Cheap Wine Beggar Town, da oggi disponibile ufficialmente in vendita, in rete per il download e nei negozi specializzati: concerto bellissimo, con una prima parte dove è stato eseguito il disco nella sua interezza e, senza soluzione di continuità, una cavalcata nel vecchio repertorio della band pesarese. Solito quintetto, o meglio, rispetto al nuovo disco, dove appariva ancora il vecchio bassista, Alessandro Grazioli, che ha lasciato dopo 18 anni di presenza nella band, c’era il nuovo bassista Andrea Giaro, che diminuisce drasticamente la quota bulbo pilifera del gruppo, ma non la competenza e la qualità del sound (era già presente al Buscadero Day). Per il resto, Alan Giannini, la solita macchina da guerra inarrestabile e raffinata al contempo alla batteria, l’ottimo Alessio Raffaelli alle tastiere (presente anche nei Miami And The Groovers) e i fratelli Diamantini, Marco, voce solista, occasionale chitarra e armonica, nonché autore dei testi e di quasi tutte le musiche della band, e alle chitarre elettriche, slide e con wah-wah, Michele Diamantini; nell’insieme, una eccellente esibizione anche grazie all’ottima acustica del Teatro milanese (un posto da scoprire ed usare in una “poverissima”  metropoli meneghina a livello di luoghi concertistici per il rock). Vi risparmio la lista dei brani eseguiti, visto che fra poco parliamo del nuovo disco, posso aggiungere che per motivi vari a livello personale, ammessi dallo stesso Marco, è stata una serata ad alto contenuto emozionale e la conferma del loro valore di Live Band che non scopro certo io.
Venendo al nuovo Beggar Town, si tratta di un disco buio, cupo e tempestoso, dai testi crudi e pessimisti all’ennesima potenza, però la musica, quasi a compensare, è ricca, vibrante e di grande spessore, senza nulla da invidiare alle grandi produzioni internazionali anche a livello di suono, brillante e ben delineato. Questo decimo album dei Cheap Wine, in 18 anni di attività, ma già da inizio anni ’90 qualcosa si muoveva in quel di Pesaro, è l’ennesima conferma che siamo di fronte ad una delle formazioni più interessanti del panorama musicale rock italiano: anche loro, come mi piace ricordare, fanno parte di quella piccola ma agguerrita pattuglia di “italiani per caso”, da sempre proiettati verso un tipo di suono che si abbevera alle radici della musica americana (e anche di quella anglosassone), il tutto visto attraverso l’ottica della provincia italiana, dal loro quartier generale di Pesaro la “conquista” del mondo si spera idealmente sia sempre possibile. Se un brano dei Green On Red è stato quello che ha dato il nome al gruppo, la musica del Paisley Underground, il punk più raffinato (anche se il termine è un po’ un ossimoro) inglese, il rock classico inglese, Jimmy Page nelle chitarre di Michele Diamantini, ma anche Mott The Hoople nelle loro derive più R&R, qualcosa del Gilmour più lancinante e blues, tanto rock americano, da Petty a Springsteen, i citati Green On Red e i Dream Syndicate, Dylan Neil Young, quello più tosto, tra i cantautori, questo sono alcune delle cose che sento io nella loro musica, ma potete aggiungere quello che volete, anche perché il risultato finale è poi un suono molto personale che si inserisce d’autorità, ed in modo indipendente e onesto, nel grande fiume della buona musica tout court.
Una bella confezione digipack apribile, con copertina, illustrazioni e artwork curate da Serena Riglietti, già all’opera per il precedente Based On Lies,e nota per essere l’autrice delle copertine dei libri della saga di Harry Potter, nonché insegnante all’Accademia di Belle Arti di Urbino, che notoriamente è a due passi da Pesaro. Non è tutto, il libretto comprende i testi completi, da ponderare, con relativa traduzione in italiano. E soprattutto, dodici nuove canzoni che si ascoltano tutte di un fiato, anche se l’approccio globale è forse meno immediato e rock che nei dischi passati (nel senso di “rawk and roll”), a parte il crescendo finale, siamo in ogni caso di fronte ad un signor disco. La partenza è affidata ad una intensa Fog On The Highway, con il piano Bittaniano di Raffaelli ad intrecciarsi con la chitarra di Michele Diamantini in modalità slide più wah-wah che inanella una serie di assoli acidissimi che ti torcono le budelle con delle scosse poderose mentre il fratello Marco, con voce piana da narratore esterno inizia a raccontarci cosa non funziona nel mondo, e purtroppo la lista è lunga. Altro brano eccellente è Muddy Hopes, una sorta di valzerone noir sempre incentrato sul dualismo chitarra-tastiere, con il cantato di Marco che ricorda moltissimo le atmosfere (e la voce). quasi sussurrata di Leonard Cohen, con l’atout di una chitarra risonante che ha tratti western, salvo poi nel finale scatenare tutta la sua inquietante potenza e pigiare di nuovo a fondo sul pedale del wah-wah, mentre il corpo della melodia è lasciato ai florilegi di un piano acustico quasi jazzistico nel suo divenire.
La title-track Beggar Town, con la musica di Raffaelli e ancora con una chitarra circolare e tagliente come una sega elettrica cerca di dividerci in due prima di consegnarci al “Re dei mendicanti”, il tutto su un drumming ossessivo e con il wah-wah che sparge ancora una volta velenosi accordi. Lifeboat, un altro lentone minaccioso e ciondolante, con la solita chitarra acida ed un piano elettrico che intessono traiettorie blues notturne e sospese è un’altra perla di preziosi equlibri sonori, con il solito Diamantini jr a disegnare sonorità liquide in un brano che a tratti ricorda le atmosfere e le sonorità di una Riders On The Storm per i giorni nostri. Qualche pennata di chitarra acustica ingentilisce il mood di Your Time Is Right Now,una costruzione sonora, dove il cantato corale ricorda la “vecchia” West Coast (anche se loro tecnicamente vengono dalla East Coast) o il “nuovo” Jonathan Wilson, tra Pink Floyd; Yes (lo Steve Howe di Yes Album era un gran solista, sentitevi Yours Is No Disgrace) e cavalcate psichedeliche che poi sfociano in una bella jam strumentale, dove le chitarre soliste raddoppiate e le tastiere trascinano l’ascoltatore verso lidi di pura libidine aurale, veramente un brano corale che dimostra la maturità eccellente raggiunta dal gruppo anche al di fuori delle vecchie sfuriate rock. Keep On Playing chissà perché mi ricorda il buon prog, con un inizio quasi vicino all’incipit del Il Banchetto della PFM o ancora i Led Zeppelin più pastorali, quando la batteria fa il suo trionfale ingresso sulle improvvisazioni del piano che poi lascia spazio ad un assolo di chitarra in crescendo. nella versione dal vivo si è dimostrato quasi inarrestabile nella sua magica fluidità, tra Page e il Bonamassa più legato ai 70′s, ma sempre con quei sottotoni springsteeniani che non guastano, come il cantato, sempre essenziale e mai sopra le righe di un ispirato Marco Diamantini.
Claim The Sun è una ballatona ariosa, sulle ali di una slide ricorrente e di un piano elettrico essenziale, potrebbe ricordare anche nel timbro vocale di Diamantini Sr. certe cose più meditate dello Steve Wynn della maturità o il meglio della produzione dei Cheap Wine stessi, quellipiù riflessivi. Utrillo’s Wine, basata su un aneddoto o una storia vera, un “piccolo tradimento” tra due amici sfigatissimi a Parigi, Modigliani e Utrillo, con il secondo che si vende i pochi stracci del primo per comprarsi due bottiglie di vino e berle alla sua salute, una sorta di parabola della serie non c’è limite al peggio, ridiamo per non piangere, un brano solo piano e voce, che nella melodia iniziale mi ha ricordato, non so se solo a me, il vecchio Cat Stevens (Father And Son?), per poi diventare una umbratile canzone tra Springsteen e il Waits più melodico. Di nuovo chitarre choppate e con il wah-wah innestato, ma accelerano i tempi, il suono si fa più funky-rock ed incalzante in una Destination Nowhere sempre poderosa anche nella sua incarnazione concertistica, con la solista che disegna ghirigori elettrici tra Zappa e Page, ma anche ricordando i “vecchi maestri” Green On Red, che fanno capolino pure nelle violente sventagliate rock’n'roll di una incattivita ode all’Uomo Nero, una Black Man dove anche le cascate pianistiche di Alessio Raffelli hanno un brio e una violenza tipiche del miglior R&,prima di lasciare spazio ad un altro assolo di chitarra di quelli che ti tagliano in tanti pezzettini.
La minacciosa, nel tempo e nella musica, I Am The Scar, si situa in quel crocevia rock che sta tra i vecchi inni garage-psych di Nuggets, il Petty più rock, il Paisley Underground più cattivo di Wynn e Stuart, con i loro degni compari Karl Precoda e Chuck Prophet. Mentre la conclusione è affidata ad un brano The Fairy Has Your Wings (For Valeria), scritta in memoria di qualcuno che non c’è più ,ma la cui voce, fattezze e ricordi sono sempre vivi nella mente di Diamantini che vuole immortarli per sempre in questa bella canzone, complessa e dal bellissimo crescendo, un inizio malinconico e soffuso, una parte centrale, dove il suono è più ricercato e melodico e una lunga coda pianistica, che nella versione live vista alla presentazione, si chiude con una ulteriore coda strumentale d’assieme, una sorta di catarsi sonora che rende il brano quasi trionfale, peccato non sia presente nella pur bella versione di studio, già oltre i sei minuti e quindi forse siamo extra time, ma ci sarebbe stata veramente bene (questi recensori mai contenti!). Sarà per i prossimi concerti dell’imminente tour che tra ottobre, novembre e dicembre li vedrà in giro per l’Italia a spargere la buona novella (in alcune date anche in versione acustica) di questo nuovo, eccellente disco, e di tutto il loro passato catalogo sonoro http://www.cheapwine.net/concerti.htm. Il giudizio è uno: grande Rock, ma le parole d’ordine sono tre, comprate, comprate, comprate! Soldi spesi bene!
[ Bruno Conti – DISCO CLUB ]







Dopo 18 anni di carriera e 10 album alle spalle i Cheap Wine non hanno niente da dimostrare se non di avere ancora lo spirito e la voglia di presentarsi al pubblico con un’altra dozzina di canzoni nuove che suonano sincere e sono state scritte come sempre con il cuore in mano e l’amore per il rock che ha sempre distinto il quintetto pesarese.
Come sempre avvicinarsi ad un disco dei Cheap Wine richiede tempo e attenzione, perché in esso non troverete mai passaggi e fraseggi ammiccanti, melodie di facile presa, ma un suono cesellato con maestria e cura, ricco di sfumature che si svelano ascolto dopo ascolto.
Un suono, quello di Beggar Town che trasuda di blues. Blues come condizione dell’anima dei suo personaggi che si aggirano per queste nostre città piene di macerie, come dei mendicanti in cerca del riscatto dalla sconfitta in cui erano precipitati nel precedente Based on Lies. Una sconfitta amara che li rende più cattivi perché non hanno niente da perdere e sono disposti a tutto per cercare il riscatto ed un barlume di speranza verso una vita migliore. Pur non contenendo i crismi del concept album, Beggar Town si dipana quasi come una storia unica, con una serie di flash emotivi in un’alternanza di sconforto e speranza, dove il buio e la luce appaiono e scompaiono per regalare varie sfumature alla tavolozza dei colori delle canzoni.
I testi di Marco Diamantini, come sempre tradotti in italiano nel booklet del cd, raccontano al meglio quella speranza a cui aggrapparsi in questi tempi bui ancora dominati dalle bugie, per cercare di continuare a lottare per la sopravvivenza. Come ben sappiamo i dischi non possono magari indicare soluzioni ai nostri problemi, ma di certo ci aiutano a vivere meglio, quando sono scritti con sincerità, dolore, rabbia e amore come in questo caso.
La musica che accompagna e sostiene i testi mai come in questo caso è posta volutamente un gradino sotto.
I riff della chitarra di Michele Diamantini non debordano mai e si integrano alla perfezione con le linee disegnate alle tastiere da Alessio Raffaellli, sostenuti come sempre dalla solida sezione ritmica di Alessandro Grazioli (alla sua ultima apparizione in casa Cheap Wine) e Alan Giannini. Le canzoni di Beggar Town sono destinate a diventare ben presto dei classici tra i Wineheads, sia quando spingono sull’acceleratore (la title track, “Destination Nowhere” e la trascinante “Balck Man”) oppure sanno far piangere l’anima come in “Muddy Hopes”, “Lifeboat” “Claim the Sun”. Un capitolo a parte merita la delicata “Utrillo’s Wine” che racconta un divertente episodio della vita del pittore francese Maurice Utrillo che, vittima della dipendenza dall’alcol, ruba i vestiti logori del suo amico Amedeo Modigliani, con il quale condivideva quasi tutto: il grande talento per la pittura, la povertà estrema ed un misero alloggio nel quartiere parigino di Montparnasse, per comprare due bottiglie di vino per placare i suoi demoni. Il disco come sempre è curato in ogni minimo dettaglio, a partire dalla bellissima copertina disegnata da Serena Riglietti che impreziosisce come in “Based on Lies”, l’ennesimo grande disco dei Cheap Wine. Una copertina che avrebbe meritato lo splendore di un’edizione in vinile gatefold, ma che non è stato possibile realizzare per questioni di budget. Poca cosa se si tengono in conto i binari dell’indipendenza totale su cui viaggia da quasi un ventennio la storia dei Cheap Wine.
[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]







C’è chi, ormai, regala e/o svende la propria musica e la propria ispirazione (quella trascurabile quantità che, in realtà, gli è rimasta ancora nel cuore e nelle palle, almeno…) in cambio di un miserabile pugno di ‘clic’.
Ma c’è anche chi fa pagare a peso d’oro ciarpame sonoro trasformato in oggetto prezioso solo dalle subdole malizie legate a campagne pubblicitarie costosissime. E, molto spesso, finanziariamente ben più impegnative rispetto i probabili introiti che, altresì, verranno grandemente rimpolpati ‘solo’ dai conseguenti ritorni in occasione delle tournee mondiali con tanto di tagliandi venduti a peso d’oro.
E chi, invece, frustra il suo genuino talento sbattendo quotidianamente il muso contro il disinteresse di un pubblico assai più ottuso che distratto (vogliamo attribuirgli le giuste responsabilità, una buona volta, o no?), le speculazioni dei piccoli-grandi organizzatori e la miopia delle case discografiche con la sfacciata complicità della stampa generalista, tanto impreparata quanto in malafede.
Infine, per fortuna, c’è anche chi ci prova ancora. E ancora. E ancora. Magari, ovviamente, l’ostinata (e generosamente sconsiderata) fiducia nei propri mezzi da parte di questi piccoli-grandi eroi del backstage viene incrinata dall’aridità dei discografici e la loro cocciuta determinazione finisce per navigare sempre più sprofondata sotto uno spesso strato di incazzatura.
Però, in un modo o nell’altro, non molla. E tiene duro. Insiste con testarda follia. Senza piegarsi, senza farsi da parte; senza girarsi e senza strizzare l’occhio a nessuno: mercato ingolfato di coloranti e conservanti, ascoltatori degni di Radio Deejay, promoter a caccia di tribute band dei Queen o caricature della Tatangelo, manager tanto spregiudicati quanto improvvisati e sempre generosi in fatto di promesse (quando ci sono…) ma, alla resa dei conti, più simili a Mino Raiola che a Bill Graham. Perché, ovviamente, è assai più facile e comodo rappresentare e/o sponsorizzare dei manichini (anche talentuosi in certi casi limite… come favolosi palleggiatori circensi dalle straordinarie evoluzioni palla al piede ma che, nel concreto, non riuscirebbero a essere determinanti neppure in una squadra di Seconda categoria in lotta per la retrocessione…) senza alcun progetto artistico, dotati repertori inesistenti (neppure in grado di reggere 30’ di concerto a effimera fama ampiamente raggiunta o di improvvisare come qualsiasi gruppo di orgogliosi dopolavoristi da sagra, questi ultimi dotati almeno di una passione enorme ma altresì reduci da orgogliose scelte di vita ormai diverse…) e a caccia di notorietà immediata a qualsiasi costo (senza un progetto, senza un passato da cantina/garage, con un cv da karaoke e con un futuro quasi immediato da vecchia gloria dimenticata dei reality o dei festival canterini…), malleabili e pronti a entrare a gamba tesa anche sulla nonna ottuagenaria pur di agguantare il primo contratto capestro disponibile a suon di lacrime, confessioni pubbliche e look discutibili.
E, a questo punto, anche il mondo delle sette note diventa un’evidente allegoria della società attuale in caduta apertamente libera…. Non solo economicamente, sia chiaro!
Essere la band italiana indipendente (non indie: ormai, infatti, l’abusatissimo termine non vuol dire proprio più nulla…) dal maggior numero di natali sulle spalle, ormai, è solo una trascurabilmente orgogliosa riga del consueto e inutile curriculum vitae. E’ un dato di fatto, non un titolo onorifico! Quello, piuttosto, arriva dalla certezza di essere ‘duri e puri’ proprio come nei giorni degli inizi legati al Pasley Underground e a un bacino sonoro tanto legato all’acidità della psichedelia quanto alla viscosità del garage più controllato. Se, ai tempi dell’esordio, i Cheap Wine rappresentavano infatti un aperto omaggio alla santa trinità Nuggets-Dream Syndicate-Green on red (aggiungiamoci anche Long Ryders, Rain Parade, Opal e Nello il Giovane, tanto per completare il discorso), oggi sono ‘solo ed esclusivamente’ i Cheap Wine. Sempre, però, ‘duri e puri’! Senza essere violenti, sguaiati e facinorosi. O, ancor peggio, banalmente retorici come un rapper di borgata più ingolfato di timbri, anelli e collane che gonfio di idee.
Un tempo i Cheap Wine avevano un’identità inconfondibile; oggi, con il passare degli anni e un organico limato verso l’alto, la hanno sagomata con paziente lavoro di cesello, moltiplicando le soluzioni con certosina pazienza e ostinata applicazione attraverso una decina di album e centinaia di date archiviate sempre con onore anche nei contesti più improbabili e davanti alle platee più difficili (“La fate ‘Like a rolling stone’? E qualcosa degli Oasis, che la mia ragazza ne va matta? Ok, bravi, ma Marco Carta mi fa innamorare e Caparezza mi fa pensare”…).
Beggar Town’ (distribuzione IRD) arriva a proposito: con quel cane rognoso impegnato a fissare la sua ombra mentre un temporale gli scaraventa sul garrese tutta la sua fragilità e il disinteresse del mondo nei suoi confronti. Quasi illuminato da un occhio di bue, grazie al tratto essenziale di Serena Riglietti (stessa firma della copertina dell’album precedente e delle traduzioni italiane di Harry Potter), si muove circondato da un’oscurità che sembra volerlo inghiottire solo per ingordigia. Immagine non troppo diversa, alla fin fine, da quella scelta da Jackson Browne (uno che di impegno sociale e sensibilità umana se ne intende parecchio) per la quasi contemporanea uscita di ‘Standing in the breach’. Un biglietto da visita eloquente che quasi stride con l’immagine sorridente di tutti i componenti della band (nello scatto interno di Mirko Pucci c’è ancora l’ottimo bassista Ale Grazioli, che ha lasciato amichevolmente la band dopo 18 anni, sostituito da Andrea Giaro che avrà modo di farsi apprezzare on the road) stampata all’interno del sobrio digipack, volutamente avaro in fatto di ringraziamenti, crediti e piaggerie varie.
Il frontman Marco Diamantini, autore dei testi e di quasi tutte le musiche (solo in cinque dei dodici brani supportato in fase compositiva dal fratello Marco e dal tastierista Alessio Raffaelli), ha sempre lavorato con estrema attenzione e grande talento sulle parole. Certo, la qualità strettamente strumentale della band è talmente alta da costringere troppo spesso l’ascoltatore a trascurare la poetica e i messaggi, socialmente poetici ma neppure troppo criptici. Eppure, Marco ci ha sempre tenuto molto e anche la scelta di inserire le traduzioni in italiano (peraltro scaricabili gratuitamente dal rinnovato sito della band) sembra confermare questa volontà che potrebbe garantirgli ulteriore credibilità non solo come cantante, armonicista e seconda chitarra, ma anche come libero pensatore che ha perso la pazienza ormai da tempo ma ha mantenuto intatta la sua lucidità, senza fumose etichette e pericolose ideologie da sventolare.
Che i pesaresi fossero piuttosto impegnati, inoltre, si sapeva da tempo. Almeno da ‘Freak Show’. Che fossero incazzati come bestie, Marco in particolare, anche. Pessimisti? Direi di no, altrimenti avrebbero mollato già da tempo e ci avrebbero lasciati in balia dei Modà, Fedez e guitteria varia. Direi motivatori, piuttosto. Un po’ come gli allenatori di canottieri e canoisti che affiancano a bordo di un vecchio gommone gli scafi dei loro encomiabili atleti, gridando a più non posso i loro consigli attraverso un gracchiante megafono ingolfato dalla salsedine. Ecco, quello sì. Motivatori!
E, personalmente, mi sento anche di dissentire con Marco in merito ai dubbi da lui manifestati apertamente in merito all’immediatezza dell’album. Più volte, nelle ultime settimane, il tompetty marchigiano (solo per una questione di somiglianza, mica si frantuma la mano contro i muri lui…) aveva infatti invocato pazienza e reiterati ascolti da parte degli acquirenti, affinché il lavoro potesse essere assorbito e metabolizzato senza traumi. Non è immediato? Col cavolo, caro Marco! A meno che il riferimento non sia legato al confronto con l’ultima raccolta di Spandau Ballet, Cult o Abba ma, in quel caso, l’unica cosa ad essere immediata sarebbe solo una mostruosa forma di orchite o il traumatico risveglio dall’incubo di essere sul punto di annegare nel cassone dei cd di un Autogrill.
E se i personaggi del precedente ‘Based on lies’ erano costretti a fare i conti con un contesto esistenziale e materiale sempre più drammatico, condizionato dalle menzogne e dall’inganno, in ‘Beggar Town’ (registrato allo studio Castriota di Marzocca) queste figure dagli abiti cenciosi e lo sguardo esitante si ritrovano a saltellare tra le macerie come ballerini in preda a una disperazione quasi atavica. Sono a un passo dal cedimento, ormai travolti dallo sconforto e dalla rassegnazione. Eppure, ogni tanto, si accende puntualmente quella lucina che, una volta precipitati sul fondo del baratro, invece di invitare a scavare, spinge a tentare un’arrampicata degna di un free climber altoatesino. Armando mani, piedi, dita e unghie di quella speranza tipicamente umana che, passo dopo passo e centimetro dopo centimetro, si trasforma in dignità, orgoglio e rabbiosa determinazione.
‘Fog on the highway’ apre l’album con i tasti dell’inconfondibile Raffaelli a introdurre la chitarra (in questo caso) schiva ma impareggiabile del Diamantini Michele. Entra in sequenza la band intera con la voce del Diamantini Marco sempre più calda e personale. Un blues crepuscolare intriso non di pessimistica rassegnazione ma, tutt’altro, di una furiosa ripartenza per ignorare tutte le incognite dei banchi di nebbia assiepati lungo la strada maestra. Il Michele rifila le sue stilettate sempre più lancinanti, ma il groove resta temperato secco e controllato, introducendo bene la stupefacente ‘Muddy hopes’ nella quale la voce del Marco pare uscita da un album di un Leonard Cohen insolitamente dinamico e la band sembra diretta da un Tom Waits (non certo, ovviamente, lo svogliato farfugliatore al quale tutto è stato ormai concesso negli ultimi lustri…) a passeggio con John Lurie.
Tuttavia, non è ancora tempo di riscossa ma solo di amara e atroce constatazione in attesa che la title track, composta da Raffaelli con il drumming ossessivo di Alan Giannini e il tocco di Grazioli in fondamentale evidenza, anticipi l’arrivo del re dei mendicanti. Le immagini, testi alla mano (ha ragione Marco, niente da dire…), si sviluppano come frammenti di una pellicola o puntate di un serial che la chitarra ferroviaria di Michele trascina fino a ‘Lifeboat’ e alle sue metafore esistenziali con la navigazione tra le onde del mare, ballata quasi lounge (per gli standard dei C.W., ovviamente…) caratterizzata da un tono vocale che fonde quello di un crooner al funereo ruggito del compianto John Cambell.
La cantautorale ‘Your time is right now’, quasi blue collar e intrisa di soluzioni corali, riporta finalmente la parola ‘hope’ sul cammino dei pesaresi che, ormai ben lontani dalla r’n’r machine di un tempo ma anche dallo status di dinosauri che tanto temono, riscoprono comunque ghiotte abitudini nell’essenziale ‘Keep on playing’ che si trasforma in una corsa nei campi quasi spregiudicata e illusoria. Finché ‘Claim the sun’ (logica evoluzione in questo ‘concept album’ non annunciato ma sottinteso…) regala la classica ballatona alla C.W. che tutti attendono (ma meno generosa rispetto i tempi di ‘Ruby shade’) in una controllata evoluzione di sonorità con la chitarra di Michele a tessere ragnatele sempre più coinvolgenti all’insegna di un pizzico di speranza aggiuntiva grazie al calore dei raggi del sole.
‘Utrillo’s wine’, parentesi onirica ispirata a un drammatico episodio realmente accaduto al pittore francese in preda all’alcolismo che coinvolse anche l’amico-collega Amedeo Modigliani, rallenta ulteriormente il ritmo delegando quasi solo al piano di Raffaelli (qui compositore delle musiche) l’accompagnamento a tratti volutamente distorto di una voce quasi narrante. Marco è maturato anche sotto questo aspetto e i suoi interventi sixites degli esordi sono ormai stati sostituiti da un lavoro di misurato scalpello ai limiti del soprannaturale.
Il discorso riprende comunque con ‘Destination nowhere’ che rialza il ritmo e promette una reazione violenta verso i responsabili in guanti bianchi della catastrofe, grazie a quella sorta di vendicatore disperato presente in ognuno di noi e pronto ad entrare in azione quando arriverà il momento della risurrezione. Per evitare di trasformarsi nell’uomo nero (simboleggiato nella tambureggiante ‘Black man’) che tutti schivano e tutti temono al tempo stesso per la sua disperata follia: “Ti dicono che non c’è altro modo. Ti fanno credere di essere un errore”, commenta dannatamente a proposito Marco, gravitando sul ritmo azzeccato del trio Grazioli-Giannini-Raffaelli con il fratello a piazzare le sciabolate più sanguinolente.
‘I am the scar’ ci riporta in zona Pasley con quella tastiera tirata come un elastico e quei profumi che spingono Lenny Kaye tra le braccia di Jim Carroll con gli Mc5 a fare da house band (“La corda si è spezzata. Il mio dolore diventerà il vostro dolore. … Vi seppelliremo con le vostre menzogne e con tutto il denaro che vi hanno fruttato”). Una minacciosa dichiarazione d’intenti stemperata soltanto dal commiato ad alto tasso pianistico e sentimentale, riservato alla straziante ma non banale ‘The fairy has your wings’. Il pezzo più lungo dell’album arriva per salutare affettuosamente Valeria che, di certo, accompagnerà i C.W. dall’alto del cielo e li terrà ancora a lungo strettamente ancorati alla loro strada lastricata di coerenza, impegno e creatività. Nelle lunghe nottate al volante del furgone per rientrare a Pesaro, nei momenti di sconforto e in quelli di esaltazione; davanti alle platee che li meritano e persino a quelle che parlottano distrattamente; fissando perplessi l’estratto conto bancario, ma anche leggendo e rileggendo soddisfatti i commenti dei critici avveduti.
I Cheap Wine non vendono sogni ma svelano la realtà; i Cheap Wine non ci accarezzano ma ci prendono a schiaffoni; i Cheap Wine non ci suggeriscono di cercare riparo dietro a una canzone, ma di prendere invece una chitarra, una penna o un cacciavite per replicare a chi insulta la nostra intelligenza.
I Cheap Wine, oggi come oggi, sono la risposta per chi, prima di pigiare il pulsante ‘play’ dello stereo, ha già acceso il cervello da tempo. E ha fatto le sue scelte.
[ Daniele Benvenuti – INSTART ]






Mentre stavo scartando il pacco appena arrivato, contenente questa nuova preziosa opera dei pesaresi Cheap Wine (e con l'aggettivo "preziosa" mi sono già bruciato la valutazione finale), Marco Diamantini, cantante e autore dei testi del gruppo, sulla sua bacheca facebook postava la copertina del disco con questa frase promozionale di contorno: "lo so che alla Apple e gli U2 fanno diversamente. Ma noi siamo all'antica. Noi siamo dinosauri. E, soprattutto, siamo mendicanti".
C'è chi ha avuto le nuove undici, fredde, gelide - e pure bruttine - canzoni del gruppo irlandese sull'iPod "a sua insaputa" e chi queste avvolgenti dodici canzoni nello stereo, impacchettate con la cura di sempre dentro ad una confezione curatissima con testi in inglese e relative traduzioni in italiano, e artwork (splendido, non trovate?) a firma dell'artista Serena Riglietti come nel precedente Based On Lies.
Mi sento fortunato, un po' dinosauro e mendicante anch'io: gli U2 (onore al passato) li ho scaricati al primo ascolto - nel senso più dispregiativo del termine - i Cheap Wine li ho salvati alla  prima, anche se loro stessi dicevano che era difficile entrare in sintonia con l'album al primo ascolto. Niente di più sbagliato.
Ho amato queste canzoni da subito, perché hanno la forza di catturare e portarti lontano, immediatamente. Non hanno date di scadenza e la pretesa di arrivare subito, la sintonia nasce da qui, dal sapere che dovrai dare loro un po' del tuo tempo per venire ripagato adeguatamente. Se non è oggi sarà domani, ma sai che dovrai ripassarci. C'è tanto lavoro, passione e vita dietro. Si percepiscono.
Cose che non possono sfuggire al primo ascolto. Gli altri ascolti serviranno a cercare i particolari - e sono tanti, ve lo assicuro - capire i testi, mettere insieme i pezzi del concept. "Beggar Town è un disco ambizioso, scorbutico, anarchico, ribelle. Che non tiene conto di nulla, se non della nostra anima e dei nostri umori". Raccontano loro.
Il precedente Based On Lies era un'impietosa e pessimistica istantanea della realtà costruita sulle menzogne, questo è un manuale di resistenza ma anche e soprattutto di fuga dal passato nero e dalla grigia quotidianità, fuga che a volte va a compimento trovando le giuste vie di scampo (la corale positività di Your Time Is Right Nowcon la sua lunga coda finale), altre no e la metafora del mare come via alternativa fa spesso capolino ("Tempo fa, tutto il mare era calmo e silenzioso, quando navigavo, la notte era illuminata dal faro" nella ondivaga Lifeboat). L'importante è provarci. Sempre. Disco intenso, a tratti rarefatto, compatto e notturno dove le tastiere di Alessio Raffaelli tessono bene la tela, le belle chitarre di Michele Diamantini irrompono, pungono e allungano spesso, come nell'apertura Fog On the Highway. L'incrocio tra tastiere e chitarre caratterizza l'intera opera. Muddy Hopes ha il passo che mi ricorda l'ultimo Leonard Cohen di Old Ideas, la voce di  Marco Diamantini sussurra in sordina, i tempi diventano lenti e quasi jazzati con le chitarre che vanno nuovamente a riprendersi il crescendo finale, diversamente dallo straniante up tempo chitarristico di Beggar Town. Qui è tutta una fuga.
In Claim The Sun la voce di Diamantini si fa ancora più intensa, una ballata amara e coinvolgente, esortazione a lasciarsi indietro il passato. Rinascere. Tra le migliori ("Sono Tempi duri, ma saprò resistere. Tu sei il girasole sbocciato nella sabbia. Ora risvegliati e pretendi il sole. Ora risvegliati e trova la forza per cancellare tutto il grigio e per scoprire un colore nuovo, ogni giorno").
Keep On Playing è la prova di squadra perfetta: diciotto anni di attività e dieci album incisi sono un traguardo non da poco per una band che non ha mai ceduto ai "grossi e loschi affari" pur avendo tutte le carte - nazionali e internazionali - in regola, preferendo la tortuosa ma sempre appagante strada dell'indipendenza tout court. Con l'irruenza del passato messa da parte ma non abbandonata del tutto (con pazienza: il finale sta per arrivare), ora a prevalere è una coesione fatta di tante sfumature, macchina "umana" perfetta con pochissimi eguali in Italia, costruita di album in album, di concerto in concerto, di sacrificio in sacrificio.
Una continua progressione che si nota se mettete in fila i loro album, dal debutto del 1997 fino ad oggi. Le tastiere in primo piano e la sezione ritmica formata da Alan Giannini alla batteria e Alessandro Grazioli al basso sono lezione da imparare in Keep On Playing. Quasi progressive nel suo procedere.
Utrillo's Wine è un'altra ballata pianistica, una mini opera che mi ricorda certe cose di Bill Fay, e ci presenta un episodio tragicomico pescato dalla bizzarra vita di un personaggio realmente esistito: Maurice Utrillo, pittore francese nato a fine '800, compagno di sbronze e fedele amico di Amedeo Modigliani, caduto in disgrazia, vittima di disturbi psichici e alcolismo. Le sue opere verranno rivalutate solamente dopo la morte.
Destination Nowhere, è un blues rock funkeggiante che tira la volata finale, caratterizzata dall'innalzamento della tensione: Black Man è il primo vero scatto rock del disco, questa volta sono le chitarre a condurre il gioco (Michele Diamantini sale in cattedra) mentre il pianoforte insegue e bene: c'è una voce maledetta che vuole farti sbagliare strada portandoti tra la perdizione, ma quando non hai più nulla da perdere vedi e punti i nemici con più acume.
I Am The Scar segue a ruota e ne è la degna continuazione. Sono i tempi della rivincita, e poco importa come si concretizzerà: "vagavo da solo, tenevo il mio fucile in vista. Verrò a prendervi tutti. Vi ammazzerò uno alla volta. Dicevate che ero fuori di testa. Adesso sapete che avevate ragione. Mi avete ridotto alla fame".
The Fairy Has Your Wings (For Valeria) si stacca da tutto e chiude con accorata grazia ricordando un'amica che non c'è più. Miglior finale non poteva esserci.
Prezioso. L'ho già detto?
[ Enzo Curelli – IT'S STILL ROCK'N'ROLL TO ME ]




Decimo album di una discografia iniziata nel 1996, Beggar Town dei Cheap Wine giunge dopo 2 anni dal precedente album e conferma lo stato di grazia della band.
Originari di Pesaro, con il nome ispirato da una canzone dei Green On Red presente sul loro “Gravity Talks”, una lunga attivita’ live non solo in Italia e profonda ammirazione per il rock americano in tutte le sue forme, i Cheap Wine sono oggi una delle piu’ importanti realta’ della scena indipendente  italiana.
Questa nuova avventura discografica non trascura le originarie influenze del rock made in Usa ma allarga la prospettiva mantenendo ferma la convinzione che ogni canzone non e’ solo musica ma anche testi e storie raccontate. “I personaggi di “Based On Lies” uscito nel 2012 apparivano sconvolti dal peggioramento catastrofico delle loro condizioni di vita determinato dalla crisi economica. – raccontano i Cheap Wine – Le figure di Beggar Town devono invece fare i conti con il nulla che e’ rimasto sotto i loro piedi, con luoghi di desolazione e smarrimento e con una prospettiva che prevede un dura e sfibrante lotta per la sopravvivenza”.
Gia’ l’iniziale “Fog on the highway”, tra impeccabili “duelli” tra piano e chitarra solista racconta episodi di vita di/in strada (“dove anime nude e idioti travestiti/cercano uno sprazzo di luce ) che costituiscono il tema anche della successiva “Muddy hopes”, suoni di puro rock americano con la voce di Marco Diamantini che qui ci ricorda da vicino quella di Leonard Cohen ( Sogni abbandonati fra le lenzuola, / nel triste squallore di una stanza di motel./Sei solo un giocattolo, bamboccio dimenticato” /è la scritta vergata da un rossetto/ su quel muro grigio e logoro.) .
La title track “Beggar Town”, per la cui promozione e’ stato realizzato anche un splendido video, e’ un ulteriore esempio di rock on the road accattivante e coinvolgente ( C’è una città dove la polvere si infiamma/ e cade dal cielo come una pioggia di fuoco (…) E’ lì che vai quando la speranza è morta,/ quando nessuno è più dalla tua parte.) mentre piu’ meditativa e ancora coheniana e’ “Lifeboat” (Non c’è tempo per chiedere perché./ Non c’è tempo per dire addio./ Prenderò una scialuppa di salvataggio/ e mi lascerò tutto alle spalle.) che precede “Your time is right now”, perfetto episodio di power guitar sound, ispirato dalla psichedelia e dai suoni a cavallo tra fine anni sessanta/inizio anni ottanta e che lascia ampio spazio alla libera espressione dei singoli musicisti ed in particolare al virtuosismo di Michele Diamantini alla chitarra elettrica. Molto West Coast “Keep on playing” (In ogni caso, continuerò a suonare./ Perchè ho bisogno di cantare/ una canzone per essere felice.).
Delle altre tracce non possiamo trascurare “Utrillo’s Wine”, ispirata ad un episodio realmente accaduto al pittore francese Maurice Utrillo e “Destination Nowhere”, che con ampio uso di wha wha e richiami funk jazz  narra una storia purtroppo molto comune ai giorni nostri, di uomini che hanno perso tutto ma che conservano il sogno di risorgere un giorno o l’altro. “Black Man”, e’ un brano rock grezzo appassionato e appassionante, e la conclusiva “The fairy has your wings”, struggente ballata dedicata a Valeria (Le tue ali sono così deboli,/ come farai a volare? “) amica del gruppo “che e’ sempre stata con noi e sempre lo sara’, anche dall’immensita’ del cielo”.
Beggar Town non e’ quindi un semplice disco rock: e’ un racconto della vita ai giorni nostri a cui la musica dei Cheap Wine fornisce un eccellente colonna sonora. Ed a testimonianza di tutto questo la presenza, nel booklet allegato al cd, di tutti i testi (rigorosamente in inglese) tradotti in italiano affinche’ nulla di cio’ che si vuole raccontare possa andare perso. Di certo un disco che non puo’ mancare nella collezione di chi ama il rock suonato con grinta e passione.
[ Carlo Pulici – FASECONTROFASE ]





Diciotto anni di carriera, un'infinità di concerti e dieci dischi (otto album e un mini di studio più un doppio live; purtroppo, però, nessun vinile) sono traguardi formidabili per un gruppo che da sempre si autoproduce, canta in inglese e si mantiene fedele a uno stile avulso dal rock italiano, classico o alternativo che sia. Un piccolo miracolo, quello della band dei fratelli Diamantini, che ora si rinnova, due anni dopo "Based On Lies", con un'altra raccolta di canzoni americane dove il rock'n'roll, gli echi roots, la psichedelia mai troppo acida e lo storytelling si intrecciano senza soluzione di continuità, illuminate da ispirazione e passione. In questo caso, con le tastiere ancor meglio inserite nel loro autorevole impianto chitarristi, ritmico e vocale, i Cheap Wine hanno un po' tenuto a freno la grinta, non soffocando l'impatto fisico, le asprezze e qualche tono livido, ma privilegiando l'evocatività e l'intimismo. Se qualcuno non teme di esporsi al ridicolo, provi a sostenere la tesi che i risultati, benchè tutto sommato "canonici", non diano loro piena ragione.
[ Federico Guglielmi – BLOW UP ]

 


Based on lies
CD: "Based On Lies" (2012)

It's tricky, I get that. The blurb that comes with an album, it needs to set the tone, entice, reveal and make you go, "ace! I want to the hear this". Records are personal, snap shots of a moment, a record of a time, some chums come together, do some stuff, it sounds like this, and we like it do you? I get that.
The guff that came with this was such BS, like some kind of manifesto, Mr Bragg once said "mixing pop and politics they asked me what the use is". Unless you're Woody, probably best to avoid it boys, stick to sounding like Psychedelic Furs or Blondie, you're all the better for it. You want the music to look like the artwork; same feel, this looks like a scary kid's book – not 'Where the Wild Things Are', but something that was later revealed to have some dark unpleasant code; think Lewis Carol.
So to the music: I guess that English isn't their first language, Italian is. This is no hindrance. I loved the Knopfler solo in track 2, "Waiting on the Door", very 'Sultans..', and very good.
The album opener is fantastic; loud, brash, urgent – screaming "listen to me, listen to me". That's good; calls you in. The vocal is part JJ Cale part bloke from the Levellers, with a touch of Cousteau about them. The mix is good; drums up, not buried in the back like an afterthought (and has some decent brush work).
The musicality is nice "Lovers Grave" has both a nice break down, complete with gravel vocal, plus a fadeaway vocal into full effect guitar solo, melting the two together.
I'm not a piano fan, but the Hornsby feel and honky tonk touches are just the ticket. The interplay with Michele Dimantini's guitar is class, and shows a band at the top of their game. This is a band I want to see live, I want to sing those "la-la-la-las" on "Give me Tom Waits", deep in the catacombs of an Italian club. Sweaty, wall running, stood on a beer-sticky floor.
[ Rudie Humphrey – AMERICANA UK ]

 

Probably the most established band of the fertile Italian Americana circuit, Pesaro's Cheap Wine - who take their name from a song by Green On Red rather than The Cockney Rejects - are now on their ninth album since their formation back in 1997.
"Based On Lies" takes its title from the notion that, while many fictional books and movies are "based on a true story", the real world is a tissue of deceit concocted by mass media manipulation. Probably some truth there. Wholly from the prolific pen of frontman Marco Diamantini, despite certain country-rockin' influences, notable on "The Big Blow", the album packs a heavy punch thanks to the searing guitar of Michele Diamantini. Leaping from the starting gate with the Husker Du-like "Breakaway", the band really open the throttle for "Lost Inside", driven by a three-note wheezy psych organ riff.
Meanwhile, a little bit of shade comes in the form of the unusually easy-listening ballad "On The Way Back Home" and the brooding epic "The Vampire".
Hopefully leading to much greater recognition, on this evidence, their previous eight releases would be well worth checking out.
[
Gerry Ranson – R2 Rock'n'Reel]

 

Als ich mich 2009 auf Grund eines Lesertipps um Spirits bemühte, war mein frommer Wunsch nach der Rezension dieser Scheibe folgender:
»Bleibt zu hoffen und zu wünschen, dass sie es endlich schaffen, auch über die Landesgrenzen hinaus ihren Bekanntheitsgrad weiter ausbauen zu können, verdient hätten sie es wirklich.«
Nun, irgendwie hab ich den Eindruck, dass sich an dem Status der Band nichts geändert hat, diese immer noch auf der gleichen Stelle tritt. Seit 1997 veröffentlichen Cheap Wine konstant ihre Alben. Laut Waschzettel wurde das von mir mit einem 'Tipp' bedachte "Spirits" in Italien sogar zum 'Rockalbum of the Year 2009' gekürt. Tja, und was hat's gebracht? Nichts! Außer Spesen nichts gewesen. Die Scheiben kann man nach wie vor nur als schweineteure Importe erwerben, und wenn ich mir ihren Tourkalender so anschaue, scheinen sie ihre Konzerte überwiegend vor der eigenen Haustür - also in Italien zu absolvieren.
Das verstehe, wer will!
Mit "Spirits" haben die Italiener die Messlatte sehr hoch gelegt. Als ich vom Bandmanagement nun die 2012er Platte zugeschickt bekam, war ich deshalb gespannt wie ein Flitzebogen, ob sie die 2009er Scheibe noch toppen können (2010 wurde mit "Stay Alive" ein Doppelalbum, eine Art 'Best Of' auf den Markt gebracht).
Ein Blick in das Booklet verrät - es gibt einen Neuzugang, Alessio Raffaelli, zuständig für Piano, Keyboards und Akkordeon. Zwar hatte man beim Vorgänger ebenfalls einen Musiker, der Piano und Keyboards bediente. Alessandro Castriota fungierte aber 'nur' als Gastmusiker. Raffaelli ist jedoch ganz offensichtlich als festes Mitglied ins Bandgefüge integriert worden.
Was bedeutet das für die Musik?
Mein erster Höreindruck: Piano und Keyboards haben einen breiteren Raum eingenommen.
Der Opener, "Breakaway", knallt noch in altbewährter Weise und lässt mich ab und zu an die
Sand Rubies denken.
"Waiting On The Door", mit zarter Keyboarduntermalung, schmeichelt das Ohr, hat sogar ein bisschen was von den Dire Straits. Selbst Marcos Stimme ist der von Knopfler hier nicht ganz unähnlich.
Bei "Lovers Grave" kommt das Piano zum ersten Mal verstärkt zum Einsatz. Ob nun zur Untermalung im Refrain oder zur Unterstützung der Gitarrensoli, es wirkt jedoch nicht störend, sondern dient eher zur Bereicherung des Songs.
"Give Me Tom Waits" - ein Boogie - hier haut Alessio Raffaelli ebenfalls bei den Soli kräftig in die Tasten. Da passt einfach alles.
Und weiter geht's: Ob nun zum Country ("The Big Blow") getanzt wird, ob wir uns in einer Bar einen Drink genehmigen und zu "Based On Lies" swingen, ob wir gerade Heimweh haben und zu "On The Way Back Home" schluchzen (eine Wahnsinnsballade übrigens und gerade tropfen schon wieder die ersten Tränchen), das Album fällt nicht ab, im Gegenteil, die Band steigert sich auf dieser Platte von Song zu Song und lässt eine verblüffte Rezensentin sich die Frage stellen, wie so etwas möglich ist.
Ich überlege schon die ganze Zeit, an wen oder was mich "Lost Inside" erinnert. Hier lässt die Band nichts anbrennen, es groovt gewaltig aus den Boxen - und - jetzt fällt es mir wieder ein: "Primevil Love" von den Sand Rubies, ja klar - nur ohne Piano oder Keyboard.
Schlau wie man ist, hat man nicht gleich am Anfang schon sein ganzes Pulver verschossen.
Denn wer bis jetzt noch nicht vollends von dem Album überzeugt war, der wird mit "The Vampire" wirklich eines Besseren belehrt werden. Was die Band mit diesem Song abgeliefert hat, ist eine kleine Meisterleistung. Eingeleitet wird mit einer Akustikgitarre. Bass, Keyboard und E-Gitarre fallen nach und nach ein und untermalen Marcos tolle Stimme:
»Well, I'm fine with the stormy weather. When the light is dimmer than ever.
When the town is black and white and the moon tries to hide.
And I'M far away from home…«
Dann steigt Alan Giannini ein und trommelt sich die Seele aus dem Leib, treibt die Bandkollegen zu Höchstleistungen an. Damit erfährt das Stück natürlich eine gewaltige Steigerung. Marcos Gesang wird richtig dramatisch. Himmel und Hölle, wer jetzt nicht schwach wird, dem ist nicht mehr zu helfen.
Den Abschluss bildet ein tolles E-Gitarrensolo (und, man ahnt es schon), wieder untermalt vom Piano, das sich am Ende mit leisen Tönen 'verabschiedet'.
Das Stück könnte Cheap Wines Stairway To Heaven werden.
Wer glaubt, das Album flacht nun ab, der irrt gewaltig. Auf dem gleichen Level wie "The Vampire" ist auch "To Face A New Day" (eine Halbballade mit Southern-Einschlag) sowie das Country-angehauchte "The Stone". Mit diesem Stück, dem Michele Diamantini mit dem Banjo den letzten Schliff verpasst, 'reitet man zur Tür hinaus'.
Die Jungs verstehen ihr Handwerk, das ist nicht zu überhören. Die Diamantini-Brüder sind richtige Multiinstrumentalisten. Sänger Marco spielte z. B. auf "Spirits" E-Gitarre, Akustikgitarre und Harmonika. Michele bedient neben der E- und Akustik-Gitarre auch Electric Slide, Acoustic Slide, Dobro, Mandoline und Banjo. Die beiden letzten Instrumente kamen nun auf "Based On Lies" zum Einsatz.
Ein bissel schmerzlich vermisse ich die Slide und auch die Harp ist ebenfalls kaum zu hören, die den Stücken auf "Spirits" diesen Blues Rock-, Americana-Touch verpassten. Vielleicht wäre diese Platte damit aber auch zu sehr überladen worden, wer weiß. Denn "Based On Lies" ist wiederum ein sehr abwechslungsreiches Album geworden, auf dem sich die Band mal von einer anderen, nämlich ruhigeren Seite zeigt. Alles in allem vergleiche ich diese Scheibe mit der Hammerplatte "Return Of The Living Dead" von den Sand Rubies.
Über 51 Minuten lang Hörgenuss pur und eine ganz dicke Kaufempfehlung!
Ob Cheap Wine damit nun endlich den Durchbruch schaffen? Ich gebe die Hoffnung einfach nicht auf.
[ Ilka Heiser – ROCK TIMES ]

 

Dass Roots Rock und Americana Musikstile sind, auf die man jenseits des großen Teiches das Patent hat, ist schon lange Schnee von Gestern. Mittlerweile finden sich im "alten Europa" einige Bands, die da ordentlich mitmischen. Und besonders in Italien scheint man - nachdem man lange Zeit entweder mit leichtem Pop auf der einen, oder sehr progressiver Musik auf der anderen Seite assoziiert wurde - da gehörig aufgeholt zu haben. Da finden sich mittlerweile Southern- und Blues Rock-infizierte Bands, die genauso faszinieren können, wie die aus den Vereinigten Staaten.
Und auch der oben genannten Roots Rock spielt da eine Rolle. Nämlich schon seit Jahren in der Musik von CHEAP WINE. Die Italiener spielen einen energetischen, flotten Rock, mit Folk- und Country-Anleihen, der einen schnell in Ohr, Finger und Beine geht. Und ins Herz.
Breakaway legt gleich ordentlich los, mit ein paar treibenden Gitarrenakkorden, einer hochfahrenden Hammondorgel und der aufheulenden Mundharmonika von Sänger Marco Diamantini. Da fühl' ich mich an manch frühe Tom Petty-Scheibe erinnert, wie auch an etliche Country Rock-beeinflusste Bands. Hat ordentlich Drive, eine Rock-Gitarre für die kleinen Überholmanöver, ein schneidendes Gitarrensolo und eine Melodie, die haften bleibt. Das dürfte live so richtig geil kommen. Bereits dieser Einstieg scheint den Erwerb der Scheibe zu rechtfertigen.
Man hört den Italienern an, dass sie schon ein paar Jahre im Geschäft sind (das Debüt datiert auf 1997) und es bedarf schon des Hinweises auf ihre Herkunft, denn sonst würde man sie sicher eher im mittleren Westen von Amerika vermuten. Waiting On The Door wird von der akustischen Gitarre bestimmt, ohne dass der Elan verloren ginge. Man hat das Gefühl, CHEAP WINE befinden sich in einem ständigen Fluss, sind unterwegs, immer auf Achse. Der Song ist ein herrlich verträumter Soundtrack dafür.
So geht es denn auch bald wieder flotter voran und Lover's Grave bahnt sich, leicht folkig, seinen Weg ins Langzeitgedächtnis. Ich muss hier ab und an die Schotten von DEL AMITRI denken, wie auch bei manch folgenden Song.
An Tom Waits denkt man bei Give Me Tom Waits wohl nicht augenblicklich, denn dafür ist die Nummer zu rockig. Das hat mehr Southern-Country-Rock-Charakter, mit toller Slide-Gitarre, hämmernden Piano und Drive. Klingt in etwa wie WILCO, wie die sich z.B. an manchen Gram Parsons-Titel herangemacht haben.
Auch The Big Blow rollt unaufhaltsam voran, als müsste man den nächsten Gig erreichen. So geht es den Highway entlang, hier besonders von Alessio Raffaelis Piano getrieben. Dieser bestimme auch den jazzig-bluesigen Titelsong des Albums. Ich find's ganz klasse, wie diese Band, auch mit sehr zurückhaltender Instrumentierung, eine ganz tolle Atmosphäre erschafft. Auf jeden Fall ein Anspieltipp!
Die melancholische Piano-Ballade On The Way Back Home ist geeignet für die nachdenkliche Pause und nur die Desert Rock Riffs der Gitarre verhindern das Wegträumen. Anscheinend gilt es Zeit aufzuholen, denn Lost Inside gibt wieder Gas. Raue Riffs, schiebende Orgel, pulsierender Rhythmus und ansteckender Gesang. Geht los, geradeaus, kraftvoll und gut.
Das hypnotisch-atmosphärische Wüsten-Rock Stück The Vampire entführt einen in die Welt von Leuten wie Rich Hopkins, während mit To Face A New Day auch dessen Vorbild Neil Young mit ins Boot holt und Raum für Michele Diamantinis ausbrechende Gitarren-Soli bietet. Macht so richtig Lust die Typen auf der Bühne zu sehen.
Im abschließenden The Stone, scheint der Automotor den Geist aufgegeben zu haben, denn das holpernde Banjo suggeriert mehr den Fußmarsch entlang der Straße. Bietet die Stimmung eines Italo-Westerns und letztlich ist das vielleicht der passende Ausdruck für diese Band und ihre Musik, die aus dem Süden Europas ein ganz tolles Album Richtung der Herzen von Heartland-Rockern abgeliefert hat. Ich sag mal: Wer hin und wieder bei Blue Rose seine Scheiben ordert, der sollte hier zwingend mal reinhören!
[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]


Nos esforzamos por sobrevivir en un mundo basado en mentiras y falsas apariencias, intentando encontrar el modo de encajar la decepción, el hastío y el desaliento, de hallar la forma de salir indemnes de un juego de espejos que en el fondo aceptamos.
Somos Alicia en el País de las Maravillas y hemos perdido el rastro del conejo. La sensación de desasosiego que planea sobre la sociedad en esta época dura y convulsa que nos ha tocado vivir inunda los temas que componen "Based On Lies", el octavo disco de esta banda que por su música podrían pasar por americanos. Pero nada es lo que parece.
Marco Diamantini, cantante de la banda, reconoce que escribió las letras en la peor etapa de su vida, y en ellas reflexiona desde un punto de vista íntimo y personal sobre desencanto y el engaño, buscando respuestas imposibles a preguntas fundamentales. Bajo esa sombría mirada del mundo, nos ofrecen once temas de rock sin estridencias, acompañado de las ricas texturas instrumentales del blues.
Fuertemente influenciados por la música americana, no sólo en su nombre (tomado de una canción de Green On Red), la música de Cheap Wine suena a Springteen, a Dylan y a Young, con sus letras elaboradas y comprometidas, sus guitarras acústicas y la presencia de la armónica, pero también a Dream Syndicate, The Replacements y otras bandas del movimiento Paisley Underground.
El resultado de la conjunción de estos elementos es un álbum que aún siendo sombrío ofrece espacio para la esperanza. No hace falta más que escuchar la urgente “Breakaway”, con la que nos dan la bienvenida apretando el acelerador a golpe de guitarra o la notable “Give Me Tom Waits”. Descargas de vitalidad que nos preparan para cortes taciturnos y oscuros como “The Vampire" o “On The Way Back Home” donde el piano de Alessio Raffaelli, la detallista guitarra de Michelle Diamantini y la melancólica voz de Marco bailan hasta conseguir una perfecta alianza. Se apoyan en el swing para conseguir composiciones elegantes y refinadas, como en el tema que da título al álbum. En una equilibrada alternancia de ritmos, nos llevan desde el sentimiento de pérdida que desprende “Waiting On The Door” hasta la rabiosa “Lost Inside”.
"Based On Lies" es una mirada crítica hacia lo que creamos real. Un disco que huyendo del derrotismo, consigue transmitir la fuerza necesaria para afrontar un nuevo día.
La música de Cheap Wine envuelve, acompaña y mitiga los avatares de la existencia, dejando en nuestros paladares un gran sabor de boca. Su nombre es sólo otro truco más.
[ ELEVEN ROCK MAGAZINE - Marta Tobar ]

 

De Italiaanse rockband Cheap Wine uit de buurt van Pesaro, heeft na 15 jaar een stevige reputatie opgebouwd. Al vermoedde ik na een eerste luisterbuurt dat dit kwartet uit de States afkomstig was."Based On Lies" is het negende album en is de opvolger van het succesvolle ‘Stay Alive’ uit 2010. Met de ongelooflijke Amerikaanse tongval van Marco Diamantini, zijn de elf originele nummers typerende Southern rock en uptempo Americana tracks. Net als de veelzijdigheid van broer Michele Diamantini op gitaar en de strakke ritmesectie met Alan Giannini op drums en Alessandro Grazioli met de baslijnen. Alessio Raffaelli aan de toetsen, geeft vooral de boogie ‘Give Me Tom Waits’ ongelooflijk veel kleur.
‘On The Way Back Home’
is een zeldzame ballade, maar met de opvolger ‘Lost Inside’ wordt het gaspedaal tot op podium ingedrukt.
De bandnaam werd immers ontleed uit een Green On Red song uit het album ‘Gravity Talks’. Met het album"Based On Lies" legt de band Cheap Wine de lat wel zeer hoog.
‘Based On Lies' is a pleasant listening rocking piece. A must for under the Christmas tree. Pure listening pleasure and hopefully the final breakthrough for Cheap Wine.
[ Philip Verhaege – KEYS AND CHORDS ]

 

"Based On Lies" is het negende album van de Italiaanse country-rock band Cheap Wine. Deze band uit Pesaro met zanger, gitarist en songschrijver Marco Diamantini bestaat al sinds 1997 en is inmiddels uitgegroeid tot één van de toonaangevende rockbands in Italië.
De band bestaat verder uit Michele Diamantini op gitaar, Alessandro 'Fruscio' Grazioli, bas, Alan Giannini, drums en Alessio Raffaelli, keyboards. In de vijftien jaar van hun bestaan heeft de groep door de honderden optredens in Italie en ver daarbuiten een sterke reputatie opgebouwd.
"Based On Lies" is een klassiek rock album met geweldige songs en getalenteerde muzikanten. De teksten spelen een leidende rol en de muziek heeft het juiste evenwicht tussen ballades, swingende ritmes en typische country-rock.
[ Gerrit Vermeij – MUZIEKVENSTER ]


I Cheap Wine sono la migliore R’&’R band italiana?
La risposta è sì, per almeno cinque buoni motivi: uno, Marco Diamantini è un frontman estremamente credibile e ad ogni disco l’interprete che c’è in lui cresce al pari della sua voce.
Due, Michele Diamantini è chitarrista tra i più versatili e completi del panorama nazionale.
Tre, la sezione ritmica composta da Alan Giannini (drums) e Alessandro Grazioli (bass) è totalmente affidabile e costituisce la giusta compressione del motore della band, permettendole di sfoderare tutti i suoi cavalli.
Quattro, l’innesto in pianta stabile di Alessio Raffaelli, tastierista completo, con Otis Spann nel cuore, è molto più rispetto alla ciliegina sulla torta: questo album e i concerti lo suggellano ampiamente.
E, da ultimo, i Cheap Wine sanno scrivere canzoni che reggono il confronto con i “modelli originali”, quei riferimenti artistici  che in modo evidente, ma non smaccatamente aleggiano nei brani.
Detto ciò, aggiungiamo che il loro approccio alla musica è totale e l’anima si trasferisce nei dischi e nei live show. "Based On Lies" è l’ottavo album della band  ed il disco più ponderoso, a cominciare dai testi che si sono fatti scuri come la pece: del resto i Diamantini vedono e descrivono la drammatica realtà di un mondo basato sulla menzogna, come recita il titolo dell’album, e ciò non poteva che riversarsi nelle trame letterarie delle canzoni.
Luoghi sempre bagnati dalla pioggia, città ridotte ad ammassi di macerie, ladri per disperazione, strade percorse dentro nebbie, percorsi verso l’ignoto, sdoppiamenti di personalità perennemente in lotta con se stesse, vampiri che diventano metafore del potere e chi più ne ha più ne metta. Ci sono tutti gli stilemi della musica americana, quelle figure allegoriche che si trasformano drammaticamente in personaggi ed esperienze reali in un mondo che lascia poco spazio alla speranza, sotto la pressione della crisi economica e dell’annientamento dei valori etici. Un disco totalmente pessimista? Qualche raro sprazzo di luce c’è, ma il cielo è davvero cupo.
Musicalmente i Cheap Wine hanno fatto tesoro della virata folk presente in “Spirits”, che ancora si spande qua e là, ma ci sono anche ballate desertiche, momenti pianistici, anche se il tracciante  resta il R&R venato di blues, basti ascoltare la canzone manifesto, la magnifica title track.
La scrittura si è fatta ancora più matura, per certi aspetti più “colta”, con arrangiamenti molto articolati e l’introduzione delle tastiere ha aiutato ad allargare l’orizzonte. Il lavoro è cospicuo, affascinante e non ha momenti di cedimento.
La citata “Based On Lies”, “On The Way Back Home”, “Lost Inside”, con quell’organo alla Manzarek, “The Vampire” che parte pianistica, cupa e lenta per poi liberare  alto l’urlo lancinante della chitarra, Michele che si fa Gilmour: si segnalano i pezzi più interessanti in un lotto da cui non è semplice attingere il meglio, il livello è molto alto. Grande produzione con magnifica cover e libretto opera di Serena Riglietti (copertine Harry Potter ed. italiana) e video professionale ad opera di Claudio Tacchi e Carlo Diamantini (il terzo fratello, già collaboratore di Dario Argento).
I Cheap Wine ci hanno ancora una volta convinto senza alcuna riserva, "Based On Lies" è il loro album migliore che ora passa la prova finale del palco: è certo, se ne vedranno delle belle.

[ Gianni Zuretti BUSCADERO ]

 

I Cheap Wine in quindici anni di carriera hanno compiuto passi da gigante. Si sono costruiti nel tempo una solida reputazione, basata su un’intensa attività live e sull’integrità della loro proposta. Sono artisti veri, non scendono a compromessi e si autoproducono con estrema professionalità. Possono contare su una grande credibilità, raggiunta con passione e determinazione, che li ha fatti diventare uno dei gruppi di punta del rock italiano, definizione tra l’altro limitativa, visto che non sfigurano assolutamente accanto ai più bei nomi della scena americana.
A tre anni dal precendente lavoro in studio e dopo l’acclamato Stay alive, sanguigna testimonianza dei loro strepitosi concerti, la band dei fratelli Diamantini firma un album stupendo, senza ombra di dubbio il migliore dei nove finora pubblicati, ultimo di una serie in progressione continua. Naturale evoluzione della direzione già intrapresa da“Spirits”, che vedeva ridotta la componente elettrica a favore di momenti acustici ricchi di trame strumentali,"Based On Lies" conferma la bontà di questa scelta. Ci troviamo perciò di fronte ad un raffinato rock d’autore in cui i testi giocano un ruolo di primo piano, decisamente cinematografici nel restituire immagini molto vivide delle storie raccontate, e la musica trova il giusto equilibrio tra ballate desertiche, ritmi swinganti e tipici anthem rock’n’roll.
Non c’è che dire, i Cheap Wine sono intestatari di un sound divenuto nel tempo sempre più personale e riconoscibile, un marchio di fabbrica che li rende unici nel panorama attuale. Non si limitano a fare dell’ottimo rock’n’roll, cosa peraltro sufficiente a farceli amare, ma compongono brani arrangiati con molta cura e attenzione ai particolari. Su tutto svetta la voce di Marco Diamantini, mai così precisa per raccontare le sue storie in musica, emozionante e ricca di sfumature anche nelle note più basse, calda come ancora non avevamo sentito, giunta a maturazione come il miglior Barolo d’annata. Fulcro del gruppo è la chitarra di Michele Diamantini imbattibile sia all’acustica che all’elettrica. Tecnicamente molto preparato, sa dosare con intelligenza le proprie energie e, senza strafare, mette sempre ogni nota al posto giusto; poi, quando spinge sull’acceleratore, non ce ne più per nessuno. Il cuore pulsante è la sezione ritmica di Alessandro Grazioli al basso e Alan Giannini alla batteria, perfetta e a suo agio in ogni situazione.  Ad amalgamare il suono e a impreziosirlo con le sue parti strumentali ci pensa Alessio Raffaelli alle tastiere, il cui ingresso nel gruppo è un vero e proprio valore aggiunto, un elemento fondamentale nell’attuale suono dei Cheap Wine.
Insomma, già al primo ascolto Based on lies lascia a bocca aperta. L’attacco grintoso di Breakaway, le chitarre in resta e l’armonica fulminante di Marco Diamantini, mette subito in campo l’urgenza espressiva del testo, “I was just a runaway, back in time, feeling like a prey” , non c’è più tempo tempo, l’uragano è arrivato e ha spazzato via “heroes, flags and fairy tales, my house of cards, they were all swept away”. Waiting On The Door  è una cavalcata chitarristica che descrive alla perfezione il senso di smarrimento di chi va alla deriva nella nebbia perché ha perso ogni riferimento, si può solo procedere in avanti, verso tutte le bugie accumulate che ci aspettano alla porta.
Lovers' Grave
è una ballata dai toni allucinati, introdotta dal piano e puntualizzata da una chitarra ipnotica che ci trasporta tra le macerie di una città in rovina.
La consolazione arriva con Give Me Tom Waits, pura energia vitale, rock’n’roll della miglior specie, “I was dyin’ alone one time, then a rock’n’roll band saved my life, and we’ll play this song all night long, sing with us and we’ll get along”.
Se tutti i brani sono di ottimo livello, con la title track Based On Lies tocchiamo uno dei vertici del disco: il ritmo swingato, l’acustica a dettare il tempo e il pianoforte a ricamare, uno splendido assolo centrale di chitarra e la voce di Diamantini mai così naturale che racconta di come bisogni ribellarsi ed alzare la testa perché “We are the outlaws they say, we are the bad guys to blame, well founding a bank is a crime, and all this system is based on lies”, stupenda!
The Vampire
toglie il fiato, una ballad di oltre sette minuti, di grande intensità con la chitarra che sferza l’aria in un assolo travolgente, la rabbia che sta per esplodere è talmente palpabile che mette i brividi “and the sky is calling out my name, and my eyes are on fire, and it’s too late to cry, and to find the way back home”.
Il colpo di grazia viene dalla conclusiva The Stone, un’autostrada che taglia in due il deserto, solo polvere e allucinazioni, serpenti e pietre che rotolano, tempo lento e ipnotico “…I lost my job, my way, my soul and my name, I sleep in my car on the highway at night, sometimes I fell envy for those who died”.
Assunto del disco è che la società attuale sia fondata su menzogna e falsità, entrambe volute dall’arroganza del potere per controllare meglio i suoi sudditi silenziosi.
Ma cosa succede quando si strappa il velo della menzogna e crolla ogni falsità? Come reagire allo smarrimento e alla rabbia che travolge chi viene colpito al cuore da una crisi dai contorni sempe più ampi e perde il lavoro, la dignità e soprattutto la fiducia di poter affrontare un nuovo giorno? Trovare le risposte giuste a queste domande non è facile e forse non è nemmeno il compito di una rock band, ma a questa rabbia è possibile dare voce e i Cheap Wine con la forza della loro musica ci riescono benissimo.
I contenuti del disco veicolano un messaggio importante, testimoniano un impegno sociale che non è politico in senso stretto, ma espresso attraverso metafore che illustrano un disagio diffuso.
"Based On Lies"
è un pugno nello stomaco al sistema, alle bugie che ci vengono proprinate, è l’urlo di chi non ci sta ed ha il coraggio di gridarlo.
Se anche voi credete che un disco possa salvarvi la vita,"Based On Lies" fa al caso vostro. Ascoltatelo e, se già non lo siete, sarete contagiati per sempre dall’arte dei Cheap Wine
[ Andrea Furlan - MESCALINA]


Nasce, come dice il cantante Marco Diamantini, nel periodo più brutto della loro esistenza il nuovo disco dei Cheap Wine e i testi cupi, a tratti pessimisti ma profondamente ancorati alla precaria situazione sociale traspongono questo stato d'animo. Ma i Cheap Wine sono un grande gruppo rock e sanno che solo con una sferzata di energia, delle canzoni che siano di tutti ed il sano rumore delle chitarre ci si può opporre alla barbarie e alle menzogne che girano attorno perché loro non sono ne dei politici ne dei pifferai magici, il che spesso è la stessa cosa ma una real and true  rock n'roll band e allora "Based On Lies"è qui col suo carico di resistenza umana e artistica, con le sue ballate che  offrono nuovi orizzonti, con il suo rumore terapeutico.
Sono pochi in Italia tra quelli che hanno scelto di rimanere veramente indipendenti ad essere arrivati al nono disco, i Cheap Wine ci sono riusciti e questa è già  una dichiarazione di forza, caparbietà e tenacia. Unite poi la loro bravura sugli strumenti, la loro onestà intellettuale ed una evoluzione che li ha portati fin dove sono arrivati e avrete, come già detto in passato, una band che non teme confronti nemmeno sul piano internazionale.Non era facile dare un seguito a “Spirits” un disco che ha avuto una accoglienza sensazionale e i Cheap Wine si devono essere sentiti un po' ad un bivio, continuare su quella strada o cambiare radicalmente. Hanno scelto di seguire l'istinto, non hanno fatto calcoli e tra le canzoni registrate hanno scelto quelle che piacevano di più a loro senza pensare ad altro.
Certo l'ombra di“Spirits” si allunga su diversi brani del nuovo disco ma alla fine "Based On Lies" ha finalmente raggiunto la quadratura del cerchio: ci sono le ballate con degli squarci melodici mai così tersi e chiari e c'è l'irruenza del loro tagliente rock n'roll elettrico, ci sono gli arrangiamenti e le sfumature del pianoforte del bravo Alessio Raffaelli elemento cardine nella loro evoluzione sonora e ci sono i ganci elettrici e visionari di Michele "psychotic razor blade" Diamantini, c'è il pulsare di una sezione ritmica che è una garanzia e c'è la voce, la chitarra acustica ed il songwriting  di Marco che tengono fermi i riferimenti verso un sapiente folk-rock di matrice urbana.
Con"Based On Lies" i Cheap Wine sono ormai pronti ad allargare l'audience senza dimenticare i vecchi fans. Alcuni brani come Breakaway, Waiting On The Door, la country-eggiante The Big Blow, la stessa Based On Lies hanno l'appeal e la schiettezza per poter ottenere  una giusta attenzione da parte dei media radiofonici se l' Italia non fosse, in tal senso, quel paese di merda che é e ci sono brani come The Vampire davvero tosti, a me ha fatto venire in mente il disco di Lou Reed con i Metallica, o To Face A New Day  dove viene fuori il fragoroso Neil Young and Crazy Horse pensiero con un assolo leggendario di Michele o The Stone una ballata segnata dal banjo e da una coralità vocale che  spinge verso gli Appalachi. Senza dimenticare il graffio punk alla Freak Show di Give Me Tom Waitsed il pianoforte di Alessio che jazzeggia nella canzone che dà il titolo all'album e classicheggia in On The Way Back HomeMagari"Based On Lies" per alcuni potrà non essere il miglior disco dei Cheap Wine ma è sicuramente il più completo, quello che esprime tutte le loro sfaccettature.
[ Mauro Zambellini - ZAMBO'S PLACE ]

 

Se esiste un dio del rock... beh allora ha scelto tra i suoi profeti per il 3° millennio i Cheap Wine.
A tutti gli atei e non credenti dico: ascoltate "Based On Lies" per credere! Da 4 evangelisti del rock nel frattempo sono diventati 5 ma del resto anche i Tre moschettieri erano in 4 e nessuno si è mai scandalizzato. Non ho più aggettivi per descrivere questa band, li ho utilizzati tutti per i precedenti 8 dischi e quindi non mi resta altro da fare che meravigliarmi per l'ennesima volta davanti ad un loro nuovo disco, per rimanere in tema religioso, mi sento come la statuina del presepe, con le braccia aperte che viene posizionata solitamente davanti alla capanna. Il quinto "evangelista" suona il piano ed è Alessio Raffaelli; il suo inserimento ha dato una sterzata decisiva al suono della band.
Alan
e Alessandro rimangono i solidi pilastri che sanno giocare con la ruvidezza delle canzoni più tirate ma sanno tirare fuori anche la morbidezza nelle ballate, la chitarra di Michele (che ribadisco essere per me uno tra i 5 migliori chitarristi del vecchio continente) è forse meno sovra-utilizzata ma credo molto più valorizzata in quanto ora si può spartire il lavoro con il piano e la tastiera di Alessio, Marco ha regalato dei gran bei testi e come sempre ha utilizzato la voce come fosse uno strumento parte della band, non emergendo mai e lasciando che il sound e la voce defluissero insieme come un torrente che porta la sua acqua al mare della musica.
"Breakway" è tra i migliori inviti all'ascolto che i Cheap Wine abbiano potuto scrivere, è un uragano musicale che annuncia il suo arrivo, dapprima la chitarra, poi le keyboards, poi l'armonica e infine la ritmica che fa turbinare l'aria tutta intorno a me e sollevandomi dalla sedia e trasportato nella vertigine sonora che la band sa creare.
"Waiting On The Door
" è una cavalcata ipnotica, un sogno, è come trovarmi al largo in un mare avvolto dalla foschia e non ho paura di lasciarmi trasportare dalla corrente e dal rincorrersi di corde e di tasti bianchi e neri, anch'io alla fine mi sveglio, come Marco racconta nel testo, e mi sembra tutto ancora reale e concreto. "Lovers' Grave" sembra proseguire il filo musicale della song precedente ma si parla di inganno e di disillusione, è come camminare sulla spiaggia per poi voltarsi indietro all'improvviso e accorgersi che il mare ha cancellato le nostre impronte lasciandoci nel nulla quasi senza un passato in balia del nostro sconosciuto destino.
"Give Me
Tom Waits" è rock'n'roll, sono io, e probabilmente chiunque può trovare un po' di se all'interno di questo brano, il piano di Alessio segna il tempo e la chitarra di Michele ci regala un "solo" liberatorio; è un inno alla libertà di essere se stessi di lasciare fluire solo ed esclusivamente le proprie emozioni.
"The Big Blow" racconta musicalmente praterie sconfinate nelle quali è facile perdersi ma traccia un filo di speranza “..non è mai troppo tardi per rimettere in piedi la propria vita”.
"Based On Lies"
è la title track caratterizzata da uno swing che invita a mettersi seduto al bancone del bar a bere del Gin e ripensare alla vita, le immagini che Marco ci propone questa volta sono apparentemente flash sconclusionati alla Tom Waits che seguono un filo logico e lo portano ad affermare che "...tutto questo sistema è basato su menzogne".
"On The Way Back Home"
è una ballata che si sviluppa su arpeggi di piano, anche la voce di Marco si trasforma in quella di un crooner, il testo evocativo racconta di una sconfitta che è il fil-rouge dell'intero disco fatto di storie personali che potrebbero appartenere a chiunque e proprio in queste storie mi ci ritrovo e mi commuovo.
Si può perdere la voglia, la casa, il lavoro ci si può perdere in se stessi come racconta "Lost Inside" che riesce ad esprimere la rabbia per una sconfitta personale, una canzone nervosa a cavallo tra i '60 e i '70 che mi fa immaginare di passeggiare per le backstreets a prendere a calci lattine e bidoni senza pace, senza trovare un luogo che mi faccia star bene con me stesso perchè se uno è perso dentro di se e non è in pace con la propria anima e non troverà mai un posto dove si possa sentire veramente a "casa"; il solo di Michele è un urlo che lacera l'aria intenso e bruciante.
"The Vampire"
riabbassa i toni, ma nello stesso tempo li rende più cupi, bello l'intreccio tra chitarra e piano, ancora la voce di Marco torna a recitare, a toccare i silenzi della mia mente e mi ricorda che "lottare contro il destino è inutile" e che "è troppo tardi per ritrovare la via di casa" e ancora la chitarra di Michele ad urlare contro il cielo.
"To Face A New Day" è una fuga "La speranza è morta e i sogni sono tutto quello che ci resta per affrontare un nuovo giorno" gran pezzo, tagliente come un rasoio, di quelli che mi scoperchiano l'anima come una scatoletta di tonno.
Conclude il disco "The Stone, una ballad che toglie il fiato e lascia senza speranza, una danza che massacra il cuore e prelude alla fine di tutto!
Musicalmente i Cheap Wine sono impeccabili, le canzoni sono belle e coinvolgenti, ma questa volta i testi hanno una marcia in più.
Un disco perfettamente inserito nel contesto storico in cui è stato composto, un disco che ha lasciato un segno indelebile dentro di me. Come annotazioni vorrei fare i complimenti a Serena Riglietti che ci ha regalato un booklet bellissimo, i suoni sono belli e i nostri 5 hanno suonato alla stragrande, un'aggiunta, quella di Alessio, che ha reso completa una Rock Band che ha sfruttato il piano per intraprendere strade nuove, per rimettere in discussione il loro sound, segno questo di grande maturità e professionalità. Concedetemi di dire che in Italia... Cheap Wines Rulez!!!!
La musica forse non salva, non da risposte ai nostri perchè, non ci fa sembrare tutto più bello ma in queste 11 canzoni quello che ho trovato è consolazione, sapere che non sono il solo al mondo a provare e sentire certe cose a vivere un malessere, non è una risposta ma un conforto è come avere trovato un amico che mi capisce veramente e mi regala un grande abbraccio musicale e di emozioni condivise, "Based On Lies", da oggi, è il mio migliore amico.
[ Lele Guerra BACKSTREETS ]

 

Nelle loro innumerevoli tournée italiane Bob Dylan e Bruce Springsteen, pur senza saperlo, devono aver dato vita a parti incestuosi, nel nome del rock'n'roll naturalmente. L'Italia probabilmente è il paese che ha infatti il maggior numero di band e solisti che si ispirano in modo innegabile ai due. Band e solisti che rimangono per lo più nell'underground, anche per la scelta di cantare prevalentemente in inglese, cosa che li penalizza automaticamente nel mondo delle radio e delle tv musicali (anche se non mancano in Italia le radio rock che trasmettono in gran quantità musica anglo americana, per cui non si capisce perché i nostri debbano venir sistematicamente censurati).
Tant'è, la scena è ricca e in gran parte valida, ingiusto fare qui nomi o classifiche. Giusto invece parlare del nuovo disco dei pesaresi Cheap Wine, anche se ahimè in realtà ormai uscito da qualche mese, una delle band di questa scena che sopravvive da più lungo tempo (l'esordio su ep è del 1997) e che con il nuovo"Based On Lies"firma uno dei migliori lavori di rock italiano (ma cantato rigorosamente in inglese) dell'ultimo periodo. Tutto, in questo disco, concorre per farne un lavoro di alta classe: il sound, la capacità tecnica strumentale dei componenti il gruppo, la qualità delle registrazioni, il livello compositivo e la buona dose di onestà e sincerità che traspare  da un gruppo che sa unire in modo convincente rock garage, ballate classiche e naturalmente quei due là, Springsteen e Dylan che da dietro le spalle sorvegliano e benedicono il tutto.
In realtà, se la matrice sono que due artisti, i Cheap Wine hanno saputo recuperare e fare propria anche un'altra storia, molto più recente e poco conosciuta. Quella della scena rock americana degli anni 80, uno dei periodi di maggior decadenza per questa musica che regalò però alcuni dischi memorabili anche se passati quasi del tutto inosservati. Stiamo parlando di band come Del Fuegos o Green on Red, di cui i pesaresi sanno riaffermare il senso purissimo per il rock più stradaiolo e verace, messo giù senza compromessi e con il cuore al posto giusto.
"Based On Lies" è come un viaggio: notturno e inquietante nello scorrere nervoso e sofferto delle canzoni. E' come avviare il motore di una macchina antica ma sempre affidabile e partire verso non sappiamo dove, nell'oscurità, tra luci stradali nascoste nella nebbia, entrando di volta in volta in locali scalcinati, in stazioni di benzina abbandonate, su strade secondarie di provincia. Con noi, in questo viaggio, le canzoni, le chitarre urlanti, la voce che scorre con sottile angoscia, il senso di straniiamento, quasi fossimo dei "natural bon killer" in cerca di una redenzione impossibile. La colonna sonora per un film impossibile ispirato alle storie di Raymond Chandler.

A far scattare questo motore l'iniziale Breakaway, energica e frizzante ma sempre carica di malinconia, springsteeniana fino al midollo. E viaggio sia, tra brani furiosamente rock (straordinaria la chitarra di Michele Diamantini, capace di suscitare le memorie di un rock che credevamo morto e sepolto, specie nell'assolo finale e devastante di The Vampire) e ballate folk nel loro dna (la bella On the Way Back Home) dove eccelle spesso l'ottimo tastierista Alessio Raffaelli sia al piano elettrico (con spunti jazz nel brano che intitola il disco) che a quello classico.
Non rimane indietro la sezione ritmica (il batterista Alan Giannini e il bassista Alessandro Grazioli), sferragliante, senza sbavature e sempre incalzante. La voce di Marco Diamantini, autore anche dei testi, è vellutata e allo stesso tempo malinconica, ma sa anche ruggire, ha la capacità di rendere credibile ogni storia raccontata. Lo spettro musicale è ampio, dal rock senza quartiere sparato bello in faccia di To Face a New Day al folk antico e spettrale con tanto di banjo di The Stone, la ballata di matrice californiana, ariosa e incalzante di Waiting On The Door, o ancora il country di The Big Blow. Per poi avere ancora la voglia di riascoltare quella chitarra che fa male e bene al cuore allo stesso tempo, quella di The Vampire, una delle cose migliori che il rock italiano abbia proposto da molti, molti anni a questa parte.

[ Paolo Vites IL SUSSIDIARIO ]


L'idea per cui il sistema in cui si vive sia "basato sulle menzogne" è uno dei passaggi migliori di questo disco. "Based On Lies" è un tempo rock rotolante e morbido. Un brano che non ti abbandona. E neanche loro, i marchigiani Cheap Wine, in strada da tanto tempo senza mai mollare. Un'altra tappa carica di fascinazioni di stampo rock, sia nell'oscurità di "Give Me Tom Waits" che nel tramonto di "The Vampire" e ancora nell'adrenalinica "To Face A New Day".
Portateli con voi, non tradiranno le attese. E vi racconteranno delle cose davvero emozionanti.
[ Gianluca Diana – IL MANIFESTO ]

 

"Fondato sulle bugie"? Di sicuro il titolo non c'entra nulla con l'ormai lunga carriera dei Cheap Wine, una delle band più autentiche e oneste del sovraffollato panorama rock italiano: ragazzi divenuti uomini ma rimasti ragazzi che in un giorno di metà anni 90 decisero che, sì, la loro Pesaro poteva essere una Austin o una Sacramento, e da allora si sono lanciati a inseguire il loro sogno di America battendo statali e provinciali come se fossero blue highways, autoproducendosi i dischi (con questo sono giunti a nove, compresi un mini e un doppio dal vivo) e infischiandosene delle regole del cosiddetto business.
Com'è giusto che sia, "Based On Lies" non propone deviazioni dal consueto itinerario roots nel quale si incrociano r'n'r anche parecchio grintoso, tocchi psichedelici ora vellutati e ora aciduli, folk dai toni per lo più notturni: un percorso vario, e sempre avvincente a livello di scrittura ed esecuzioni, che apre finestre su un po' tutti gli stili affrontati dal gruppo dagli albori ai giorni nostri.
Musica intensa e sanguigna che continua a richiamare alla mente gli anni 80 di Green On Red, Long Ryders e (soprattutto) Dream Syndicate ma che si rivela brillantemente senza tempo.
Fiera della propria concretezza e del proprio cuore, e per fortuna estranea a sterili fighettismi, smargiassate da vanagloriosi e tristi mistificazioni.
[ Federico Guglielmi – MUCCHIO ]

 

Un altro disco dei Cheap Wine, ed è un altro bel disco. Suonato anche meglio di prima, con maggiore varietà stilistica all'interno del genere prediletto, il rock dei lunghi spazi, delle lunghe distanze, dell'immaginario americano di frontiera. Qui affiorano momenti che sfiorano il barrel house e perfino la ballata decadente, c'è un uso più incisivo delle tastiere, che tra le mani di Alessio Raffaelli diventano più sostanza che abbellimento, mentre la sempre magistrale chitarra di Michele Diamantini non fa un passo indietro ma si fa più matura, più consapevole, asciuga qualcosa, alterna passaggi da protagonista assoluta ad altri al servizio delle composizioni.
Un disco più complicato, più sofferto che in passato perché autobiografico fino alla spietatezza, che è la cosa che più ci piace.
Le liriche di Marco Diamantini parlano senza infingimenti, a dispetto del titolo, di fallimenti: di chi non ce la fa, proprio non ce la fa ad andare avanti, non ce la fa più, in alcun modo. E li conosciamo quei fallimenti, sono i nostri, sono quello che ci resta, sono loro che custodiamo come i nostri figli.
Così, il disco finisce per diventare polemico e politico come non mai, sia pure sotto il registro poetico, immaginifico anziché (sospiro di sollievo) direttamente “impegnato” o militante: se sei un musicista, canti, suoni: non rompi i coglioni con i messaggi. I Cheap Wine musicisti restano, e ci consegnano un album “basato sulle menzogne” ma, proprio per questo, di totale sincerità: raccontano la precarietà, il dolore, la sopraffazione come legge naturale, ma una legge che non premia il più forte quanto il più iniquo, e allora non è più legge naturale ma sociale, di una società dissociata e incomprensibile. Raccontano quello che vivono, che vedono e questa, amici miei, questa è già una impresa. Perché è sempre l'Ecce Homo, e bisogna provare, per scopire come si esce lacerati dal racconto della propri fatica.
È come morire due volte. Un disco dove gli spazi cambiano, non più quelli degli sconfinati orizzonti americani, ma altri, interiori, desolati. Altrettanto sconfinati, perché vie di uscita non se ne vedono.
Eppure loro sanno trarne materia per una confessione che diventa musica, e che musica. E che artwork. Affidato a Serena Riglietti, artista nel suo campo, il disco propone una veste intrigante, curatissima, come, forse, ormai solo le autoproduzioni possono permettersi.
Eccoli qua i Cheap Wine: per favore, non dite che sono tornati: loro in 15 anni non sono mai andati via. Sono semplicemente di quelli che non mollano. Che restano. E, cambiando, restano loro stessi. Per fortuna.
[ Massimo Del Papa Babysnakes ]

 

Devo confessarlo! Non avrei mai creduto che dopo quel capolavoro che è stato “Spirits” i Cheap Wine sarebbero stati in grado di continuare a manentere un livello compositivo ugualmente alto.
“Spirits” è stata una folgorazione, uno di quei dischi che pensi sia definitivo e che quindi il seguito non potrà essere all’altezza. Invece i pesaresi hanno dimostrato che si può mantenere e superare un certo livello compositivo.
"Based On Lies", questo il titolo del nono cd, dimostra, in circa 51 minuti, una carica emotiva e una perfezione non comune, dove il sound è privo di imprefezioni o sbavature.
Sarà stato l’innesto definitivo del tastierista Alessio Raffaelli, che si è integrato benissimo nella macchina da guerra che spara blues, a completare il sound dei membri storici: Alan Giannini alla batteria e alle percussioni, Alessandro Grazioli al basso, Michele Diamantini alla chitarra e testi e Marco Diamantini all’armonica e alla voce.
Di fatto il quintetto pesarese è in grado di sfoderare dal cilindro qualsiasi cosa ruoti attorno al genere Americana, quasi come se fosse nato negli U.S.A..
Il modo in cui sono costruite le canzoni le parti armoniche e i testi non hanno nulla da invidiare ai grandi cantautori rock di oltreoceano.
Sulla stessa lunghezza d’onda di Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen, i CW di "Based On Lies" prendono di petto le conseguenze nefaste a cui ci ha portato il liberismo economico, e denunciano, a partire dal titolo, le bugie che i capitalisti, attraverso i mass media, ci raccontano.
Tuttavia il loro stile non è sloganistico, anzi è cantautorale dunque l’incorcio di chitarre e tastiere che introducono “To Face A New Day” sono il modo più efficace per sostenere il testo che parla della paura di non avere un futuro; un brano perfettamente in liena con il successivo “The Stone”, ballata blusata con banjo sulla tragedia della perdita del posto di lavoro, talmente efficace da sembrare una outtake di “Wrecking ball” di Bruce Springsteen.
In questo disco ci sono anche diversi episodi dotati di un gran tiro rock-blues che rimandano ai primi Black Crowes, come l’iniziale “Breakway” o la traccia “Give Me Tom Waits”, una bella cavalcata rock-blues che contiene diversi stilemi classici del rock, come la fuga, la maledizione e la voglia di andare contro corrente.
Corrono senza fermarsi mai i "nostri", continuando testardamente (per fortuna) ad essere indipendenti e autarchici, dimostrando che è questo l’unico modo per restare a galla, mentre il resto del mondo sta scivolando inesorabilmente nel baratro.
[ Vittorio Lannutti – FREAK OUT ]

 

Possiamo fare gli intellettuali quanto ci pare, ma il rock’n’roll è sempre rock’n’roll. Parliamo di americana, l’unica denominazione di genere che sembra essere rimasta nel limbo dell’irrecettività. Il rock vero, Bob Dylan, Neil Young, Townes Van Zandt, Bruce Springsteen (in una certa maniera, depurata dal barocco springsteeniano dell’American Dream e dalle esagerazioni immaginifiche di sentimenti esaltati): quello stile narrativo fatto di lirismo essenziale.
Sono tutte cose che conosciamo benissimo, e che nell’innesto culturale potrebbero essere assimilate a(d un certo tipo di) cantautorato; con la differenza fondamentale che l’esperienza italiana (giustamente, e trascendendo dall’annacquamento del termine) raramente è riuscita ad avvicinarsi in maniera così precisa alla matrice originaria, alla transizione dalla tradizione spiritual alla cultura rock diffusa, e tutte quelle altre cose da Enciclopedia Arcana che avete letto a quattordici anni, comprensive di Elvis. E che però sono vere, perché il rock’n’roll è quello.
Prima della codificazione, degli affinamenti tecnici, delle deviazioni artistiche personali, il rock’n’roll all’americana ha un suo modo di essere difficilmente riproducibile ed apprezzabile se non si converge verso la giusta inclinazione. La connotazione letteraria che l’appassionato e il critico decidono di trarne fuori è, effettivamente, una forzatura; se si pensa ai testi di “Oh Mercy” o “Nebraska”, cercando di farlo liberamente da qualunque condizionamento esterno e dalla letteratura infinita che nel corso degli anni ci è stata costruita sopra, quello che rimane è di una semplicità disarmante: sono racconti, storie, percezioni, sentimenti puri, in valore assoluto. L’insieme degli elementi a contorno è solo un filtro, vale nella musica come nella vita.
I Cheap Wine fanno questo dal 1997: lavorano costantemente per filtrare testi e musica verso quel tipo di radici.  Concedetemi la romanticheria di assimilarli ai cercatori d’oro, che con pazienza e dovizia setacciano il sedimento fluviale all’attenta ricerca di un bagliore. Dal punto di vista progettuale, l’esperienza dei Cheap Wine si riflette appieno in questa (banalissima) metafora: tutto il lavoro che si legge dietro"Based On Lies" è il frutto di una ricerca accurata e diligente verso quel rock’n’roll. Il bilanciamento a favore dell’aspetto testuale, l’abbassamento dei suoni, l’introduzione delle keyboards sono il risultato di un percorso lungo e ragionato che merita ben più di un semplice apprezzamento e diventa dedizione. "Based On Lies" va filtrato, riascoltato, compreso, apprezzato, assimilato. È il punto di arrivo nell’evoluzione personale dei fratelli Diamantini, che nasce come espressione appassionata e fervente, cresce e si riequilibra; approda, nell’età adulta, verso la consapevolezza.
Ai curiosi che volessero, per la prima volta, entrare in contatto con l’esperienza Cheap Wine, questo racconto rischia anche di risultare banale: il mondo della musica non è facile, il mondo della musica indipendente non è facile, in Italia men che meno, il rock descrive un percorso di ragionamento, catarsi, ed espiazione e bla, bla, bla. Tutto già visto, e già sentito. Perché, allora, impiegarsi in uno sforzo dialettico (per di più prolisso) per descrivere una vicenda così scontata? Perché"Based On Lies"non è soltanto l’ennesima riprova della validità musicale dei Cheap Wine, ma è un esempio di coscienza, di approdo alla conoscenza vera. È un’espressione di umanità piena, che fronteggia un cambiamento costante nella sua forma peggiore, passeggiando pericolosamente tra l’implosione e la sapienza. E lo fa in una maniera musicalmente meravigliosa, quella della Paisley Underground, dell’accettazione dylaniana (e dilaniante), mantenendo l’istinto e l’ardore positivo di Moving, ma riformulandolo con una nuova sensibilità.
“Based On Lies” è un viaggio metaforico e reale (la dimensione ideale dei Cheap Wine è l’ascolto “da macchina”) in cui l’entusiasmo giovanile si ridimensiona, con amarezza, nella rassegnazione. Che non mi sento assolutamente di descrivere in maniera pessimistica, perché lo smarrimento descritto in “Waiting On The Door”, il senso di impotenza di chi è costretto a rimanere fermo, braccato dall’insistenza di un flusso immane di falsità e finzioni, sottende uno stimolo positivo, una spinta reattiva guidata dalla speranza (“Breakaway”). Tutte le sensazioni descritte in Based on Lies, se pur costantemente insidiate dai ghouls del precedente album Spirits, non abbandonano mai l’entusiasmo degli esordi; le riflessioni, le sofferenze legate all’esperienza e a una storia di quindici anni di passione per la musica, hanno la maschera del fallimento e della disillusione di chi si sente “Lost Inside”, ma sono funzionali a conoscersi e comprendersi, per tornare fortificati al punto di partenza (“On the Way Back Home”). E questa cosa, che potremmo chiamare saggezza, è radicata in ogni singolo dettaglio di un album sbalorditivo, che ripudia l’inerzia nella quale le menzogne e le convenzioni tentano di intrappolarci, combattendo ad armi pari con la parte oscura del cambiamento. Per ricominciare, in eterno movimento.
[ Marianna Sposato - SHIVER WEBZINE ]


Per chi coltiva la passione del roots rock di matrice statunitense i Cheap Wine sono da anni una garanzia, un investimento sicuro. Anche se proviene da Pesaro, East Coast italiana, la band dei fratelli Marco e Michele Diamantini (voce e chitarre, rispettivamente) mastica quella lingua con scioltezza e competenza, e quest'album - il nono di una carriera discografica iniziata quindici anni fa - è sicuramente uno dei loro migliori: "Waiting on the door", promossa da un bel video "on the road" con una Cadillac Eldorado a spasso per strade polverose, ne è un esemplare biglietto da visita, con un ritmo rollante, una timbrica vocale e uno sviluppo melodico che evocano senza scimmiottarlo un caposcuola come Tom Petty.
I Cheap Wine usano i ferri classici del mestiere, pregevoli assoli di chitarra e pianoforte, voce e melodie di impianto robusto, l'immaginario classico della strada e l'adesione allo spirito anticonformista di chi fa musica solo per passione per sciorinare rock'n'roll rocciosi e sferzanti ("Breakaway", "Give me Tom Waits"), honky tonk nelle corde di Steve Wynn e di Dan Stuart ("The big blow") e ballate penetranti (la spettrale "The vampire", una "On the way back home" anch'essa pettyana e una "The stone" che ha certi sapori antichi alla T Bone Burnett quando lavora per il cinema): tutte al servizio di testi (cantati in inglese ma tradotti in italiano nel booklet) che parlano di avidità, menzogna, precarietà esistenziale, senso di inquietudine e aspirazione a un domani migliore. Temi universali e d'attualità: non c'è bisogno di essere americani per entrare in sintonia.
[ ROCKOL.it ]

 

Un limbo.La sottile linea di spazio vuoto che divide il baratro nero degli inferi dalla luce bianca della felicità.
E' il territorio desolato in cui si muovono i protagonisti di Based On Lies, ultimo disco dei pesaresi Cheap Wine, il loro nono in carriera, che segue l'ultimo in studio “Spirits” (2009) e il pantagruelico live “Stay Alive” (2010).
Un territorio che potremmo chiamare più semplicemente realtà, mentre quei protagonisti non vanno cercati nelle vite altrui e lontane, siamo semplicemente noi, come cantava qualcuno solo qualche anno fa. Convivere con la realtà è diventato difficile: c'è chi ci riesce, anche mettendo in campo insospettabile egoismo e bieca menzogna, chi trova la salvezza in qualcosa che spesso associamo alla futilità come il nostro amato rock'n'roll, e chi sprofonda, lasciandosi tentare da vampiri assetati di vite altrui pur di campare, da chi vuole l'omologazione imperante o più semplicemente affonda nella battaglia più crudele, quella della sopravvivenza tra simili ridotti allo sbando. Una lotta alla pari, dove vince il più forte.
Un limbo in cui le speranze e i sogni di vita sembrano spesso sospesi, avvolti dalle nubi, ingabbiati in mezzo alle rovine di paesaggi desolanti. Fermi e impossibilitati nel muoversi come una pietra che dopo aver passato una vita a ricevere tanti calci, nessuno vuole più calciare. Sogni bloccati in attesa di un riscatto.
"Based On Lies" può certamente essere considerato un concept, pur non seguendo una narrazione lineare e cronologica ma avendo una uniformità nei temi trattati dove i meticolosi testi di Marco Diamantini, curatissimi nei dettagli, svolgono un compito senza dubbio significativo, grazie a piccole costruzioni cinematografiche che permettono però alle parole di avere una vita propria, lontane dalla musica, anche solo leggendole con l'aiuto delle traduzioni riportate nel libretto, vivacemente illustrato da Serena Riglietti.
Ma visto che stiamo parlando di una rock band attiva da circa quindici anni, che si è costruita una carriera con grande sforzo, impegno e passione, quello che ci interessa è la visione d'insieme che ne è uscita, l'unione con la musica, ancora una volta di gran qualità ed efficace. Oltre alle liriche e la voce di Marco Diamantini, c'è la chitarra del fratello Michele Diamantini, tesa e ficcante nei momenti più rock, come nella maestosità di The Vampire, una delle migliori tracce del disco nel suo evocare infiniti e impalpabili spazi, o nell'avanzare da "Crazy Horse" di To Face A New Day, con l'assolo finale che ci fa capire a che livelli è approdata la sua bravura.
Ci sono le tastiere e il pianoforte dell'ultimo entrato in formazione, Alessio Raffaelli, che si ritagliano un ruolo importante lungo tutto il disco, entrando subito in circolo fin dall'apertura Breakaway, una prova di squadra (completano la formazione: il batterista Alan Giannini ed il bassista Alessandro Grazioli) d'impatto, compatta ed incisiva alla Heartbreakers, nella leggerezza vellutata suonata in punta di dita trasmessa dalla swingante Based On Lies, o nell'elegante grigiore malinconico disegnato da On The Way Back Home.
Le atmosfere da antico west di frontiera che avvolgono The Big Blow, il vecchio rock garage dall'andamento beat di Lost Inside, l'apparente e ingannevole solarità di Lover's Grave e il rock'n'roll di Give Me Tom Waits non sono che alcune sfumature che i Cheap Wine danno al loro rock eterno, perchè ormai privo di punti di riferimento e divenuto, col tempo, sempre più personale e riconoscibile, muovendosi ancora fieramente nell'underground indipendente del rock italiano.
Il desolante folk finale di The Stone ci lascia ai nostri sogni, tracciando un quadro ancora dalle tinte grigio scure. Aspettando quel calcio che smuova e faccia rotolare nuovamente quella pietra dalla parte giusta. Oltre il limbo, verso la luce.
"Based On Lies" è un disco a carburazione lenta, quasi cullante, che riesce a penetrare grazie alle improvvise scosse elettriche e alle liriche scure, a volte fin troppo pessimistiche, ma che sanno graffiare e toccare i "giusti" nervi scoperti.
[ Enzo Curelli ]

 

I Cheap Wine da 15 anni e 9 dischi sono (quasi) un gruppo punk, ma a dispetto di ciò (e del fatto che non portano t-shirts bucate) e del loro nome, la loro è una musica gourmet. Dopo tutti questi anni e tutta questa strada (queste canzoni e questi show) la loro musica è definitivamente personale 100% Cheap Wine DOC, e non puoi più dire Paisley Underground, Green On Red o Willie Nile.
Però come in un prezioso piatto gourmet le loro canzoni, sempre belle e ormai sempre suonate con la maestria dei grandi, sono generose di gusti e retrogusti e sapori sottili, qui una slide guidar, qui un piano o un tocco d'organo che evocano ricordi lontani, titillano le orecchie e danno profondità all'ascolto. La band è in gran forma: una ritmica sempre urgente, che offre alle canzoni il senso dell'inno, una chitarra elettrica tagliente, e sopra ogni altro (a mio gusto) delle tastiere che corrono.
Un sound pulito ed elegante come gli Stones del 1978 ma uno spirito indomito da garage band.
Bella la voce (che in passato ha sostenuto senza difficoltà cover di Dylan), belli i cori, cariche le canzoni. Waiting On The Door, Lovers Grave, Give Me Tom Waits (give me cheap wine), potrebbero tranquillamente far parte del repertorio di band di culto come le New York Dolls o la J.Geils Band.
Il sapore di The Big Blow evoca un affascinante folk rock elettrico metropolitano, mentre il piano di Alessio Raffaelli passa sulle canzoni un new coat of paint che in Based On Lies scivola persino nel jazz e nel blues urbano e in On The Way Back Home in una romantica New York City Serenade. Lost Inside è di quel garage rock che si amava nei Fleshtones dei primi due dischi. The Vampire è un lento notturno di Detroit; To Face a New Day si apre con una chitarra da Neil Young con i Crazy Horse; The Stone chiude l'album con una ballata dissonante e maledetta che odora della sabbia dei deserti del grande ovest di John Ford e dei Wall Of Voodoo.
Un gran bel disco, una grande band. Sarebbe un peccato ignorarli.
[ Blue Bottazzi - SUONO ]

 

Nono disco e nove vite sonore per i Cheap Wine, rodata band marchigiana sulle rotte del rock viaggiante, quelle che fanno sognare con i capelli al vento e ingozzare di libertà on the road, quelle che incantano con le atmosfere del cantautorato e quelle delle nuances trasversali che arricchiscono dentro e ulteriormente "Based On Lies", un disco che pare avere il ballo di San Vito addosso – o meglio – nella fitta tracklist che spara storie, realtà, verità e stilemi con una energia ed eleganza che si apprezza e che promette piuttosto bene.
Un music box articolato e godibile che occorreva proprio in queste luminarie sociali offuscate, tracce che hanno molte letture sonore e che concitano un ascolto “ad antenne dritte” insospettabile, gattonando o emettendo fuoco vivo una volta lasciate libere di scorrazzare dentro lo stomaco dello stereo; ma anche un registrato con molti riferimenti ispiranti, che si rivolge all’Olimpo del rock come luce illuminante per le proprie mire e le altrettante sfide che man mano scorrono una dietro l’altra come correnti d’aria irripetibili.
I grandi sognatori vivono in una dimensione senza lacci, e questo registrato ne è una palese conferma assoluta, specie quando la Athens dei REM sfavilla in Breakway, il Boss in Lost Inside e The Vampire, l’Orso Young in Waiting On The Door e l’honky stonesiano che sculetta felice e spensierato in Give Me Tom Waits, e tutto assolutamente senza far cedere l’interesse d’un secondo che sia secondo, una tensione che guarda all’America con i prismi colorati del rock degli alti piani genuini.
I Cheap Wine ci sanno fare veramente, tecnica a dieci, melodia altrettanto e retrogusto ineccepibile, una formazione di mestiere che sa dove pescare il giusto per riempirci gli orecchi di suoni senza scadenza, e una volta arrivati al numero nove della loro carriera si rafforzano indagando a fondo nell’elettricità senza nascondere uno spirito tenero e malinconico che, se in On the way back home carezza il cuore, in The Stone lo trascina nel verde cupo del Mid-West delle anime perse della grande epopea yankee.
Tra le migliori produzioni self-made del circondario.
[ Max Sannella LA SCENA ]

 

Giunti al nono capitolo della loro discografia, i Cheap Wine continuano a percorrere l'unica strada che conoscono, fatta di un solido rock fieramente indipendente ed onestissimo verso chi si approccia, per la prima o l'ennesima volta non fa differenza, all'ascolto. E ogni volta che ci capita fra le mani un nuovo disco dei fratelli Diamantini, sappiamo che dovremo dedicargli tanta attenzione quanto è l'amore verso il rock profuso dal gruppo pesarese nel comporlo. In questa occasione c'era maggiore attesa visto che, nonostante la scadenza biennale rispettata, erano quattro anni che non ascoltavamo canzoni nuove.
Così eccoci a riflettere insieme ai Cheap Wine su questo mondo che ci circonda, sempre più basato sulle falsità, anche se le storie raccontate nelle canzoni sono vere e autobiografiche come non era mai accaduto in precedenza. Per questo sembra che su tutto l'album aleggi una cappa pesante di pessimismo e disillusione, parzialmente nascosta dalla gioiosità che il rock riesce sempre e comunque a trasmettere. Ecco così che sin dall'incipit brioso di “Breakaway” scopriamo come il nostro “eroe” in fuga inizia a dovere fare i conti con l'oscurità sempre più prossima e carica di quei vampiri che credevamo imperversassero solo nelle favole, e che hanno fatto un sol boccone dei nostri sogni e delle nostre aspettative. Nella successiva “Waiting On The Door” si cammina alla cieca ma si va comunque avanti perché non si ha scelta, ben sapendo che alla fine della strada ci ritroviamo soli con noi stessi e con tutte le bugie confuse accumulate che ci aspettano sulla porta di casa. E il viaggio continua fra le macerie di una città che sta cadendo a pezzi (Lovers' Grave”) cercando salvezza in una rock'nroll band ed in una canzone da cantare insieme tutta la notte (“Give Me Tom Waits”) E se brani come “The Big Blow” possono fornire uno squarcio di speranza perché “..non è mai troppo tardi per rimettere in piedi la propria vita”, bisogna trasformarsi come suggerisce la title track “Based On Lies”trasformando il cacciatore in preda. Ma è la struggente “On The Way Back Home” che ci riporta alla realtà, facendoci sentire il peso della tragedia che stiamo vivendo cercando l'ennesima via di fuga in quella tempesta che “spazzi via tutto quello che c'è di sbagliato”. Perché siamo persi dentro di noi oppressi da un dolore che ha distrutto le nostre vite (“Lost Inside”). Uno dei brani più alti del disco è “The Vampire” classica ballata elettrica  che si inserirà nel solco già tracciato da anthem quali "City Lights", "Behind The Bars" e "Murderer Song", in cui lo sguardo della nostra storia si capovolge dalla vittima al carnefice, pronto a sopprimere la sua vittima.
L'amarezza emerge ancora di più in “To Face A New Day”un brano che ci trova oramai arresi e pronti a tutto, dove “le parole vuote risuonano nell'aria come campane a morto per chi non riesce ad andare avanti in nessun modo”.
E non c'è alcuna via di salvezza in questa storia come ben espresso nella conclusiva “The Stone” perchè siamo come quella pietra scacciata dalla strada dalle ruote di un'auto e siamo così quando si perde il lavoro, la propria strada, la propria anima, il proprio nome.
Bisogna fare un plauso a Marco Diamantini, per come ha saputo esprimere in versi ed in maniera così egregia la disillusione e l'amarezza di una generazione tradita e stuprata come non mai da un potere sempre più avido e che non mostra nessuna pietà verso i più deboli.
Musicalmente ci sono diverse piccole differenze rispetto al passato, con le tastiere  di Alessio Raffaelli (ultimo arrivato in casa Cheap Wine) e che dà un ottimo apporto anche in fase compositiva, in maggiore evidenza, la chitarra superba di Michele Diamantini meno sovrastante del passato, per un effetto finale più coeso e completo. Se proprio vogliamo trovarci un difetto potremmo dire che molti brani ricordano altri del passato, ma non succede lo stesso con Dylan, Springsteen e gli Stones?
Based On Lies
è un disco profondamente rock e classicamente Cheap Wine
, che raccoglie e somma quindici anni di duro e fiero lavoro volto ad affermare che in Italia può esistere ed avere credibilità un rock classico nel suo incedere, e che guarda ai modelli U.S.A. (Dylan, Young, Wynn. Stuart, Springsteen ecc.) con il dovuto rispetto, e con la fierezza della propria piccola originalità, che fa dei Cheap Wine il migliore gruppo rock italiano.
[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]

 

Quindici anni di carriera, una discografia alla soglia dei dieci episodi, è quasi offensivo continuare a considerare i Cheap Wine una bella promessa del rock'n'roll italiano. Il corpo musicale che hanno costruito pezzo dopo pezzo in questo lasso di tempo va oltre la semplice tenacia di una band "ai margini", loro destinati sempre a sgomitare un po' di più degli altri, soltanto per avere scelto una via non convenzionale e assai poco battuta nella penisola. I Cheap Wine sono dunque una grande, solida realtà, punta di diamante di un sottobosco di musicisti che finalmente guarda alle radici del rock'n'roll senza soggezione, con naturalezza e talento. E "Based On Lies" è un disco che, pur non stravolgendo le coordinate del loro sound, riesce ancora a spostare di qualche centimetro più in là l'asticella della loro ispirazione. Non solo perché Marco Diamantini (non finiremo mai di sottolineare come sia sottovalutata la sincerità dei suoi testi, semplici nelle immagini quanto profondi nei riflessi) è riuscito ancora a trovare un'interessante chiave lirica alle canzoni di Based on Lies, ma anche perché l'ingresso in pianta stabile di Alessio Raffaelli ha immesso nuova linfa nella struttura rock del gruppo, caratterizzando con il suo pianoforte momenti melodici un tempo inediti.
Simboleggiato dalle particolari illustrazioni di Serena Riglietti, che accompaganno l'artwork, Based on Lies mostra per l'ennesima volta una forte progettualità, senza per questo scadere in un noioso concept: è sempre stato così anche in passato per i Cheap Wine e non fanno eccezione oggi le parole di Waiting on the Door e The Big Blow, della stessa title track, di una feroce To Face a New day (stilisticamente la più affine al suono livido del passato), fino all'amara chiusura in abito dark country di The Stone ("a volte provo invidia per quelli che sono morti" canta Marco Diamantini), dure, oneste, a tratti impietose riflessioni sull'attuale crisi della società occidentale, su un mondo per l'appunto basato sulla menzogna, sulla manipolazione della realtà, portando alla lotta dell'individuo contro l'individuo. I Cheap Wine sviluppano queste storie senza retorica e men che meno salendo in cattedra, evitando insomma il rischio di una velleitaria lezione: al centro resta l'autenticità, anche intima, delle parole e soprattutto il sound diretto e credibile del rock.
Da questo punto di vista Based on Lies è solo in apparenza un passo indietro rispetto alle trame più acustiche e "roots" di "Spirits". Se Breakaway e il suo grondante rock da strada maestra sono un ponte con il passato, avviluppata fra organo e armonica, già il piano elettrico di Waiting on the Door accompagna una lenta ballata bluesy che cerca più i chiaroscuri, forse risultando troppo irrisolta, approdando però al saltellante piano da saloon di una Lover's Grave da orizzonti western. Da qui la ricordata centralità di Raffaelli nel disegnare nuove traiettorie per la band, mentre le chitarre di Michele Diamantini cercano oggi spazi più accomodanti, meno protagonismo e semmai un'intesa con l'essenza della canzone. Give Me Tom Waits dunque scalpita sulle ali di un southern boogie dove piano e slide guitar si scambiano suggerimenti, The Big Blow ritorna sui sentieri selvaggi che furono di Johnny Cash e Bob Dylan, Based on Lies si ferma per la notte in un motel blues e qui vi trova la lugrubre The Vampire, mentre On the way Back Home esce allo scoperto con un pizzico di malinconia, ballata dolcissima che si apre in un crescendo elettrico finale.
[ Fabio Cerbone ROOTS HIGHWAY ]

 

Ogni volta che sta per uscire un album dei Cheap Wine mi incazzo. Poi, quando finalmente me lo ritrovo per la prima volta tra le mani, l'incazzatura aumenta. E, infine, l'incazza
tura di cui sopra si sviluppa su binari esponenziali dopo il primo ascolto (quello più generico e superficiale ma anche concreto e indicativo, a pelle e di stomaco…) e in quelli immediatamente successivi (quelli di 'studio' e di penetrazione, di cervello quando funziona e di mestiere se c'è…) per assumere caratteristiche quantitative piuttosto notevoli (sempre la solita incazzatura…) circa 3-4 mesi più tardi.
E anche questa volta, adesso che ho tra le mani in anteprima "Based On Lies" (ma il cd è già in vendita sul sito ufficiale della band), la tortura si ripete per l'ennesima volta: considerando il fatto che seguo i Diamantini Bros & Co. fin dall'esordio, potete ben immaginare che 'a causa loro' mi sono incazzato quasi quanto mi fanno imbufalire 'ogni giorno' i bastardi che parcheggiano sui posti riservati ai disabili (senza se e senza ma!), quelli che maltrattano gli animali e tutti i nostri garantisti della vita quotidiana che insegnano a non rispettare le leggi e, soprattutto, le regole della convivenza civile all'insegna del 'tanto, lo fanno anche gli altri'.
Ebbene, le due cose sono strettamente legate perché nella nuova uscita dei 'Tavernello' c'è, come sempre, un analogo impegno tanto nelle musiche (e là, si sa, sono impareggiabili maestri che arrivano dalle stilettate Paisley…) quanto nei testi. Testi, reperibili anche in italiano nel booklet interno, impegnati socialmente e moralmente al di là di ogni forma di etichetta ideologica che potrebbe garantire loro ampi e facili spazi sui quotidiani schierati o sulle riviste di partito.
Sono testi tanto veri quanto reali, partoriti tutti dalla creatività di un Marco Diamantini che, dietro al microfono, somiglierà anche in maniera inquietante al giovane Tom Petty ma che, penna alla mano, non nasconde profonde e sensibili influenze dettate dallo studio, dall'applicazione costante e dalla capacità di tenere gli occhi aperti. Testi infarciti di influenze artistiche, letterarie, cinematografiche e socio-politiche (ma non strettamente ideologiche).
I testi non si spiegano, si leggono: e io eviterò commenti in questo senso. Procuratevi il cd e leggeteli da voi! Di certo, non troverete slogan populisti o insulti militanti, facili armi per ottenere visibilità e furba dignità artistica non solo in questi tempi.
Secondo un cammino progressivamente sempre più esplicito fin dai tempi di 'Freak show', infatti, il nuovo 'concept album' dei pesaresi (non nel senso delle opere rock Sixties e Seventies con tanto di suite e passaggi strumentali per unire le parti non sempre in maniera omogenea ma, semplicemente, con brani tutti collegati come tappe di un solo ed inquietante viaggio…) ci introduce in un mondo piuttosto ostile e pericoloso. Benvenuti nella realtà!!!
Per quanto riguarda le musiche e il risultato complessivo, invece, ci troviamo a fare i conti con l'album forse più immediato dei C.W.: orecchiabile (in senso positivo e non in termini radiofonici), incalzante, vario e curatissimo.
I C.W. sono sempre loro ma sono consapevoli di essere al giro di boa: è questo il momento della verità! E l'augurio è quello che possano riuscire nel loro intento nonostante il rispetto e il supporto delle riviste specializzate che, purtroppo, come ben sappiamo in Italia si rivolgono a un numero ristretto, ristrettissimo di lettori: nel nostro Paese 'tutti' hanno la musica come hobby ma, a differenza per esempio di filatelici o numismatici (che curano le loro 'reali' passioni attraverso mostre, incontri, scambi, approfondimenti, riviste di settore e convegni), la esprimono ascoltando la radio….
Ma è inutile dirlo a chi leggerà queste righe e che la sua scelta passionale e culturale l'ha già fatta da tempo. A chi leggerà queste righe, invece, è rivolto l'invito ad avvicinarsi a questo lavoro dei Cheap Wine che, fin dall'attacco del primo brano 'Breakaway', risulta prepotentemente accattivante con le chitarre garage e l'armonica di Marco a introdurne la voce, più calda e meno tagliente del passato e soprattutto mai come in questo caso messa in evidenza dal mixer quasi fosse un album cantautorale. Il tentativo di regalare drammaticità al tutto è evidente ma anche di esaltare i testi di un gruppo che in passato veniva spesso etichettato solo per le sue invidiabili qualità di musicisti dei singoli componenti.
Troppo frettolosamente etichettati agli esordi come i 'Dream Syndicate nostrani', tornano comunque dalle parti di Steve Wynn, Karl Precoda e soci con la ballata ('Waiting on the dooor'), ormai legata al videoclip horror-esistenzial-campestre che vi invito a cercare anche su queste frequenze.
Questa volta mancano le classicissime e interminabili ballatone in crescendo con la chitarra di Michele Diamantini lasciata libera di galoppare nel deserto rarefatto, biglietto da visita sempre assai gradito ai 'die hard fans'. Piuttosto, il suo talento alla sei corde viene equamente ripartito tra tutti i complicati ma scorrevoli passaggi nei quali si inserisce sempre a fagiolo il piano di Alessio Raffaelli: dall'intro della passeggiata sbarazzina di 'Lover's Grave' con accenni ai Dire Straits dei tempi che furono, fino al r'n'r di 'Give Me Tom Waits' che non si limita a un titolo da sbancare X Factor (eh già…) ma si traduce anche in un potenziale must da concerto che fa muovere i piedi e scuotere il culo.
La sezione ritmica, Alan Giannini seduto e Alessandro Grazioli in piedi, non perde un colpo ma non invade mai la scena. Regala profumi di localacci ma anche sberle da juke joint, un pressing degno di un Johnny Cash insolitamente dinamico ('The Big Blow') e persino un autocontrollo di matrice zen in 'On The Way Back Home', altalenante 'straccia mutande song' che tanto sarebbe piaciuta al Bob Seger più ispirato.
Se la title track arrivasse da Vinicio Capossela tutti griderebbero al miracolo (anche senza mescolare le acque con citazioni ridondanti e giochi circensi per confonderle all'infinito); se le sostenute 'Lost Inside' e 'To Face A New Day' con i loro giri di chitarra fossero state partorite dai Chesterfield Kings, una pagina di 'Mojo' sarebbe già opzionata per venerare i nuovi Kinks e i tanto venerati Jet non sarebbero spariti di scena dopo un quarto d'ora, noti per aver esaltato a dismisura i critici che recensiscono gli album con le 'veline' delle case discografiche sottomano.
'The Vampire' merita invece un discorso a parte e fa capire che, per creare angoscia e pathos insostenibile, non serve necessariamente abusare con gli psicofarmaci su una situazione già compromessa (vedi il povero Roky Erickson) mentre la conclusiva e inconsueta 'The Stone' sarebbe tanto piaciuta a Sergio Leone per uno 'spaghetti western' da dirigere magari in coppia con Sam Peckinpah qualora il maestro Morricone e Ry Cooder fossero stati impegnati altrove.
Ecco, dannati Cheap Wine: mi avete fatto incazzare ancora una volta!
[ Daniele Benvenuti ]

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Stay Alive!
CD: "Stay Alive!" (2010)

This double album is Cheap Wine's first official live release adding to their canon of seven previous albums during their 16 or so years together.
Although they're an all Italian band, all songs are sung in English, and they sound like they've emerged from the plains of the mid West. Whilst they're a rock band in the traditional sense, with vocals, guitars, drums, bass and keyboards, they convey a sense of artistic style that makes them stand out from the plethora of artists peddling their wares.
Containing over two hours of music and 21 songs taken from their back catalogue and of which 19 were written by the main protagonists, the Diamantini brothers, this album covers a wider gamut that takes their music out of the expected rock spectrum and veers them on occasions into Americana territory. Obviously influenced by Springsteen and Neil Young, who have 'Youngstown' and 'Rocking In The Free World' covered respectively, Cheap Wine don't rest on the same old tired clichés so many other bands rely on. 'Among The Stones' introduces some dobro, which adds to what would have been otherwise a fairly routine song; the interplay with the instrument and the lead vocals brings it to life. 'Evil Ghost' rocks like its life depends on it, with some excellent searing lead guitar, after a tranquil start.
This seems to be Cheap Wine's modus operandi, starting quietly and peacefully, with a penchant for ballads, which and build into arena rockers. They give 'Youngstown' a run for its money and have managed to outrock even Springsteen.
Proving that they're not wedded to their modus operandi, 'Reckless' kicks off loud and proud, and doesn't give any quarter as it rampages through the set list. Following in quick succession, 'Time For Action' continues in the same vein, whereas 'Snakes' brings back more shade, without losing the rawk!
I'm at a loss as to why I hadn't heard of these guys until now, but I'm off to check out their back catalogue. You'd be wise to do so too.
[ Phil Edwards – AMERICANA UK ]

 

Geduld gehört nicht zu meinen Tugenden und so musste ich mir, nachdem mir ihr aktuelles Album "Based On Lies" so vortrefflich gefallen hat, die Italiener von CHEAP WINE bereits vor ihrer baldigen Deutschland-Tour einmal in Live-Fassung anhören. Gelegenheit dazu bietet ihr 2010 veröffentlichtes Doppelalbum "Stay Alive".
Die Sorge, im Bühnenbetrieb könnte eine Gitarre zu wenig sein, zerschlägt sich schnell, denn Sänger Marco Diamantini wirft sich live sowohl elektrische wie akustische Gitarren über die Schulter und unterstützt Bruder Michele dadurch bei dessen Lead-Gitarren-Arbeit. Vor allem im vorderen Teil der Show kommen verstärkt akustische Instrumente zum Einsatz, was Marcos Stimme noch mehr in den Vordergrund rückt und schon in dem angejazzten Just Like Animals wieder die Querverweise zu Tom Petty und Elliott Murphy auf den Plan rufen. Tolle Soli von Michele Diamantini, die den Song, nach eher ruhigem Beginn, ganz schön die Sporen geben.
Es ist nicht nur die Slide-Gitarre, die The Sea Is Down so sehr in die Nähe zu den BLACK CROWES rückt. Auch nicht nur die druckvoll geblasene Mundharmonika, oder das hämmernde Piano. Es ist diese Energie, dieses gekonnte Steigern der Dynamik und die Leidenschaft, mit der die Band sich hier "reinkniet". Diese Leidenschaft drückt sich, wie in Circus Of Fools, auch mal in einer melancholisch angehauchten Midtempo-Ballade aus. Sowohl Drummer Alan Giannini, als auch - und besonders - Alessio Raffaelli am Piano wissen hier zu glänzen. Die flotte Country-Folk-Nummer A Pig On A Lead nimmt einen mit, auf einen Ritt über den Highway, auf dem man erneut, oben genannten, Murphy (in Murderer Song und Among The Stones), den frühen Bruce Springsteen (Nothing Left To Say) und den späteren "Boss" in dessen Youngstown mal überholt, mal vorbeiziehen lässt.
Mit dem furiosen Shakin' the Cage rockt es dann so richtig ab und die erste CD endet mit heftigen Riffs, kreischender Harp und einem unablässig treibenden Rhythmus, während im Hintergrund die Orgel pumpt. Da bricht man fast zu Hause schon in Schweiß aus!
CD 2 geht gleich in die Vollen. Da hämmert das Honky Tonk-Piano, da fliegen die verzerrten Riffs und stampft der Drummer gnadenlos. Dance Over Troubles liefert, mit der Zeile "stay alive", nicht nur den Albumtitel, sondern auch einen fast brachialen Einstieg in den zweiten Silberling und Michele Diamantini nutzt reichlich seine Solo-Freiheiten.
Auch bei Reckless bleibt der Fuß auf dem Gaspedal und erneut ist es die Lead-Gitarre, die das Feuer hier noch höher lodern lässt. Geht geil ab!
Zwischendurch kommt doch mal wieder die Akustische raus, wie im, an Neil Young erinnernden, Snakes, welches letztlich dann doch mehr Richtung DOORS driftet. "Geschuldet" der charismatischen Art von Sänger Marco.
Zwischendurch wird es, beispielsweise in Loom And Vanish, auch mal etwas sphärischer, jedoch mit dem treibenden Blues-Boogie Leave Me A Drain geht’s wieder Richtung Party-Time.
Da wird dann auch öfter mal der Song eher zurückhaltend auf der Akustikgitarre begonnen, doch alsbald hält die Italiener nichts mehr und sie rocken wieder ordentlich ab. Lediglich die City Lights bieten noch einmal die Chance auf eine - dennoch spannungsgeladene - Pause. Derb und heftig rifft und rockt es anschließend in der Freak Show, mit fast schon punkiger Attitüde und nachdem in Jugglers And Suckers absolut rock'n'rollig "abgerechnet" wurde - ein nass geschwitztes Publikum dürfte da mittlerweile vor der Bühne stehen - lassen CHEAP WINE noch ein donnerndes Rockin' In The Free World über die Besucher niedergehen. Ol' Neil wäre sicher stolz auf diese Jungs.
Ein weiterer Grund sich CHEAP WINE in Bälde live oder/und auf Konserve zu geben. Manchmal ist der "american way to rock" gar nicht so weit weg, wie man meinen könnte.
[ Epi Schmidt – HOOKED ON MUSIC ]

 

 

"Centinaia di concerti, migliaia di chilometri, decine di corde rotte, di bacchette spezzate, fiumi di birra, abbracci stritolanti, risate incontrollate, personaggi pazzeschi, follia in libertà nel cuore della notte, esplosioni di adrenalina, energia a tonnellate, diluvi di sudore….. che cosa si nasconde dentro un concerto rock?"
I Cheap Wine tentano di spiegarcelo con questo doppio CD intitolato semplicemente ed eloquentemente Stay Alive! due ore di rock senza tregua con le chitarre a palla e i ritmi pazzeschi che ricrea la magia di un loro show con tanto di set acustico, ballate al neon e rock n'roll al serramanico.
Registrato in tre location differenti nell'aprile del 2010 al Fuzz di Pesaro, allo Spazio Musica di Pavia e al Teatro Zeppilli di Pieve di Cento Stay Alive! è la dimostrazione che anche in Italia pulsa un cuore rock, basta cercarlo fuori dai circuiti ufficiali e nelle strade secondarie.
Bisognava abbattere un tabù, quello di registrare in Italia un disco di rock dal vivo che avesse le prerogative e le caratteristiche del grande live ovvero ricreare l'energia e l'impatto emotivo di un concerto senza finire nel dilettantesco e nella testimonianza amatoriale. Nonostante il gruppo pesarese non possa contare su un budget da major e su amici che contano, con i mezzi tecnici adeguati alle possibilità e una produzione in proprio i Cheap Wine ce l'hanno fatta e ci consegnano un live che rimarrà nella storia del rock in Italia.
Un live ben fatto, registrato come si deve, che trasmette a pieno la carica di un loro show ed esplicita con la ricchezza degli arrangiamenti i lavori ancora in corso nel gruppo che qui, con l'aggiunta del pianista e tastierista Alessio Raffaelli, raggiunge uno status di rock n'roll band internazionale.
Stay Alive! non è solo il classico live che un gruppo mette in cantiere per coronare una carriera, e i Cheap Wine se lo meritano, vista la lunga e difficoltosa strada percorsa, ma più specificatamente è la misura di quanto questa band è maturata, migliorandosi e aprendosi verso temi e suoni che hanno allargato il loro range espressivo ed il loro set. Sarà difficile allungare questo percorso non perché i Cheap Wine non siano in grado ma perché il livello raggiunto è davvero eccellente e per migliorarsi ancora occorrerà uno sforzo davvero notevole.
Due CD, più di un'ora ciascuno. Si comincia con una parte elettroacustica, come da copione nei recenti show del gruppo. Spirits non è passato invano e ha portato nuova linfa al loro scenario musicale, le ballate sono avvolgenti e gli intrecci di chitarre acustiche una delizia.
Just Like Animals, The Sea Is Down, Circus Of Fools, A Pig On A Lead, le riletture di Murderer Song e Among The Stones, una Nothing Left To Say che con piano e armonica si apre alla Jungleland e la rincorsa delle chitarre di Among The Stones creano uno stato di palpabile attesa con atmosfere sospese tra folk, blues, ballads e melodie che verrebbe voglia di abbracciarsi.
Poi arrivano le chitarre elettriche e la storia cambia. Gli abbracci si fanno sempre più fisici e sensuali, l'erotismo degli assoli di Michele Diamantini diventa lo specchio di un rock crudo, folgorante, psichedelico a tratti, underground.
Marco Diamantini tiene ferma la barra delle ballate ma è duro timonare una barca che è ormai una ciurma inebriata di rock'n'roll. Sono sventolate elettriche in un vento di burrasca, Evil Ghost è un ballatone che finisce al Fillmore West, Shakin' The Cage è un semi-punk lanciato a mille, Youngstown parte riflessiva e lenta per poi trasformarsi in un urlo di ribellione con un crescendo ad hoc, ottima cover per un gruppo che non ha mai nascosto una sincera sensibilità sociale.
Devastante il secondo CD, con lo show (ottimo il montaggio dei tre spezzoni diversi) che sale fino a catapultare l'ascoltatore dentro un pericoloso vortice sonoro. Qui i Cheap Wine non fanno prigionieri, sono duri, rabbiosi e metropolitani,figli dei giorni del vino e delle rose.
Il pianoforte di Raffaelli è il valore aggiunto, un po' lirico e un po' honky tonk, le chitarre distorcono, basso e batteria martellano cattive, una dopo l'altro arrivano i classici del loro live set, da Dance Over Troubles, Time For Action e Freak Show presi dall'omonimo album a Snakes, Move Along e City Lights (il consueto ed esaltante piece de resistence chitarristico) presi da Moving, da Leave Me A Drain fino all'irrinunciabile finale corale di Rockin' In The Free World.
Un Live da avere se si ha a cuore le sorti del rock'n'roll in Italia.
[ Mauro Zambellini – BUSCADERO ]

Un doppio LIVE è un lusso che pochi gruppi si possono permettere, soprattutto quando è composto da 19 brani originali su 21, è un testamento indelebile che resta nella storia di una rock band, pensiamo a Made in Japan dei Deep Purple o a Live at the Fillmore est degli Allman Brothers Band per citarne due a caso o al recente triplo Mullenium dei Gov’t Mule. I
Il doppio live, così come l’hanno concepito i Cheap Wine, è un monumento alla musica della band, è un'opera coraggiosa e preziosissima  dove è racchiusa tutta la loro storia dal 1997 al 2010, 13 anni costellati di grande musica, di straordinaria passione e di incrollabile tenacia, una musica che è cresciuta, mutata, cambiata ma che ad ascoltarla adesso, tutta d’un fiato, non risente degli anni sulle spalle e risulta granitica, un marchio di fabbrica di una band che dimostra di aver raggiunto una grande personalità, una propria identità, una di quelle che l’ascolti e dici… azz!! i Cheap Wine.  
In questo credo stia la grandezza e la bravura degli amici pesaresi, nell’essersi negli anni, creati un loro “sound”, un imprinting musicale che li distingue dalla massa di band presenti in italia e diciamolo pure… nel mondo!
Molto di questo lo si deve a Michele Diamantini, la sua chitarra è emozionante è da lì che nasce, ed è su di lui che ruota, il suono Cheap Wine, attorno a lui prende vita e respiro ogni brano, è sopra le sue sei corde, che siano montate su una chitarra acustica o su una elettrica poco importa, che il brano prende forma, e quando scatta la scintilla, la canzone prende vita, ognuna ha la sua anima, ognuna la sua storia, che assume sfumature diverse da un live all’altro, è lì che Alan Giannini alla batteria e Alessandro Grazioli al basso, sentono che è giunto il momento di chiudere gli occhi e di lasciare scorrere la musica dentro di loro e lasciar andare i talentuosi arti ad acrobazie sonore inenarrabili.  
Ascoltare questo disco è come tuffarsi in un oceano che da un momento all’altro sai che potrebbe trasformarsi  ed allora è bello cavalcare quelle onde che piano piano diventano sempre più alte e minacciose ed a quel punto non resta altro da fare che tuffarsi dentro quelle onde, lasciandosi sommergere e risucchiare da quel tumultuoso vortice di note.
La voce di Marco Diamantini è uno strumento aggiunto, non sovrasta, non primeggia, accompagna le melodie e segue l’onda è li a raccontare delle storie mentre noi veniamo travolti dall’efflufio di note, come il canto delle sirene che ci guida all’interno di questo turbine di suoni dal quale veniamo investiti, trasportandoci verso emozioni incredibili.
Lo dico senza retorica e “piacionismo”, sono veramente in pochi a suonare così!
Il valore aggiunto di queste pagine di rock scritte col sudore, è Alessio Raffaelli che con il suo piano si amalgama alla perfezione al sound dei Cheap Wine risultando così la quadratura del cerchio nei brani nei quali è presente.
Parlare dei singoli “pezzi” risulterebbe superfluo,  il muro di suono si alza mattone dopo mattone trovando la sua apoteosi nei 12′ di Loom and vanish, i nostri si trovano alla perfezione, tecniche sopraffine, una amalgama costruita dall’unione tra i membri del gruppo e dalle ore passate insieme a suonare e a condividere la loro passione per la musica, zero sbavature, scelta del materiale ottima, playlist azzeccata suoni fantastici, cosa dire… questo Stay Alive è una pietra miliare del rock a mio avviso EPICO!
Grazie ragazzi (e lo dico con la “Z” romagnola) per averci regalato tutto questo, alla fine resta la sensazione di sazietà come quando davanti ad un buffet riccamente fornito, si è assaggiato tutto con gusto, ecco i Cheap Wine non ci hanno fatto mancare niente, che cos’è il rock’n'roll? Ascoltate Stay Alive ed avrete la risposta!
[ Lele Guerra BACKSTREETS ]

 

Negli anni settanta il doppio album live era una cosa seria, un appuntamento cruciale per tutti, grandi e piccoli artisti. Era la piena realizzazione di un'idea (Allman Brothers Band), il canto del cigno (Led Zeppelin, Lynyrd Skynyrd, Little Feat), per alcuni lo zenith di un periodo creativo inimitabile (Van Morrison, The Band), per altri invece l'occasione per farsi notare dopo tanti album di poco successo (Bob Seger). Il doppio album live era generalmente inteso come il greatest hits definitivo di un artista, e di fatto per molti poteva tranquillamente sostituire tutta la discografia in studio (si pensi agli Outlaws o alla J Geils Band). Oggi ormai, dopo l'era delle jam-band, degli instant-live e del bootleg come prodotto discografico riconosciuto, il live stesso è diventato un semplice documento e non più uno strumento marketing da studiare a fondo e con attenzione. Eppure esiste qualcuno che ancora ha pensato un doppio album come il punto di arrivo di un viaggio, il prodotto che potrebbe anche annullare tutti i precedenti. E ci fa piacere che a pensare ancora in vecchio stile siano proprio i marchigiani Cheap Wine, band che abbiamo seguito fin dalla nascita di questo sito (il nostro archivio segnala ben 12 articoli su di loro in 10 anni, tra recensioni, resoconti live e interviste), e la cui continua maturazione artistica è culminata con l'ultimo Spirits. Stay Alive! è un doppio cd pensato come i vecchi doppi vinili di una volta, ha una divisione in 4 facciate ben riconoscibile, e soprattutto è pensato come IL live dei Cheap Wine, e non UN semplice live della band.
I brani da richiedergli nei concerti ci sono tutti, il "lato A" è quasi tutto dedicato a ribadire la bontà del repertorio recente, quanto ad esaltare la bravura alla chitarra acustica di Michele Diamantini. Considerato che la voce del fratello Marco sembra non poter dare di più se non essere comunque profonda e molto credibile per interpretazione, è proprio la esponenziale crescita della sua chitarra che finisce a farla da padrone, soprattutto quando - come succedeva sempre nei doppi live che si rispettino - nella terza e quarta facciata i tempi si dilatano e arrivano le lunghe cavalcate (la sequenza Snakes - Loom And Vanish abbatte ogni frontiera tra lui e un vero guitar-hero), ci si lascia andare al blues (Leave Me A Drain) e al rock barricadero (Move Along).
Ma alla fine quello che rende Stay Alive! il loro disco definitivo è il fatto che spazia in tutta la loro discografia, recuperando perfino Among The Stones dal primo album A Better Place del 1998, ma ricordandosi di quanto era devastante Reckless (era su Crime Stories del 2002) o esaltando la vena cantautoriale di Freak Show dando via libera al piano di Alessio Raffaelli in Nothing Left To Say.
In ogni caso 19 brani su 21 vengono dal loro repertorio, e davvero non si nota nessuna differenza qualitativa tra vecchi e nuovi, a testimonianza di un corpus di canzoni che si è mantenuto sempre di primissimo livello, indipendentemente dalla loro crescita di musicisti (anche la sezione ritmica di Alan Giannini e Alessandro Grazioli ormai può dirsi tra le più affidabili del nostro paese).
Le cover sono dunque solo due, Bruce Springsteen (Youngstown) e Neil Young (Rockin' In The Free World) e servono solo a ribadire la propria appartenenza di campo, ma se si fossero staccati dal seno di mamma evitandole, non ci avrebbero tolto nulla.
Bene, bravi e….no, niente bis stavolta. Stay Alive! è un live di quelli seri, per cui chiude, cementa e definisce la fine di un'era, e non necessita di repliche. Di solito a questo punto negli anni 70 succedeva che le band o si scioglievano in mille progetti solisti, o provavano svolte artistiche tra l'astruso e l'azzardato, o semplicemente intraprendevano un nuovo emozionante percorso.
Se sarà così, noi saremo sempre lì dove andranno i Cheap Wine, ma prima lasciateci riprendere da questa festa.
[ Nicola Gervasini ROOTS HIGHWAY ]


I Cheap Wine non hanno bisogno di presentazioni, per loro parlano dieci anni di rock, i loro splendidi dischi, i concerti, la passione ma soprattutto il coraggio e la caparbietà di andare avanti restando orgogliosamente indipendenti, e non perdendo mai la capacità di saper emozionare i loro ascoltatori. La loro carriera è stato un crescendo, vissuto maturando di disco in disco, fino all’ultimo album in studio Spirits, un disco come se ne fanno pochi in Italia soprattutto se si decide di scrivere brani in inglese.
A celebrare il decennale della loro carriera è arrivato finalmente un disco dal vivo, Stay Alive!, un doppio disco, pensato come fosse un doppio lp in vinile diviso in quattro facciate ben distinte. Un disco live mancava nella loro discografia non fosse altro che per testimoniare la qualità e la bellezza dei loro live act, ma soprattutto mancava un disco che in qualche modo sintetizzasse le anime di questo gruppo. Non ci sembra una scelta casuale che il primo disco sia incentrato maggiormente sui brani dalle atmosfere acustiche, nei quali si ha modo di apprezzare i fratelli Diamantini al vertice della loro ispriazione con Marco ormai front man navigato e Michele impeccabile e versatile chitarrista.
Nel corso dell’ascolto dei due dischi si ha la sensazione di assistere ad una crescita progressiva del suono che con lo scorrere dei brani si fa sempre più elettrico e ricco dal punto di vista strumentale, fino ad arrivare al travolgente uno-due delle cavalcate chitarristiche Snakes e Loom And Vanish.
Nel mezzo ci sono incursioni nel blues con Leave Me A Drain, nel rock con la title track dello splendido Move Along, ma soprattutto non mancano alcune perle come Among The Stones dal disco di debutto e la travolgente Reckless tratta da Crime Stories.
Il vertice del disco lo si raggiunge prima con il rock-country di A Pig On A Lead e poi con Nothing Left To Say, uno dei pezzi più riusciti di tutta la loro produzione.
Se mai ci fosse stato bisogno di una conferma, Stay Alive!, è la piena dimostrazione di come i Cheap Wine siano ormai una band matura e senza dubbio in grado di poter misurarsi senza affanni anche su circuiti internazionali e questo soprattutto per la coesione che si è creata nella band.
I fratelli Diamantini dimostrano di saper custodire l’anima del gruppo, ma non da meno sono anche Alessio Raffaelli al piano, e l’impeccabile sezione ritmica composta da Alan Giannini ed Alessandro Grazioli.
Dopo il lungo excursus in tutta la discografia del quintetto marchigiano, ovviamente non potevano mancare due cover d’eccezione, che omaggiano i due numi tutelari del gruppo ovvero Bruce Springsteen (Youngstown) e Neil Young (Rockin' In The Free World), manca Bob Dylan ma poco importa, dato che i Cheap Wine si erano già sdebitati in passato.
Stay Alive! è dunque un punto importante d’arrivo per i Fratelli Diamantini e soci, ma siamo certi, che questi ragazzi hanno ancora tanto da regalarci in termini di emozioni e grandi canzoni.
[ Salvatore Esposito – BLOGFOOLK ]



Volevano (e dovevano…) farlo da un sacco di tempo, e alla fine si sono decisi: a tredici anni dal debutto discografico con il mini-cd "Pictures", i Cheap Wine hanno pubblicato il loro primo cd registrato in concerto.
Doppio, perché è giusto che sia così e poi… perché no?, ed eloquentissimo nel raccontare in ventuno tracce una bellissima storia di dedizione e devozione al rock'n'roll finora snodatasi – dopo il mini cui si è poc'anzi accennato – in sei album rigorosamente autoprodotti e in un'infinità di esibizioni che, per questi ragazzi che con gli strumenti in mano sono intanto diventati uomini, non bastano però mai.
Il materiale di "Stay Alive!" proviene da tre di esse, tenute nello scorso aprile a Pieve di Cento, a Pavia e nella Pesaro che al gruppo ha dato i natali: due sole cover, ma di quelle che stendono ("Youngstown" di Bruce Springsteen e "Rockin' In The Free World" di Neil Young) e per il resto solo episodi autografi le cui musiche sono opera di Michele o Marco Diamantini, con quest'ultimo autore di tutti i testi. Testi che sono naturalmente in inglese, perché i Cheap Wine hanno l'America nella testa e nel cuore e qui lo rimarcano con musica ora più grintosa e ora più carezzevole ma sempre ispirata, ben congegnata e carica di passione, con la ritmica a dare la spinta, le chitarre a creare la magia e le tastiere – ci sono anche quelle – ad aggiungere preziose sfumature. Chi ama il rock a stelle e strisce non può proprio mancare questa celebrazione.
[ Federico Guglielmi – MUCCHIO ]


Da tempo non ascoltavo un disco come questo nuovo doppio dal vivo dei Cheap Wine, registrato nell’aprile del 2010. La band marchigiana è maturata incredibilmente, specialmente negli arrangiamenti e nella qualità delle composizioni, ponendosi ormai ai vertici della scena rock europea. Non sto scherzando! Il primo dischetto, incentrato sulla produzione più recente, è semplicemente perfetto. La voce calda e insinuante di Marco Diamantini e la raffinata chitarra del fratello Michele guidano l’opener Just Like Animals; poi il suono si inasprisce nello splendido boogie The Sea Is Down, nel quale emergono il prezioso piano dell’ospite Alessio Raffaelli (dei riminesi Miami & The Groovers), una slide paludosa e l’armonica di Marco. La ballata Circus Of Fools e le atmosfere da frontiera americana dell’evocativa A Pig On A Lead (la chitarra acustica di Michele e il piano si completano alla perfezione) completano il poker di brani tratti da Spirits, il recente indispensabile disco in studio della band. Ma ogni brano merita una citazione: l’intensa Murderer Song, la cantautorale Nothing Left To Say (quell’inizio di armonica e piano è un evidente richiamo a Springsteen, anche se la voce ricorda Steve Wynn), la gloriosa Among The Stones tratta dall’esordio del 1998, l’evocativa e malinconica Evil Ghost con un emozionante crescendo strumentale di slide e piano, una bella cover di Youngstown, lenta nella parte cantata, trascinante nella lunga coda strumentale e la ritmata Shakin’ The Cage.
Il secondo dischetto è più elettrico e trascinante, con tracce provenienti in prevalenza da Moving del 2004 e Freak Show del 2007 che evidenziano ancora di più le qualità prorompenti della chitarra di Michele. Il cambiamento di clima si percepisce in Dance Over Troubles che parte con un riff potente, accoppiato con il piano rock‘n'roll di Raffaelli, l’armonica e la voce di Marco e un assolo di chitarra distorto il giusto; un’impressione confermata nella sparata Reckless, un rock punk tiratissimo. Il resto si mantiene su ottimi livelli, ma una citazione è inevitabile per il fulcro del dischetto, il tour de force della strepitosa Loom And Vanish, un brano epico con un inizio acustico che si sviluppa con un progressivo crescendo, raggiungendo l’apice nel magnifico assolo di Michele.
Un doppio live degno dei classici degli anni ‘70; il riassunto glorioso della storia di una band che, se provenisse da Seattle o da Birmingham, godrebbe di ben altra considerazione e popolarità.
[ Paolo Baiotti – LATE FOR THE SKY ]

 

Qui bisogna esagerare proprio: Stay alive! è un doppio cd memorabile. E i Cheap Wine sono una band (italiana) come sogna ogni amante del grande rock, quello robusto, chitarroso, chiamatelo vintage oppure semplicemente bella musica sulla strada che dagli Allman Brothers arriva ai Black Crowes. Suonano come non ce n’è in un disco live autoprodotto, più riflessivo nella prima parte e più scatenato nella seconda, tutti brani inediti salvo Youngstown di Bruce Springsteen e una spaziale Rockin in the free world di Neil Young. Per capirci, nel mondo è raro trovare band di questo livello emotivo e strumentale, con un chitarrista come Michele Diamantini, agile e virtuoso, e un cantante, il fratello Marco, ruvido e mai noiosamente protagonista. Qui in Italia ce l’abbiamo ma pochi ne parlano. Complimenti.
[ IL GIORNALE ]

Dopo tredici anni e sette cd (compreso il primo Ep “Pictures”) i pesaresi Cheap Wine giungono al loro primo live.
Ritengo che non sia una banalità sottolineare proprio il fatto che questo live sia giunto dopo oltre un decennio di assidua ed intensa attività musicale, tra lavori in studio e on the road, dato che molte band sfornano il loro primo live dopo tre o quattro cd e al massimo dopo dieci anni, mentre i pesaresi hanno un concetto del live classico e quasi sacrale, nel senso che un disco dal vivo si fa uscire dopo un certo percorso.
“Stay alive!” giunge ad un punto della carriera del gruppo che sembra un apice, dopo il quale speriamo che i CW continuino a salire, dato che “Spirits” (il loro ultimo lavoro in studio e del quale sono presenti molti brani in questo live) è sicuramente il loro disco migliore.
Altro aspetto importante che caratterizza questo coinvolgente e splendido disco è il fatto che si tratta di un doppio, proprio come i grandi live della storia del rock: “Made in Japan”, “Live at Fillmore east”, ecc. Ragazzi non pensate che io stia delirando, se ho citato i live dei Deep Purple e degli Allman Brothers Band, perché l’intensità, la profondità e l’asciutezza del sound che emerge da queste ventuno tracce non hanno nulla da invidiare ai live citati.
Su ventuno brani diciannove sono della band e due sono cover, si tratta di “Youngstown” di Bruce Springsteen e di “Rockin’ in the free world” di Neil Young, rilette entrambe in maniera coinvolgente e tirata.
I pesaresi hanno voluto attingere da tutti i loro Cd e sostanzialmente emerge che nel primo cd i brani siano maggiormente strutturati sull’elettroacustico, rispetto al secondo più elettrico. Ai quattro membri storici si è aggiunto Alessio Raffaelli alle tastiere, che impreziosisce ulteriormente molti brani riuscendo a portare il sound del gruppo nei territori già ampiamente battuti dai Black Crowes.
“Stay alive!” è un disco perfetto e completo, perché in questo disco i CW hanno fatto emergere maggiormente, rispetto ai lavori in studio, la loro vena blues. Tutto il disco, infatti, ruota tutto attorno al blues, sviscerandone le varie sfaccettature, dalle ballatone di “Murderer song” e “Circus of fools”, ai rock-blues, in stile corvacci di Atlanta di “Dance over troubles” e “Jugglers and suckers”, alla graffiante “Snakes” o ancora ad una “Leave me a drain” che in questa versione assume delle sembianze da mastodontico rock-bues.
“Stay alive!” è il disco perfetto per tutti gli amanti del rock più genuino e sanguigno. Good vibrations a tutti!!!!!
[ Vittorio Lannutti – ROCK ON ]


Doveva arrivare, ed è arrivato. Doveva, perchè i nostri meravigliosi Cheap Wine, i migliori in Italia per “un certo tipo di rock” (cioè il rock, punto e basta), se la meritavano proprio questa autocelebrazione.
Doveva, perchè in 15 anni di attività non hanno mai smesso di restare liberi e nemmeno di crescere. Doveva, perchè per loro essere vivi è essere dal vivo.
Doveva, perchè vanno ascoltati così: a volume alto. E si precipita in una carrellata di brani autografi, insieme a due omaggi a Springsteen e Neil Young, suonati come loro sanno fare, senza un attimo di respiro né di noia, ogni nota ne chiama un'altra.
E alla fine ti ritrovi appagato da un senso di pienezza, di ispirazione, di cose fatte bene, con scrupolo, con amore, proprio come deve essere, e dici tra te e te: a volte insistere è l'unica cosa da fare, insistere senza etichette, senza case discografiche, senza preoccuparti di nient'altro, insistere punto e basta, insistere per esistere.
Hanno fatto bene i Cheap Wine a non lasciare mai, a restare vivi. E questo doppio disco su tre concerti è un regalo che fanno a loro stessi per farlo a noi. Genuinamente fatti in casa, niente calcoli, niente sbandate. Niente e nessuno che andasse a dirgli: “Sì, però dovreste...”.
Dovete solo sentirli. Non picchiano neanche così duro. Come tutti quelli che sanno suonare “dentro”, si prendono i loro tempi. Le sfumature e tutto il resto. Sono elettrici ma sembrano acustici, roba che solo i bravi possono permettersi.
E sono bravi. Non sono più un segreto Marco Diamantini, voce e chitarre e armonica, Michele Diamantini, voce e chitarre, Alan Giannini, percussioni e Alessandro Grazioli, basso (con Alessio Raffaelli ospite alle tastiere), sono solo un tesoro ben riposto: chi vuole, lo può scoprire, chi non vuole vada a pigliarselo in culo e si tenga Capossela, Ligabue o Lady Gaga. Ammesso di riuscire a distinguerli.
[ Massimo Del Papa Babysnakes ]


E' il primo live ufficiale dei pesaresi. La band capitanata dai fratelli Diamantini centra il bersaglio con un doppio registrato nell'aprile 2010 in tre location differenti, il Fuzz di Pesaro, lo Spazio Musica di Pavia e il teatro A. Zeppilli a Pieve di Cento: oltre 2 ore di musica, un libretto fotografico di 12 pagine realizzato da Renato Cifarelli in bianco e nero, 19 brani originali e 2 cover ("Youngstown" di Bruce Springsteen e "Rockin' In The Free World" di Neil Young).
Da una parte rock elettrico, rovente, pulsante, talvolta psichedelico, dall'altra una sorta di magica alchimia con arpeggi e suoni delicati: il graffio del rock'n'roll e la suggestione delle parti acustiche.
Semplicemente delizioso.
[ Aldo Pedron – JAM ]

 

"Dopo tredici anni di carriera e sette dischi all'attivo i pesaresi Cheap Wine hanno deciso di regalare ai fan e agli amanti del rock classico duro e puro il primo album dal vivo, registrato durante tre differenti esibizioni. Pescando principalmente dai precedenti "Moving", "Freak Show" e "Spirits", il quartetto marchigiano (con l'aiuto di Alessio Raffaelli alle tastiere) propone ventuno brani del proprio repertorio (fatta eccezione per le cover ottimamente eseguite di "Youngstown" di Springsteen e "Rockin' In The Free World" di Young) in formato disco doppio tra divagazioni acustiche, affondi elettrici e tanta passione da vendere. La meritata celebrazione di uno dei gruppi cardine della scena indipendente italica.
[ Alessandro Bonetti - ROCKERILLA ]

 

"E' così raro ascoltare rock'n'roll suonato da italiani… Anche per questo i Cheap Wine sono preziosi, perché hanno saputo interpretare una tradizione universale in modo originale.
Quando qualcuno che non li conosce chiede confronti o paragoni, non sai mai chi indicare: Dream Syndicate? Neil Young e i suoi Crazy Horse? Il Paisley Underground losangelino? Sono già oltre. Il quartetto pesarese racconta di partigiani degli Appennini e di fughe in avanti di chi ha la provincia negli occhi e la città nell'anima. Cantano in inglese però, e forse questo è considerato uno scandalo nel Paese del cuore, sole, amore.
Tornano, i Cheap Wine, con un eccellente disco dal vivo, "Stay Alive!", autoprodotto. Un doppio cd che fa il punto sulla loro produzione sciorinando brani nuovi ("A Pig On A Lead", "Leave Me A Drain") e altri già divenuti classici (tipo "City Lights" e "Dance Over Troubles") tra i sempre più numerosi fan. Prossimi show il 22 dicembre al Caffè Scorretto di Parabiago e il 23 a Pontresina (Svizzera)
[ Mauro Gervasini - FILM TV ]

Lo confesso. Ho dovuto togliere "Stay Alive!" dall’auto perché per ben 3 volte ho rischiato l’incidente. Mi sono beccata qualche accidente da chi mi è venuto a trovare in questo periodo perché lo stereo era un TANTINO alto e non avevo sentito il campanello di casa. E i vicini? Che si fottano e vadano al circolo del liscio!
Insomma, questo live s’aveva da fare. E loro, i Nostri, ce lo hanno donato con il cuore pulsante di rock‘n’roll, come ogni cosa che fanno. Registrato nel corso dell’anno al Fuzz di Pesaro, al Teatro "A. Zeppilli" di Pieve di Cento (dove la sottoscritta era presente) e all’ormai mitico Spaziomusica di Pavia, "Stay Alive!" testimonia la potenza e la maturità di un gruppo che si è fatto le ossa soprattutto dal vivo e che negli anni ha raggiunto livelli inarrivabili per l’Italia del "rock‘n’roll is dead’" Ottimo il book con le foto del bravo Renato Cifarelli, oramai una presenza fissa ai concerti dei Nostri.
Il primo dei due cd, elaborato in studio magnificamente e con pochi lavori di sovraincisione (segno che questa band dal vivo è DAVVERO grande) si apre con ‘Just like animals’, oramai il pezzo di apertura di ogni concerto dei CW da qualche tempo a questa parte. La bella sorpresa è Alessio Raffaelli, preso in prestito ai Miami & the Groovers. Non è la prima volta che i CW si avvalgono di strumenti aggiuntivi che rendono sicuramente più ricco il loro suono e anche qui la scelta delle tastiere si rivela ottima. Il primo cd ti si schiude piano piano nella mente, con Michele che dosa le chitarre in  maniera magistrale, per poi esplodere in una versione molto sentita di ‘Youngstown’ di Springsteen, dove da un momento all’altro ti aspetti la voce del Boss duettare con quella di Marco.
‘Evil ghost’ è MERAVIGLIOSA, in parecchi concerti dei Cheap Wine a cui ho assistito non penso mi sia capitato di sentire una versione così bella di questa canzone. ‘Nothing left to say’ con intro alla ‘Jungleland’ è altrettanto splendida quanto inaspettata.
Buona la scelta di non registrare l’introduzione parlata all’inizio di ogni canzone perché se dal vivo questa cosa funziona (e per i nuovi arrivati è un modo per capire meglio l’universo CW), per noi veterani sarebbe un po’ noioso ogni volta sentire la stessa storia sul cd.
Il secondo cd, DEVASTANTE, si apre con ‘Dance over troubles’ (è da qui che i CW prendono il verso che da il titolo all’album), per poi farci rimanere impietriti davanti ad una ‘Reckless’ e ad una ‘Jugglers and suckers’ che non lasciano superstiti (e se la mia fine è questa non chiedo neanche di essere risparmiata!). E via di seguito, una canzone dietro l’altra come un colpo di fucile, neanche il tempo di riprendersi dalla scarica di rock‘n’roll che ci viene riversata addosso dai Nostri. Ricordo con particolare interesse ‘Snakes’ e ‘City lights’ oramai diventati dei classici, con l’armonica di Marco che fende l’aria come un’accetta. Il famigerato secondo cd si conclude con il loro cavallo di battaglia, ‘Rockin in the free world’ che mi dicono sia anche stata accorciata (!)…
A mio parere il cd si doveva chiamare ‘Stay live’ perché arrivare vivi in fondo a questo album è dura, è veramente dura, perché questi ragazzi hanno una potenza dal vivo inimmaginabile.
E se qualche gestore di locale fosse ancora dubbioso sul farli suonare o no, che si beva ‘a good glass of cheap wine’ ascoltando questo live e ogni dubbio sparirà. Altrimenti che si unisca ai vicini di cui sopra per un giro di liscio.
[ Miss D GRANNY TAKES A TRIP ]

 

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Spirits
CD: "Spirits" (2009)

I have to say, you get better and better with each release. I love this one
[ Al Perry ]

LA LIBERTA' DI ESSERE I CHEAP WINE
Che bel disco, i Cheap Wine. Che subiscono inevitabilmente la Nemesi degli artisti di razza: una nascita arrembante e inquieta, poi la fase degli inni, in cui si vuole abbracciare il mondo, infine quella della riflessione, che il mondo lo accarezza e lo taglia. Ci siamo: le canzoni – comprese le due cover, del tutto personalizzate - si fanno sempre più intarsiate, certosine, orgogliose e, se posso dire, perfino indifferenti al resto dell'ambiente, un contesto che non significa più niente per loro, fatto com'è di millantatori da X Factor o da giurati a Venezia. Loro, i fratelli Marco e Michele Diamantini da Pesaro alla composizione e chitarre, con Alessandro Grazioli al basso e il nuovo arrivato Alan Giannini ai tamburi, avanti per la loro strada, polverosa ed epica come una Route 66, inquietante e misteriosa come un crocicchio, accidentata e maledetta come una sotterranea, e alla fine, ovviamente, c'è un garage e un bar colmo di liquori. Dove altri perdono ispirazione, i Cheap Wine ne acquistano. Dove tutto diventa mestiere, loro moltiplicano la passione. Come sempre, tutto da soli, tutto fatto in casa questo Spirits così fragrante e aromatico, dalla confezione fino agli aromi di slide, di acustiche pizzicate, di dobro, di cori armonici. Io credo che ormai i Cheap Wine si siano convinti di una cosa: d'esser tremendamente bravi, e che non gliene frega più un cazzo del circo musicale di imbecilli e di cialtroni, dei servi che li magnificano, dei tromboni incapaci di scovare la musica vera. La loro è un'highway deserta e assolata, dove viaggiano, ridono, piangono, sognano, s'incazzano e si sbronzano da soli: assorbono e risputano canzoni sempre più sicure, sfrontate, e libere, nel loro album più bello.
[ Massimo Del Papa Babysnakes ]

"Spirits" è meravigiosamente Rock
per tutta la durata del disco ti solleva da terra
con leggerezza scopri sonorità e mondi a te sconosciuti
emozioni che sai di poter vivere perchè sensibili ad una umanità in cerca dell'utile mentre riconosce l'inutile
che si incontra ogni giorno
la capacità del viaggio solitario alla scoperta di immagini
di colori della terra e dei suoi angoli bui dove di solito trova rifugio il Genio.
Grazie ancora una volta per la vostra musica.
[ Giuliano Del Sorbo www.giulianodelsorbo.it ]

Al di là del fatto che, in Italia, la sinistra sembra possedere un fiuto speciale per tutte le battaglie sbagliate, in occasione della recente manifestazione per la libertà di stampa mi sono chiesto se il problema fosse in effetti l'eventuale limitazione di questa. Di sicuro qui da noi ci sono monopoli, interferenze e conflitti d'interesse grossi come case (case? grattacieli!), tre fattori che, intrecciati, costituiscono sicuramente un problema da non sottovalutare, ma più che una stampa non libera direi che in Italia abbiamo una stampa di merda tout-court. Se il potere politico pretende degli scendiletti, ebbene, nel dna di buona parte dei nostri giornalisti dev'esserci una tendenza irresistibile a diventarlo.
Per fortuna ci sono eccezioni che vale la pena seguire e difendere, come nel caso della buona musica. Per quanto la penisola, nel corso degli anni, si sia dimostrata piuttosto refrattaria nei confronti di certi suoni made in Usa, automaticamente identificati con un tipo di reazione imperalista sovente reale solo nei neuroni sfibrati di chi la denuncia (un problema culturale che non approfondiremo mai abbastanza), l'Italia non soffre il problema dell'assenza di una rock'n'roll band da esportazione: ce l'ha, ce l'ha da quasi quindici anni, solo che non se n'è ancora accorta. Altrimenti qualche carica delle istituzioni avrebbe interpellato, che so, l'Unesco, e perlomeno proposto una seria tutela di simile patrimonio.
Ecco, i pesaresi Cheap Wine dei fratelli Marco e Michele Diamantini vanno avanti con la pazienza, le incazzature e la testardaggine dei bravi giornalisti. Lavorano di fino sulla qualità dell'inchiesta (pardon, dei dischi) e pretendono che ognuna contenga qualcosa di più, e di diverso, rispetto alla precedente. Freak Show, due stagioni orsono, ce li aveva consegnati energici, febbrili e contrassegnati da inedite sfumature glam. Spirits arriva dopo la defezione dello storico batterista/grafico Francesco "Zano" Zanotti e il conseguente arruolamento dell'altrettanto valido Alan Giannini: si tratta di un disco ambizioso, ricco di intonazioni differenti come mai prima d'ora, da ascoltare con particolare attenzione sia sotto il profilo dei testi sia nell'articolarsi di un suono che, pur figlio delle esperienze anteriori, riesce nel non facile compito di svelare un lato inedito del gruppo senza snaturarne il fondamento. Potrei definirlo un concept, ma non amo il termine e non credo lo amino neppure i Wines, sicché mi limitero a dire che Spirits guarda alla desolazione del presente come potrebbe, o vorrebbe, fare ciascuno di noi, sbarrando gli occhi eppure tornando a chiuderli per sognare, radiografando il cuore squartato di una società (dove il concetto di responsabilità e impegno nei confronti della collettività sembrano essersi dissolti in un grumo agghiacciante di cinismo, disinteresse, rapacità e coercizioni) eppure continuando a seguirne il battito, piangendo una lacrima per il destino degli emerginati eppure cercando di coinvolgerli in un canto liberatorio che li accompagni fino alla fine del mondo.
Resta, nella contemporaneità afflitta di Spirits, l'alto valore civile e ideale di chi non abbassa lo sguardo e non piega la testa, restano le piccole resistenze di ogni giorno, restano i ribelli e i sognatori, resta l'inferno personale di una donna sconfitta dalla vita - Suzanne Valadon, musa di Henri de Toulouse-Lautrec - che ispira alcuni tra i quadri più belli di un grande pittore dell'ottocento, resta la presenza spettrale di un uomo dal lungo cappotto nero per il quale "la gente non vive né muore / la gente si limita a galleggiare", resta il coraggio dei partigiani che ci hanno regalato libertà e Costituzione, restano le imprese zingaresche del bandito Pancho che i federali asserivano di poter acchiappare in qualsiasi momento e se non l'hanno fatto, si suppone, fu solo per gentilezza. La bellezza del disco sta nella sua capacità di veicolare decine e decine di storie e messaggi senza mai ricorrere a uno slogan o a una frase fatta, nemmeno negli episodi (penso alla fantasmagoria orwelliana di Just Like Animals o alla beffarda cronaca partigiana di una A Pig On A Lead dedicata al faentino Silvio Corbari) dove la retorica parrebbe dietro l'angolo.
Avrete letto in giro che Spirits è il disco "roots" dei Cheap Wine, quello dove si dispiegano soluzioni acustiche di ogni genere e il mordente del r'n'r lascia spazio a sfumature tra folk e country. Tutto vero. Però intendiamoci: come i Greateful Dead sembravano suonare acustici anche con la spina attaccata, così i Cheap Wine mantengono un feeling selvaggio e urticante anche in chiave (quasi) unplugged. Basterebbero l'incredibile baraonda rock-blues di The Sea Is Down, con una slide - il "solito", incredibile Michele Diamantini - che ulula e ringhia senza tregua, il boogie deragliato e psicotico della sferzante Leave Me A Drain o la sibilante elettricità che scorre sotto la pelle metropolitana di La Buveuse (occhio alla tromba di Gigi Faggi) per rassicurare circa la persistenza di uno straordinario coefficiente rockista nella scrittura dei Cheap Wine.
Nondimeno, stavolta, oltre a una Man In The Long Black Coat (Bob Dylan) e a una Pancho & Lefty (Townes Van Zandt) più realiste del re (ovvero superbamente notturna e funerea la prima, folkie e luminosa come una mattina di primavera la seconda), a colpire sono la stupenda dolcezza country-rock di Dried Leaves e Lay Down, il sensuale blues notturno di Just Like Animals, l'epos semiacustico di una A Pig On A Lead che potrebbe saltar fuori da un disco della Nitty Gritty Dirt Band (!), gli arpeggi delicatissimi di Circus Of Fools; colpiscono, insomma, tutti quei pezzi che volutamente si staccano dal canone della band senza rinnegarlo, solo esplorandone una diversa facciata.
In fondo, cos'è Spirits se non una celebrazione in punta di plettro dell'essenza stessa del rock'n'roll e della sua capacità di trasformarsi in uno strumento insostituibile di resistenza e rivoluzione? I Cheap Wine ce lo dicono sin dal titolo: perché lo spirito, anche per noi laici senza rimedio, è quello che non muore.
[ Gianfranco Callieri ROOTS HIGHWAY]

Spiriti inquieti, spiriti dell’alcol. Personaggi reali, immaginari, eroici, miserabili, animaleschi, ordinari, tormentati. Il dubbio, l’incertezza, il destino imprevedibile, l’effimero, la sensazione disarmante di non avere più punti di riferimento,di tirare avanti per inerzia con una cappa di smarrimento e di inutilità che pervade ogni gesto, perché-come dice Bob Dylan in Man In The Long Black Coat- la gente non vive e non muore, la gente semplicemente galleggia”.
Man In The Long Black Coat è una delle due cover, assieme a Pancho & Lefty di Townes Van Zandt del nuovo disco dei pesaresi Cheap Wine, disco che segue di due anni il precedente Freak Show. Ed è un disco molto diverso. Come è abitudine dei Cheap Wine una linea sottile, una specie di concept, lega i brani dei loro album in una sorta di circuito tematico, nel precedente lavoro era la metafora del freak show che denunciava un mondo che andava al contrario in cui i pagliacci erano ( e sono) al potere, i mediocri in trionfo, i millantatori applauditi, la falsità elargita ed invece l’intelligenza torturata e la verità estinta, in Spirits il tentativo di redenzione è rappresentato da due personaggi a cui sono dedicate due canzoni. Il primo è Silvio Corbari, giovane partigiano faentino con un talento per la recitazione ed il travestimento che durante la Resistenza “giocò” i fascisti e liberò il paese di Tredozio con un autentico coup de fou. La storia è narrata in A Pig On A Lead (i testi sono tutti inclusi nel booklet interno al CD, confezione e foto splendide) la canzone che è un po’ il manifesto di questi nuovi Cheap Wine (se ne è andato Zano Zanotti, batterista e grafico ed è subentrato Alan Giannini) molto più orientati verso un intrigante suono acustico su cui svettano gli arpeggi e gli assoli della chitarra acustica di Michele Diamantini. Uno dei momenti topici dell’album A Pig On A Lead, una ballata fresca dal tono zingaresco dove oltre alla stellare cavalcata acustica di Michele e alle percussioni di Giannini, si fanno apprezzare la voce ispirata di Marco Diamantini ed il bell’inciso di violino di Luca Nicolini.
Il secondo personaggio del disco è “La Buveuse” ovvero la modella Suzanne Valadon, nome d’arte di Marie-Clementine Valide, lei stessa pittrice a madre di Maurice Utrillo, ritratta dal pittore francese Henri de Toulouse Lautrec. Più che a La Buveuse, a cui è dedicata la canzone dallo stesso titolo, l’omaggio va Toulouse Lautrec, un artista tanto famoso quanto scomodo e denigrato dai suoi contemporanei per aver rappresentato senza edulcorazioni la “feccia” e i perdenti della sua epoca ovvero i miserabili, gli emarginati, le prostitute ed i frequentatori di bordelli.
A differenza di A Pig On A Lead, La Buveuse è un brano principalmente elettrico, che gode di un mirabile lavoro di basso da parte di Alessandro “fruscio” Grazioli ma di un’ elettricità contenuta, un talking lento ed ipnotico, loureediano, accompagnato dalle distorsioni della chitarra e da uno azzeccato arrangiamento con la tromba (Gigi Faggi) che proietta il brano in un mondo notturno ed un po’ peccaminoso, ai confini del jazz e del primo Tom Waits. Bastano questi due episodi per comprendere quanto i Cheap Wine siano cambiati, quanto siano lontane la aggressività e la cruda immediatezza di Freak Show ed invece Spirits brilli proprio per gli umori riflessivi, la varietà e la ricchezza degli arrangiamenti e per un sound che se da una parte non ha completamente dimenticato l’estemporaneo graffio rock n’roll dall’altra si è aperto a più luminosi orizzonti con l’introduzione di suggestive parti acustiche .
Il lato rock si diceva, non è andato perso, i Cheap Wine non potrebbero farne a meno, è nella loro natura, nelle loro origini, nei loro concerti. Ecco quindi brillare le chitarre elettriche in Leave Me A Drain dove si ritrovano i paesaggi di un rock urbano asciutto e duro, quello del loro medicine show sporcato di psichedelia oppure sentire il lamento blues della slide che introduce The Sea Is Down, un brano che parte con John Campbell e arriva ai Led Zeppelin. Ma non sono queste le novità introdotte da Spirits e che fanno di quest’album quello “più ascoltabile” dell’intera discografia dei Cheap Wine. Piuttosto il mezzo tempo bluesy dell’introduttiva Just Like Animals o l’intermezzo strumentale di Alice, una sorta di esercizio con la chitarra acustica che mi ha rammentato immediatamente la Little Martha degli Allman in Eat A Peach oppure le tre ballate che in qualche modo identificano il suono dell’album. La ariosa Circus Of Fools rinfrescata da visioni cavalleresche e da un english mood alla Robyn Hitchcock, l’autunnale e romantica Dried Leaves contrassegnata dal lavoro in sottofondo delle tastiere di Alessandro Castriota e Lay Down, altro momento “alto” di del disco, delicata e riflessiva canzone sul riappropriarsi del tempo e della vita, degli sguardi e delle parole, in contrapposizione alla frenesia e follia dei giorni nostri.
Poi ci sono le cover, Man In The Long Black Coat è offerta con tutto il suo carico di avvolgente mistero, le sue ombre sinistre, le sue lentezze, l’armonica quasi western di Marco. Assomiglia molto all’originale di Oh Mercy!, Marco canta con enfasi, Michele acuisce il noise chitarristico ma sostanzialmente più che un’interpretazione è una (bella) imitazione, Pancho & Lefty è toccante, timidamente eroica, punteggiata da una tristezza affascinante che la chitarra acustica, la voce qui in basso profilo di Marco e le backing vocals tengono ancorata al crepuscolo di un orizzonte americano.
E’ la degna fine di un disco che scava sotto le apparenze del rock nudo e crudo e va a muovere le emozioni più nascoste e personali. Spiritsè il disco della maturità anche umana dei Cheap Wine.
[ Mauro Zambellini – BUSCADERO ]

Probabilmente i Cheap Wine sono la più internazionale tra le Rock-Bands italiane. Questo è il loro disco più maturo, un lavoro sentito e completo, senza tentennamenti o battute a riprendere il fiato. Ed è così che “Spirits” va preso, assorbito tutto in una volta fino al gran finale di “Pancho and Lefty”, passando attraverso vibranti ballate, delicati inserimenti acustici e drastiche sfuriate chitarristiche. La band dei fratelli Diamantini è sempre stata convincente dal vivo, ma questo album supera ogni loro lavoro precedente. Una evoluzione evidente che, ad un primo ascolto, sembra condurre su strade diverse dall'approccio ai contenuti sonori cui la band di Pesaro ci aveva abituato, durante questi circa dieci anni di attività. E' solo un'impressione, perchè l'apparente ricorso ad una strumentazione meno elettrificata e a ritmi più pacati e sonnolenti, in realtà, nella scoperta diretta e profonda dei brani, svelano che lo spirito è sempre quello e la tensione tutt'altro che attenuata. Un disco che cresce nel tempo, che non si fa controllare facilmente e che una volta assimilato colpisce allo stomaco senza pensarci due volte. Oltre alla già citata cover finale, emerge una versione riarsa ed assolata di “Man in The Long Black Coat”. Ma anche i brani originali sono decisivi per fissare un giudizio più che positivo sull'album. Tra tutte, trovo irresistibile il refrain di “Dried Leaves”, ma amo molto i tempi pigri ed indolenti di “Lay Down”, l'eccentricità blues di “La Buveuse”, le ballate dalle ampie aperture “Circus of Fools” e “A Pig on a Lead”, passando per le sfuriate slide di “Leave me a drain”. Non per caso un disco che sta ricevendo un mare di critiche positive e lusinghiere, peccato che l'assoluta idiosincrasia alla qualità, da parte dei media in generale, releghino i Cheap Wine in una specie di limbo artistico che non meritano assolutamente.
[ Massimo Massimi - Outlive Magazine ]

Osservati più volte dal vivo in questi ultimi anni i Cheap Wine avevano aggiunto una forte impronta folkie ad una cospicua parte delle loro esibizioni, un cuore acustico che sembrava condurli verso nuove direzioni. Spirits è la conferma di questa trasformazione, pur rispettando tutte le qualità e le suggestioni della loro musica: per capirci, i quattro pesaresi restano un inguaribile macchina rock nell’animo, soltanto con lo sguardo rivolto oggi alle ombre, alle radici del loro suono, ad una scarnificazione blues e folk (possiamo definirla roots?) delle loro composizioni, con un occhio di riguardo agli arrangiamenti, alle sfumature, alla musicalità dei testi che in passato era meno evidente (ma forse covava sempre sotto le ceneri).
Esce dunque allo scoperto il disco più singolare, coraggioso, azzardiamo pure “adulto” della loro produzione, quest’ultima divenuta ormai centrale per un’intera scena, quella di una rock’n’roll music di matrice americana che in Italia continua bellamente ad essere ignorata per partito preso.
Spirits
mostra le velleità di un concept, seguendo un tema portante di ogni lavoro discografico dei Cheap Wine, rivolgendosi a questo giro verso le inquietudini, l’oscurità, i tormenti delle anime… anime perse, ribelli, sognatori e combattenti, prendendo spunto sia da un immaginario fantastico ed allegorico (e Marco Diamantini continua di disco in disco a crescere come autore, ora come non mai impossibile da sottovalutare) sia da episodi e personaggi storicamente presenti nella memoria.
Accade infatti che A Pig On A Lead sia direttamente ispirata dalla figura del partigiano Silvio Corbari, le cui vicende sono narrate anche dallo scrittore Pino Cacucci in “Ribelli”, così come La Buveuse illumina uno scorcio della pittura di Toulouse Lautrec e della sua musa e modella Suzanne Valadon, immortalando i bassifondi di una società francese (ma il tema ha valore universale) che respinge ai margini i reietti e i miserabili.
Per sviluppare il racconto, tra ansie ma anche tra desideri di riappacificazione con se stessi (nel finale con Lay Down e The Sea Is Down), i Cheap Wine si sono messi in gioco ed è qui che si celebra il trionfo di questo piccolo grande disco. Spirits si muove infatti su un terreno comune e nello stesso tempo su schemi inediti, facendo tesoro delle scoperte del gruppo, come se i Cheap Wine avessero imparato, dopo le lunge jam e il cavalcare elettrico del passato, che lo scheletro della canzone resta sempre identico. Allora è naturale che scelgano di consacrare questa svolta attraverso le interpretazioni di Man In The Long Black Coat di Bob Dylan e Pancho & Lefty di Townes Van Zandt: non solo per il valore in sé delle canzoni e per il loro sposarsi alla perfezione con il clima del disco (il brano di Dylan potrebbe rappresentarne il manifesto), ma nche per il mantello sonoro che la band decide di posare su tali interpretazioni.
Spirits colpisce soprattutto nei suoi sussurri: negli orizzonti western della strepitosa A Pig On A Lead; nel velluto blues tenebroso de La Buveuse; in una Circus Of Fools (in assoluto una delle più belle ballate del loro repertorio) che assume toni persino pop, tra il piano e l’organo del collaboratore Alessandro Castriota e una estatica atmosfera corale; o ancora negli accenti cantilenati di Lay Down, nella malinconia di Dried Leaves, tutte ballate che non solo esaltano le parole e il canto di Marco Diamantini, ma ci parlano di una band più concentrata sul songwriting. Certo, tempi e spazi per alimentare il solismo di Michele Diamantini e in generale l’animo rock rissoso e veemente dei Cheap Wine sussistono ancora: nell’infernale boogie blues di Leave Me A Drain ad esempio o nella cruda slide guitar, manco fossimo in un voodoo alla John Campbell, che si trascina dietro The Sea is Down. Persino l’apertura, forse non esattamente indovinata nella sequenza della scaletta, di Just Like Animals, si colora di un blues notturno e sensuale su cui far vibrare le corde acustiche di Michele Diamantini (che si inventa anche una Alice strumentale dai profumi southern country). Nell’ambientazione di Spirits sono forse brani meno affascinanti ma che reggono nell’amalgama generale, spezzano o accrescono a seconda dei casi la tensione e contribuiscono a rendere l’album una ulteriore conquista nel luminoso cammino di questa band.
[ Fabio Cerbone - MIXED BAG ]

I Cheap Wine sono un combo di Pesaro da tredici anni sulla scena del rock indipendente italiano che, caso più unico che raro, hanno onorato ed arricchito con sette lavori in costante crescita.
La matrice della loro arte verte su di un rock chitarristico chiaro, deciso e ricco di spunti; psichedelia alla desert rock USA, un po’ di glam e l’indiscussa abilità con le sei corde di Michele Diamantini sono sempre state le tinte forti dei loro lavori.
I testi rivestono poi un’importanza che si avvicina alla dimensione cantautorale; ciò grazie a temi guida (crimine, movimento, rabbia,..) e alla profondità del wording inglese mai usato per mascherare banalità di contenuti.
Rock d’autore quindi quello che i Cheap Wine confermano anche in quest’ultimo ´Spirits´, ove tuttavia si riducono le tinte ´hard´ e ci si avvicina con gran risultato a trame roots americano.
Il set si fa più acustico, emergono nuove sfumature e coralità strumentali; non solo chitarra elettrica ma anche basso e batteria, con un ruolo speciale nell’economia del lavoro, chitarra acustica, armonica e qualche intervento esterno per violino, tastiere e tromba.
Basti ascoltare lo splendido incipit di ´Just Like Animals´ o di ´La Buveuse´, il rintocco del piano in ´Circus of Fools´, il violino in ´A Pig On A Lead´, la sospensione acustica di ´Alice´, la tromba in ´La Buveuse´, l’armonica alla spaghetti western in ´Man In The Long Black Coat´ per avere qualche scampolo di tutto ciò.
I testi assumono un doppio alone di bellezza; il primo dovuto ai protagonisti inquieti, dispersi ma non sconfitti; lo sfondo è quello di un’umanità non perfettamente in quadra, come ben ritratto in ´Just Like Animals´ con allegorie sui vari caratteri umani. Il secondo riflesso viene poi dalle sfumature vocali, in miglior evidenza su questo tappeto sonoro.
Una menzione alle versioni della dylaniana ´Man In The Long Black Coat´ ed alla splendida ´Pancho & Lefty´ di Townes Van Zandt, coerenti citazioni a ricamo del tutto.
Disco veramente encomiabile; serio, vissuto, profondo, ben cantato e suonato ancor meglio. Da ascoltare e da leggere, per il cuore e per la mente.
[ Vittorio Formenti - MESCALINA]

Sin dagli esordi la vita artistica dei Cheap Wine è stata un continuo crescendo, nonostante le difficoltà che comporta il non avere un'etichetta alle spalle. La loro visione dell'alternative country è diventata uno stile originale e sempre meno scontato. Su questa fortunata scia di crescita creativa si pone anche "Spirits", il nuovo album, prodotto dall'ottimo Michele Diamantini e composto da 9 brani originali e 2 cover.
Seguendo una collaudata tradizione della band, Spirits è un concept che raccoglie storie di spiriti inquieti, maledetti ed eroici. E' il caso della storia del partigiano Silvio Corbari evocato in "A Pig On A Lead" o quella della modella di Toulouse Lautrec, Suzanne Valadon, cantata in La Buveuse. Sin dal primo ascolto si apprezza la notevole crescita tanto a livello compositivo quanto a livello di arrangiamenti, e in questo caso ci piace citare brani come l'iniziale "Just Like Animals", la sorprendente "Circus Of Fools", ma soprattutto quel gioiellino folk-rock che è "Lay Down".
Di ottima fattura sono anche la stradaiola "Leave Me A Drain" in cui ritornano gli echi di Highway 61 di Bob Dylan, la rovente "The Sea Is Down" e la tenue "Dried Leaves".
Riuscitissime sono anche le due cover, ovvero un'intensissima "Man In The Long Black Coat" di Bob Dylan e la conclusiva "Pancho & Lefty" di Townes Van Zandt. Insomma, "Spirits" è uno dei dischi più affascinanti e meglio riusciti della band marchigiana, la quale meriterebbe, come poche, un palcoscenico di tutto rispetto nell'ambito della musica italiana e magari anche di quella internazionale.
[ Salvatore Esposito – JAM ]

Cambio di rotta per i nostri eroi marchigiani. Non preoccupatevi, nessuna rivoluzione nel sound di questi infaticabili cocker nostrani. Dopo il furore elettrico di “Freak Show”, album del 2007 che consigliamo caldamente, i fratelli Diamantini e i due pard che li accompagnano non abbandonano la strada del rock, anche se si orientano verso dimensioni più acustiche. Il sound diventa elettroacustico, molto roots, mai come in questa occasione i Cheap Wine sono vicini all’America, alla terra che ha visto nascere ed esplodere la fiamma del rock’n’roll.
Cambiare pelle ogni tanto fa bene, tiene desta l’attenzione del pubblico che ti segue e presuppone un lavoro intellettuale che in questo caso ha portato a compimento un’opera riuscita. Anche la scelta delle cover, “Man In The Long Black Coat” di Dylan e “Pancho & Lefty” di Townes Van Zandt, è vincente.
Due canzoni stupende, un banco di prova superato a pieni voti, perché la materia è conosciuta e affrontata con vera passione. Non ci si può improvvisare nel riproporre due classici di questo tipo, tanta la storia che si portano alle spalle. Resta da segnalare che le canzoni originali rivelano un ulteriore miglioramento in fase di scrittura.
Come non restare catturati dalla dolcezza di “Lay Down”, ballata dal testo malinconico che culla l’ascoltatore attraverso un ritornello corale di grande atmosfera, o dalla storia vera del partigiano Silvio Corbari, raccontata con efficace sintesi in “A Pig On A Lead”, il vero capolavoro di questo disco?
Sarà anche “vino economico”, ma di grande personalità.
[ Edoardo Frassetto - ROCKERILLA ]

Che Spirits sarebbe stato un disco diverso dai precedenti era nell’aria. La lunga serie di concerti acustici del Freak Show Tour e il cambio di formazione, con l’ingresso di Alan Giannini, batterista meno potente di Francesco Zanotti ma più versatile e attento alle sfumature, fotografavano un ensemble finalmente pronto a esplorare nuovi territori musicali. Spirits, sia detto senza timore di smentita, è il disco meno rock dei Cheap Wine, ove per rock s’intende l’affascinante incrocio di roots, psichedelica e punk cui la band ci ha abituato in questi anni. E paradossalmente, proprio per questa ragione, risulta uno dei capitoli più riusciti dell’intera discografia della compagine pesarese. Le 9 tracce di questo nuovo lavoro, cui si aggiungono le personali riletture di Bob Dylan (Man in The Long Black Coat) – una cover da brividi – e Townes Van Zandt (Pancho & Lefty), dicono di una formazione in assoluto stato di grazia, capace di rinnovarsi pur mantenendo il suo personalissimo stile. Concept sui generis, dedicato a “personaggi reali, immaginari, eroici, miserabili, animaleschi, ordinari, tormentati” accomunati dal dubbio e dall’incertezza, Spirits presenta sostanziali novità rispetto al passato sia a livello musicale sia nelle liriche. L’incipit affidato alla bellissima Just Like Animals, con linee di basso jazzy e arpeggi acustici, stabilisce meglio di qualsiasi dichiarazione d’intenti, il tono generale dell’opera. Chi si aspettava assoli di chitarra e assalti all’arma bianca forse rimarrà deluso, chi al contrario predilige aperture acustiche, atmosfere blues e fraseggi che non temono audaci incursioni in territori jazz, troverà questo disco sorprendentemente bello e coinvolgente. Anche l’immaginario letterario cui attinge un Marco Diamantini davvero ispirato non è più limitato ai grandi spazi americani e alla cultura della frontiera di Corman McCarthy e Sam Peckinpah. I due brani più belli del disco raccontano infatti storie radicate in un contesto culturale e antropologico profondamente europeo.
A Pig on A Lead – prende spunto da un episodio reale descritto nel libro “Ribelli” di Pino Cacucci – narra la vicenda di Silvio Corbari, un partigiano faentino con la passione per la recitazione e il travestimento, che durante la Resistenza inferse duri colpi alle truppe nazi-fasciste, non solo militarmente.
La Buveuse, a parere di chi scrive la canzone più bella di sempre dei Cheap Wine, è invece un omaggio alla Parigi decadente di Henri de Toulouse Lautrec con le sue bettole malfamate affollate di artisti, puttane e alcolizzati. Un brano notturno da ascoltare a luci spente lasciandosi cullare dalla voce da crooner di Marco e dai delicati fraseggi di basso, chitarra e batteria qui contrappuntati dalla splendida tromba di Gigi Faggi.
[ Massimiliano Di Pasquale – LANKELOT]

L'atteso ritorno discografico dei Cheap Wine arriva a coronamento del 13° anno di attività, tutti vissuti all'insegna di una sana autoproduzione ed autogestione che non ha eguali in Italia. Questo significa innanzi tutto godere di  piena libertà sia artistica che  manageriale, che consentono alla band di Pesaro di portare la musica, centro vitale del progetto, sui sentieri di una evoluzione concreta, fatta di piccoli passi ma decisi verso un cambiamento sostanziale che è partito nel 1997 con l'Ep “Pictures” ed arriva oggi a “"Spirits"” ennesimo album “a tema”. Sin dalla copertina il nuovo album si presenta come un libro aperto: le bottiglie di vino di una cantina polverosa, rivelano l'anima di un disco blues che è figlio di un ritorno alle origini di quel sano e robusto classic rock (non è una parolaccia) che da sempre è la cifra stilistica di Marco Diamantini e compagni. Se vogliamo “Spirits” è figlio anche di due anni vissuti sui palchi dove spesso sono stati “costretti” a staccare la spina per non essere troppo rumorosi: per questo le atmosfere acustiche hanno una predominanza inusitata rispetto agli standard della band, senza per questo venire a scapito della qualità.
Come già detto “Spirits” è un album a tema che va alla ricerca di “spiriti inquieti, spiriti dell'alcol” che mette insieme personaggi reali ed immaginari, eroi e miserabili, spiriti di uomini comuni e tormentati.
E tra i personaggi reali che hanno ispirato questo disco, spiccano le figure del partigiano Silvio Corbari e del pittore Henri de Toulouse Lautrec le cui storie ed attività hanno ispirato due dei migliori brani mai composti dai Cheap Wine: “Pig on a lead”e “La Buveuse”.
Nel primo, una splendida ballata acustica nel quale spiccano il classico assolo di Michele Diamantini (che produce l'intero album) e un efficace intervento al violino Luca Nicolini, si racconta di come il giovane partigiano Silvio Corbari si prese gioco delle truppe nazi-fasciste nel 1943 nel paese di Tredozio, presentandosi travestito da vecchio contadino e con un maiale al guinzaglio  così come raccontato nel bel libro “Ribelli” di Pino Cacucci.
L'altro cardine che ha ispirato le canzoni di “Spirits” è la pittura di Toulouse Lautrec artista scomodo, denigrato dai suoi contemporanei per avere rappresentato, con la sua pittura, l'umanità reietta e derelitta del tempo, non tanto per compiere un'opera di denuncia sociale, quanto per sovvertire le convenzioni ed il conformismo dei benpensanti dell'epoca. Costruito su di uno splendido giro di basso di Alessandro “Fruscio” Grazioli, il brano “La Buveuse”, ispirato dal quadro omonimo, è un blues da “borracho” carico dei fumi dell'alcol che trasportano l'ascoltatore nei bassifondi di una New Orleans dove i linguaggi musicali si mescolano: ed ecco che le classiche dodici battute vengono arricchite da una tromba jazzy che spinge la musica dei Cheap wine sui territori congeniali al migliore Tom Waits, ma anche all'ultimo Iggy Pop di “Preliminaires”
Questa latente vena jazz è presente sotto traccia in tutto l'album, ed emerge soprattutto grazie al drumming di Alan Giannini subentrato allo storico batterista Zano, che pur mantenendo solida la base di ogni brano, la arricchisce con sfumature diverse e, per certi versi, mai ascoltate in precedenza. Un altro dei cardini fondamentali di “Spirits” sono i testi di Marco Diamantini che definiscono il tema dell'album sia quando sono diretti nel raccontare le storie reali (“A Pig On A Lead” e “La Buveuse”) sia quando usano metafore per raccontare caratteri tipici dei nostri tempi come in “Just Like Animals” oppure tratteggiano le personalità dei “perdenti” protagonisti nel disco: l'ubriacone di “Leave Me A Drain”  piuttosto che la vedova grassa di “Circus Of Fools”.
Su tutto aleggia un'aria di disillusione che conferisce a “Spirits” un mood per certi versi triste che sa di sconfitta perché non ci sono vie d'uscita ed allora meglio affogare il dispiacere nell'alcol oppure indugiare ai piaceri dell'assenzio, così la nebbia avvolge i pensieri e trasforma tutto ciò che li circonda.
Ecco allora che possiamo considerare “Spirits” come l'album della maturazione dei Cheap Wine, un disco che li trasporta nell'età adulta dove le cose si fanno concrete, le scelte sono decise e si aprono nuovi scenari che sapranno confermare l'idea personale di chi scrive: i Cheap Wine sono il migliore gruppo italiano in circolazione, fuori dalle mode, dai circuiti del consenso facile, dalle copertine di riviste patinate.
Il consiglio allora è quello di conservarli come le bottiglie in copertina da gustare nelle migliori occasioni, in compagnia di chi sa apprezzare un buon bicchiere di vino. E se poi volete prendervi una bella sbronza, è ancora meglio.
[ Eliseno Sposato – SOTTERRANEI POP ]

Sette. Tanti, contando il mini di esordio e quest’ultima fatica, sono i lavori inanellati in ormai tredici anni di (onorata) carriera dai Cheap Wine, una di quelle piccole-grandi band che vivono serenamente il proprio operare all’interno di un circuito ristretto – che poi nel caso specifico tanto ristretto nemmeno è, alla luce dei prolifici rapporti che i quattro pesaresi intrattengono con l’estero – infischiandosene dell’hype e delle mode. Loro, che sanno di essere italiani per l’anagrafe ma americani nel cuore, vanno avanti per la loro strada scrivendo e interpretando canzoni quasi sempre all’altezza dei modelli: tracce che, per quanto concerne “Spirits”, sono ballate roots avvolgenti e ricche di pathos, arrangiate ed eseguite con un bell’equilibrio di emozione e classe. Il r’n’r ritmato e incalzante fa in un paio di casi capolino, ma la sua incisività è garbata e non aspra come in altre prove dell’ensemble; e il risultato è un album estremamente intenso e godibile, anche quando a uscire dalle casse non sono composizioni autografe, bensì cover difficili – anzi, difficilissime – come “Man In The Long Black Coat” di Bob Dylan e “Pancho & Lefty” di Townes Van Zandt.
[ Federico Guglielmi – MUCCHIO ]

Il blues ed il rock hanno sempre cantato di disperati, di perdenti, fuorilegge ed alcolizzati. Questa lezione i Cheap Wine l’hanno compresa benissimo, così dopo tredici anni di attività, hanno pubblicato il loro album migliore (il settimo della loro carriera sempre in progressione). Anche in questo lavoro il quartetto pesarese, che ha cambiato il batterista, Alan Giannini ha sostituito Francesco Zanotti, ha deciso di lavorare in funzione di un concept, che è stato ottimamente realizzato sia dal punto di vista musicale, che poetico. Gli ultimi due ani di tour, in buona parte in acustico, hanno sicuramente condizionato la realizzazione di “Spirits”, in quanto il sound ha un taglio decisamente meno incandescente, come invece era lo stesso “Freak show”, e prevalgono le ballate dal sapore roots, oltre a certi arrangiamenti jazzy. Il blues poi in questo lavoro è molto più marcato ed è il substrato di tutto il lavoro. I testi dal canto loro riprendono in buona parte tutto l’immaginario del blues e del miglior cantautorato Usa, non a caso sono presenti due ottime cover di Bob Dylan (“Man in The Black Coat”) e di Townes Van Zandt (“Pancho & Lefty”). Tuttavia, non mancano anche ambientazioni più europee come “Circus of fools”, una dolce ballata, molto onirica. In due brani i Cheap Wine omaggiano due personaggi della prima metà del novecento. Il primo è Silvio Corbari, un giovane partigiano faentino che nel 1943 sbeffeggiò le truppe nazi-fasciste nel paese di Tredozio, presentandosi travestito da vecchio contadino e con un maiale al guinzaglio, la canzone è tratta dal racconto che Pino Cacucci fa nel suo splendido libro “Ribelli”, edito da Feltrinelli. Il risultato è un’ottima folk ballad bluesata ed accattivante. Il secondo personaggio invece è il pittore Henri de Toulouse Lautrec, che fu dileggiato dai suoi contemporanei per aver rappresentato la “feccia” della sua epoca, vale a dire, gli sbandati, i miserabili, le prostitute ed i loro clienti. Il brano è “La buveuse”, uno splendido blues, che sembra nato a New Orleans, con delle chitarre fantastiche, con l’opportunissimo innesto della tromba di Gigi Faggi. Per la ballata di “Lay down”, invece, il quartetto si è ispirato direttamente a Springsteen e a Tom Petty. “Spirits” è sicuramente uno dei tre album migliori italiani del 2009.
[ Vittorio Lannutti – Freak Out ]

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Freak Show
CD: "Freak Show" (2007)

Freak Show is great. My favorite of Cheap Wine CDs yet. Really energetic but with a really good variety of sounds and styles. Congratulations to the band! It's good to keep getting better, that's the idea, isn't it?!
[ STEVE WYNN ]

Each CD by Cheap Wine is better than the last, so I think Freak Show is your best yet. I'm going to spin it on my radio show at KXCI
[ AL PERRY ]

This is Cheap Wine’s fifth album, and as I loved the last so much it was a welcome surprise when it dropped through the letterbox courtesy of Stone Premonitions. This Italian four-piece play rock music as it should be played – loud and snotty, with riffs and solos aplenty and a total disregard for the niceties of fancy production techniques. From the brilliant cover art to the great songs, this whole package just cries out to be heard, but I am just afraid that because they hail from the continent this group will be overlooked by everyone but the few lucky fans in the know. It has been three years since their last album ‘Moving’, but the band sound as good as ever, and with lyrics in English and a distinctly American rock sound they should really appeal to a very wide audience. Check out Exploding Underground or Kenny Bring Me Down to hear some superb hard rock, or Nothing Left To Say for a Dylan-influenced ballad. For the title track they pull out all the stops, from Michele Diamantini’s feedback-drenched solo to the riff that holds the whole song together - it sums up the band in one song. Jugglers And Suckers is good old fashioned rock and roll, hard and heavy with the added bonus of an organ solo. Evil Ghost winds thing down with a ballad, but as it is a Cheap Wine ballad they use the last six minutes of this nine minute epic as a springboard for one of Diamantini’s best solos, ending this fine album on a high. It is good to know that there are still bands out there that cherish the classic rock sound, and Cheap Wine are one of them. Check out their website at www.cheapwine.net for more info (much of it in Italian, I am afraid, but there are some English snippets) and samples from their five albums.
[ Peter Jolly ]

CHEAP WINE - “Freak Show” - CLASSIC ROCK ALBUM OF THE MONTH APRIL, 2007
7 reasons to like Cheap Wine:
1. The great cartoon artwork on their CD.
2. The great My Space site with 4 songs from the album and extracts from "You Tube".
3. Their list of influences includes Neil Young (Comes out particularly on the grungy title track)
4. Their list of influences includes Bob Dylan (Comes out particularly on the acoustic ballad- guitar, piano, organ, harmonica - Nothing Left To Say) This is not the only acoustic track - this band does not go just for power - witness the stunning finale Evil Ghost!
5. Their list of influences shows, for a young band, they’ve done a lot of listening and know their history. (The list includes various rock ‘n’ roll greats, jazz and blues legends and Billie Holliday!) Time for Action adds vintage AC/DC to their list!
6. The power and majesty of Naked Kings (All 6:26 of it) shows a pedigree dating back to The Allman Brothers and The Rolling Stones. It’s not the longest song and the only one that brings back memories of The Allmans, especially the slide guitar - that honour goes to Evil Ghost (9:40)
7. The striking musicianship right throughout the band- listen to the rhythm section on songs like Kenny Bring Me Down.
Cheap Wine are one red hot Italian band!
Freak Show is available through iTunes, CD Baby and by visiting www.myspace.com/cheapwinenet or www.cheapwine.net
Oh, and I forgot to mention there is also a message in their music!
[ ZEITGEIST - Phil Jackson ]

Proseguono sulla strada dell'autoproduzione i fieri Cheap Wine che con Freak Show brindano ai dieci anni della loro attività. Hanno iniziato nel 1997 con il mini cd Pictures e hanno continuato impavidi, incuranti della poca attenzione che il pubblico e il mondo discografico ufficiale ha riservato loro, cambiando spesso scenari (dalle strade di Springsteen al Paisley Underground di Green On Red e Dream Syndicate, dalle ballate di Dylan e Young al rock urbano tinto di psichedelia) ma tenendo fede ad una idea di rock classico ed elettrico che è stata apprezzata anche in Europa e negli Stati Uniti.
Con il 2000 la loro produzione si è fatta più curata e uno dopo l'altro sono usciti album dalla bellezza esemplare che hanno mostrato maturità di scrittura nelle canzoni, fantasia nei temi scelti come concept dei dischi e grandi miglioramenti a livello sonoro, confermati anche nei loro infuocati ed esaltanti live shows. Ruby Shade, Crime Stories e l'ottimo Moving, un album che il Buscadero ha incluso tra i migliori dischi del 2004, costituiscono le tappe di un avventura discografia che ha portato i Cheap Wine ad essere il migliore gruppo rock italiano, almeno per quanto riguarda quel rock che non insegue mode e facili successi ma si colloca sulla scia della grande tradizione del genere.
Moving ha comunque chiuso un ciclo e Freak Show ne apre uno nuovo all’insegna di una musica più aggressiva e diretta dove sono le chitarre dello splendido Michele Diamantini e la ritmica a palla del muscoloso Zano Zanotti e dello "spietato" Fruscio Grazioli a dettare legge.
Dalle nove tracce del nuovo disco esce un rock duro, teso e adrenalinico che lascia poco spazio alla ballata (due in tutto l'album) e invece si fa portatore di sound serrato e compatto che non concede tregua e che nei risicati ma perfettamente bilanciati 41 minuti e mezzo del disco mostra tutta la sua potenza ed energia.
Il risultato è a tratti esaltante perché le canzoni, quasi tutte frutto della musica di Michele Diamantini e dei testi di Marco Diamantini, si susseguono come fucilate di una splendida battle of rock e legittimano un insieme che ora suona come vera rock band. Se in passato difatti, a volte, sembrava che i Cheap Wine fossero la band di un songwriter, Marco Diamantini, che si cimentava in ballate che stavano tra Dylan, Young e Dan Stuart e lasciava al gruppo isole sonore apparentemente separate adesso la situazione è cambiata, Michele ha più peso a livello di suoni e produzione, le parti vocali sono amalgamate meglio nel tessuto sonoro e i Cheap Wine suonano compatti, solidi, spudoratamente rock e tutti i musicisti sono sullo stesso piano.
Messe quindi da parte le suggestioni cantautorali, l'ariosità west-coast pop dell'originale I Can Fly Away e certe bellissime aperture psichedeliche che in Moving si traducevano in momenti estatici (Loom and Vanish) e in fantasie lisergiche in cui era meraviglioso perdersi (Fade Out e prima ancora Mary in Ruby Shade), i Cheap Wine mirano al sodo, si fanno più punk e scelgono la metafora del Freak Show per denunciare un mondo al contrario in cui i pagliacci sono al potere, i mediocri sono in trionfo, i millantatori applauditi, i criminali esaltati, la falsità elargita e invece i saggi sono emarginati, l'intelligenza è torturata e la verità estinta. Il mondo è un unico, gigantesco, decadente Freak Show e i Cheap Wine lo ridicolizzano attraverso testi che non sono politici di per sé ma sono un modo molto semplice e molto rock per denunciare le assurdità della società attuale.
Così, in rapida sequenza si susseguono titoli come Dance Over Troubles, Exploding Underground, Time For Action in cui le esortazioni a non lasciarsi intorpidire dagli idioti che tirano le file del gioco trovano riscontro in un rock al fulmicotone che non dà adito a ripensamenti ma solo a reagire in prima persona contro la cretineria al potere. Solo la quarta traccia dell'album Nothing Left To Say concede una pausa melodica ed è una pausa che si desidera tutta perché qui Marco Diamantini si ricorda di essere un brillante scrittore di ballate e chitarra acustica, piano e voce fanno quello che raramente si è sentito in un disco di Cheap Wine.
Poi il turbine sonoro ricomincia e Naked Kings riapre la danza impazzita attorno alle serpentine chitarristiche di Michele, meno "narcisista" che in Moving ma dirompente come pochi, un vero idolo per me.
Kenny Bring Me Down è concisa ma è uno dei brani che preferisco perché qui in pochi minuti è condensata la pura essenza del rock, Freak Show con la sua metafora è il manifesto dell'album e Jugglers And Suckers pesta duro con quella sezione ritmica che sembra una società tra un fabbro e un martello pneumatico e ospita un inciso di organo (Alessandro Castriota) che fa molto garage sound.
La conclusione è lasciata a Evil Ghost, il solito brano lungo con cui i Cheap Wine sono soliti chiudere i loro lavori. Il pezzo nasce come una ballata evocativa, chitarra acustica, voce, piano e armonica introducono quell'up and down tipico delle cose del genere. Nella loro discografia fa venire in mente City Lights, poi la chitarra prende il comando e in una overdose elettrica trasforma il tutto in una deflagrazione epica che il testo immaginifico evocante poemi medievali e uno scenario eroico rende ancor più imponente. Un testo che si discosta dall'universo lirico del gruppo e avvalora l'accostamento che anche il disegno di retro copertina fa nei confronti dei Blue Oyster Cult di Agents of Fortune.
Esaltato anche dagli splendidi fumetti e dall'accattivante parte grafica di Zano Zanotti, una scelta estetica che contribuisce a dare una immagine "specifica" e coerente al gruppo, sull'esempio di quanto fanno formazioni americane come i Drive By Truckers, Freak Showè per i Cheap Wine quello che per Mellencamp (concedetemi il paragone) è stato Whenever We Wanted, un disco crudo e rabbioso che amplifica la loro inossidabile reputazione rock'n'roll. Adesso non ci resta che vederli dal vivo con il nuovo materiale.
[ BUSCADERO - Mauro Zambellini ]

E' un po' ritardo rispetto all'inesorabile cadenza biennale che ne aveva sinora scandito le uscite, ma forse lo si deve al fatto che Freak Show, per i Cheap Wine, contrassegna un piccolo quanto significativo assestamento di rotta. Un passo probabilmente necessario, visto che i precedenti Crime Stories (2002) e Moving ('04) già sembravano aver detto tutto, e nel migliore dei modi possibili, circa un rock'n'roll acido e fiammeggiante, roccioso e corrosivo, che in questi anni il quartetto di Pesaro ha interpretato con un furore, una passione e una dedizione alla causa quasi certamente estranei alla maggior parte dei gruppi americani abituati a muoversi sullo stesso tragitto stilistico. Questo non significa, beninteso, che i ragazzi si siano in qualche modo ammorbiditi, che le loro canzoni abbiano perso mordente o che le liriche di Marco Diamantini (perché nessuno gli ha mai detto quanto è bravo a incastrare rime dotate di senso in un idioma straniero?) abbiano rinunciato a descrivere con un pizzico di malinconia e una tonnellata di disincanto le relazioni sentimentali e i desideri di fuga di personaggi ai margini. Non direi che in Freak Show (che per altri versi è una ruvida radiografia di un mondo in preda a un sistema di valori ormai definitivamente corrotto) i Cheap Wine si siano decisi a battere strade nuove con l'intenzione di non tornare indietro; sono però convinto ne abbiano imboccate diverse e con una disposizione d'animo più leggera del solito. Se hanno voltato pagina, insomma, di sicuro si sono divertiti a guardare un entrambe le facciate del foglio, perché i nove brani di Freak Show provano a mettere da parte la rigorosa coerenza formale dei loro altri lavori per andare a comporre una scaletta più ariosa del solito, in cui lo spettro della musica americana viene citato quasi per intero e senza preoccuparsi di saltare da una fisionomia stilistica all'altra. Accade infatti che alle classiche esplosioni elettriche delle iniziali Dance Over Troubles e Exploding Underground faccia seguito una Time For Action inzuppata di soul (notevolissima Marta Graziani ai cori), e che tutta la prima parte del disco culmini in una Nothing Left To Say (splendida) che, complice l'organo e l'arrangiamento "californiano" di Alessandro Castriota, cita apertamente il Dylan di It Ain't Me, Babe per poi scaraventarlo nel bagno di anfetamine di un finale a dir poco arroventato. Altrettanto singolare è l'intreccio elettroacustico della magnifica Naked Kings, anche se le sorprese più consistenti arrivano dalle pennellate glam del trittico Kenny Bring Me Down / Freak Show / Jugglers And Suckers, febbricitanti evocazioni di Chuck Berry così come le intendevano New York Dolls, Heartbreakers o Hanoi Rocks (tutti, com'è ovvio, istruiti dai Creedence), con la sezione ritmica di Alessandro Grazioli e Francesco Zanotti a macinare un impressionante volume di fuoco punk'n'roll e la formidabile chitarra solista di Michele Diamantini che sanguina le sue rasoiate un po' dappertutto. Terminati i dieci minuti di Evil Ghost, che riporta il suono dei Cheap Wine sul mai rinnegato orizzonte epico degli amati Dream Syndicate, ci sarà qualcuno - ne sono certo - che non esiterà a definire Freak Show un'opera tutto sommato "leggera", magari il proverbiale disco di transizione. Per quanto mi riguarda, invece, ritengo abbiano semplicemente capito (e me lo conferma il respiro della produzione dello stesso Michele Diamantini, agli antipodi rispetto al suono saturo e claustrofobico che aveva caratterizzato la riuscita di Moving e che qui non avrebbe avuto molto senso) che non è sempre utile entrare in studio con l'ossessione di dover realizzare l'album definitivo. Le canzoni di Freak Show suonano grintose come al solito, ma rispetto al passato sembrano ancor più naturali e sicure di sé: le ascolto e le riascolto, e davvero non ho ancora trovato alcun motivo valido per non definirle le migliori che i Cheap Wine abbiano mai composto.
[ ROOTS HIGHWAY - Gianfranco Callieri ]

Strane creature i Cheap Wine: sono fautori di un rock che nel nostro paese è a dir poco marginale, almeno in termini di mercato, eppure non sono dei panda da coccolare. Hanno più le fattezze di quei mostri che allungano i loro minacciosi tentacoli attraverso la grafica di questo nuovo cd.
Con un suono spietato si sono guadagnati la stima degli appassionati e la nostra copertina di questo febbraio 2007: i loro dischi sono esempio di coerenza e di evoluzione, di una proposta che avanza e cresce senza cedere a compromessi.
Ulteriore conferma viene appunto da Freak Show che non sarà coeso come Crime Stories e Moving, ma è comunque un lavoro tutto d'un pezzo: se dal punto di vista narrativo i precedenti erano strutturati sui concetti di crimine e di viaggio, qui le canzoni focalizzano sulla follia umana, chiudendo e aprendo contemporaneamente il cerchio di quel "dark side" che la band continua ad esplorare.
I testi si spalancano verso l'esterno puntando il dito rabbiosi contro figure e comportamenti che infettano il sistema umano. Allo stesso modo anche le canzoni allargano lo spettro sonoro della band: il rock desertico e abrasivo è stavolta scosso da un tiro che sembra provenire dal r&r anni '70 o dal punk scorticato di inizio anni '80. I Cheap Wine bruciano ovviamente tutto alla loro maniera con una veemenza che si fa sentire sin dall’iniziale Dance Over Troubles: "can’t you hear that rockin' sound?".
I suoni sono aperti e l'impatto è aumentato dall'intervento delle vocals che rendono la presa di coscienza corale e feroce: esemplare è la forza soul che rende Time For Action un invito a reagire. Anche le ballate sono più piene del solito grazie all'apporto di Alessandro Castriota: le sue keyboards si insinuano sotto la tensione di Nothing Left To Say, forse il pezzo migliore del disco, mentre un organo corre lungo Jugglers And Suckers.
Il disco è acido e teso, solo nove pezzi, ma non c'è bisogno d'altro.
La forza interiore e sotterranea dell'underground prorompe frontale (Exploding Underground) arrivando ad alzarsi in piedi nella title-track che è il vero manifesto dell'album: Marco Diamantini mette in fila i pagliacci, i banditori e le bestie che affollano il bieco spettacolo del sistema (quello musicale? Quello italiano? O quello umano in generale?), mentre le chitarre e la ritmica rispondono con l'intenzione di far piazza pulita. Un altro marchio di fabbrica è Evil Ghost, ballata conclusiva che stavolta sfuma su fantasmi di guerre e invasioni quanto mai attuali, allungati da tocchi di piano, vocals, organo e armonica.
Attenzione a non perdere il Freak Show dal vivo: promette di essere uno spettacolo molto rock e molto diverso dagli eventi publicizzati dai grandi media.
[ MESCALINA - Christian Verzeletti ]

Sono tornati. Questi figliocci fedeli di Green On Red (chi se li ricorda?) e di The Dream Syndicate sono tornati ancora più elettrici e arrabbiati che mai.
Sono mosche bianche in un mondo tutto assurdo e capovolto, che non è altro se non uno spettacolo avvilente e decadente (Freak Show), un circo costruito sulla menzogna e l'apparenza (Naked Kings).
Non tutto è perduto, perchè l'importante è non farsi tirare dentro in questo meccanismo perverso di manipolazione collettiva (Jugglers And Suckers) e trovare la forza per reagire e uscire dal nulla (Time For Action) anche se verranno disillusi e presi in giro i nostri sogni più naturali (Nothing Left To Say).
Ed il rock è una delle strade per la salvezza (Dance Over Troubles) quando tutto sembra senza via d'uscita: questa musica pura e semplice, diretta e chitarristica, è ancora in grado di essere un grido di denuncia contro falsi profeti e uomini senza valore, che imperversano a scapito di quelli che potrebbero essere ottimi modelli (Exploding Underground).
Freak Show è tutto questo, alla fine un concept album di una sferzante elettricità, sull'idiozia e la mostruosità intesa come assurdità.
E i Cheap Wine sono in forma e in salute più che mai, tirati come una corda di violino, le loro chitarre ruggiscono e il motore ritmico pompa come un pistone impazzito che non si vuole più fermare.
Signore e signori, benvenuti alo show, si alzi il sipario e via col rock'n'roll.
[ ROCKERILLA - Edoardo Frassetto ]

A distanza di poco più di due anni dall'acclamato (e non stiamo esagerando) Moving, i Cheap Wine si insinuano prepotentemente ancora una volta nei nostri lettori cd. Non sarà stato facile per i quattro pesaresi rimettersi al lavoro coscienti dei tanti apprezzamenti che aveva riscosso il lavoro precedente. Eppure i Cheap Wine riescono, ancora una volta, a sorprenderci.
Certo, la formula è sempre quella che è diventata un marchio di fabbrica del gruppo, rock massiccio, grezzo, riff ed assoli acidi. Eppure questo Freak Show, per la prima volta forse, si discosta da quelle specie di percorso di maturazione che i Cheap Wine avevano intrapreso dall'ormai lontano Pictures, EP del 1997.
E' inutile negarlo, in un certo senso tutti i dischi precedenti sembravano legati da un filo invisibile, ogni lavoro sembrava l'evoluzione naturale di quello precedente. E allora eccoci tutti ad aspettare il quartetto al varco, a vedere cosa si sarebbero inventati.
Freak Show
è un disco terribilmente rock, dalla musica alle tematiche delle liriche di Marco Diamantini. Se nei precedenti Crime Stories e Moving i concept erano incentrati rispettivamente sul crimine ed il viaggio, il movimento, tematiche care al genere, questo Freak Show mantiene la caratteristica e proietta sulle canzoni denuncia ironiche ed acide di mostri, uomini senza valore che imperversano indisturbati.
Dal punto di vista musicale prendiamo atto di un assestamento negli equilibri dei suoni. Se il songwriting acustico e decadente di Marco, e gli assoli acidi di Michele Diamantini fanno un passo indietro, d'altra parte è la base ritmica che viene fuori con maggiore aggressività e presenza sonora. Il risultato è probabilmente il disco più aggressivo dei Cheap Wine. Esempio ne è il trittico iniziale: Dance Over Troubles, Exploding Underground ("Un urlo sta esplodendo nei bassifondi...ora tieni gli occhi bene aperti") e la splendida Time For Action, base ritmica e riff bestiali mischiati a cori soul che ci invitano a non restare a guardare e a prendere, finalmente, l'iniziativa.
Le cavalcate rock hanno di gran lunga la meglio (in senso numerico), e così ci sono Kenny Bring Me Down, Freak Show e Jugglers And Suckers a circondare la solitaria ballata Nothing Left To Say, seguita a ruota dall'episodio più "Moving-style", cioè Naked Kings, chitarre acustiche in apertura, melodia e rock acido ad alternarsi all'orecchio dell'ascoltatore. A chiudere lo spettacolo ci pensa il ritorno al tono decadente di Evil Ghost, maratona di suoni acustici, pianoforte, organo, armonica e venature elettriche che si inseguono per dieci minuti.
Freak Show
è un disco di granito, tutto d'un pezzo, dove mentre con la testa ti perdi nei riff delle sei corde dei fratelli Diamantini, nello stomaco senti rimbombare i colpi sul rullante di Francesco Zanotti e le ipnotiche melodie dipinte da Alessandro Grazioli al basso.
Freak Show
è un disco di puro rock anche nelle parole, fedele a quello spirito di critica e ribellione che ha sempre contraddistinto il genere.
Che dire, di nuovo complimenti ai Cheap Wine, uno di quei pochi gruppi che riesce a rinnovarsi di disco in disco senza per forza fare rivoluzioni. Quattro ragazzi italiani che suonano come gli americani. Che fanno tutto da sè, dalla produzione alla grafica... che potrebbero insegnare il "Do it yourself" a molti millantatori.
I quattro pesaresi non sono rocker di maniera o per palati sopraffini, possono fulminare chiunque ed è anche arrivato il momento che un mercato impazzito e soffocato dalle mode se ne renda conto.
[ RADIO CIROMA - Luigi Gaudio ]

Attivi da dieci anni e ormai considerati una delle realtà più consolidate del rock indipendente italiano, i Cheap Wine giungono con Freak Show al sesto album.
Un traguardo importante, se si pensa che i dischi, questi quattro ragazzi marchigiani, se li producono interamente da soli, comprese le splendide copertine e i booklet di cui si fa carico il batterista-fumettista Francesco Zanotti. Laddove Moving del 2004 era un invito al viaggio lontano dalla realtà, Freak Show è la celebrazione rock del circo decadente dei nostri tempi con le ossessioni allucinate della quotidianità (Dance Over Troubles, Jugglers And Suckers), politici sbandati tra destra e sinistra (Exploding Underground), le guerre (Time For Action, Naked Kings) e le piccole follie (Kenny Bring Me Down).
I nove brani sono senza dubbio quanto di meglio i fratelli Diamantini siano riusciti a fare nella loro carriera. Ottimi testi venati di poesia urbana, un grande rock chitarristico e tanta passione.
Nessuna scusa, sarebbe bene che i più se ne accorgessero.
[ JAM - Salvatore Esposito ]

Dopo aver raccontato le storie del crimine (Crime Stories, 2002) e cercato di catturare il movimento attraverso fotografie di rock elettrico e acustico (Moving, 2004), tornano i pesaresi Cheap Wine con un nuovo disco che cerca di illustrarci il nostro folle e decadente mondo oramai giunto alla deriva.
Indipendenti per scelta e rockers innamorati delle chitarre che cercano di smuovere coscienze, Marco Diamantini e soci scrivono un'altra pagina importante della loro carriera, e lo fanno con 9 brani di qualità encomiabile, rabbiosi e poetici che si rivolgono a chi crede che la salvezza possa scaturire anche da scintille di puro rock'n'roll. Freak Show è semplicemente benzina gettata sul fuoco, scariche elettriche che colpiscono allo stomaco e carezze che lambiscono i nostri visi; l'iniziale Dance Over Troubles e la successiva Exploding Underground macinano riff a rotta di collo ma è con Time For Action che ci rendiamo conto di avere fra le mani qualcosa di più di un semplice disco rock di matrice italiana; "giorno dopo giorno vedo persone che si spengono, rassegnandosi a vivere come schiavi… è il momento di agire…" canta Diamantini mentre una ritmica soul indiavolata fa da tappeto ai cori della splendida voce di Marta Graziani.
La stupenda ballata Nothing Left To Say, metà Dylan e metà Wynn, fa rifiatare per poco, ma ci si ributta subito in quel rock che l'America probabilmente ha inventato e che i Cheap Wine hanno metabolizzato talmente bene da farlo apparire loro al 100%. I cori glam di Kenny Bring Me Down, l'organo punk'n'roll di Jugglers And Suckers e la ballata acustica Evil Ghost, che alterna pianoforte e chitarra e poi si dirama, nei sui 9 minuti, in nebbie di psichedelia figlia del migliore Paisley Underground, non fanno altro che confermare la verità che il vecchio Neil Young cantava in passato. Se il rock non morirà mai, un bel po' di merito va anche a questi ragazzi.
[ MUSIC LETTER - Nicola Guerra ]

Accostarsi a una produzione dei Cheap Wine significa misurarsi con un immaginario musicale che trae linfa vitale dal lato più selvaggio del rock'n'roll, quello legato all'hard americano, al riff uncinante, alle cavalcate inarrestabili a base di overdrive e vibrare di pelli.
E' stato così sin dagli esordi – correva l'anno 1997 e sugli scaffali faceva bella mostra di sè Pictures – e non fa eccezione questo Freak Show, sesto capitolo della nutrita discografia della band marchigiana.
Un disco che sintetizza le ottime cose già ascoltate nei precedenti Moving e Crime Stories, con in più l'esperienza acquisita in dieci anni di carriera su e giù per i palchi di mezza Italia.
Esperienza che in questa sede consente alla band di spaziare tra il rock sudista à la Black Crowes di Jugglers And Suckers e il punk di Exploding Underground e Kenny Bring Me Down, le atmosfere hard-country-western di Naked Kings e le slide guitars ruffiane di Evil Ghost, episodi in stile Dream Syndicate come Dance Over Troubles e ballads sospese come Nothing Left To Say.
Il tutto senza perdere un minimo di credibilità e dimostrando agli schizzinosi indie-snob abbonati alla sperimentazione tout court – che oltre a rompere gli schemi, talvolta, destrutturano anche qualcos'altro - come si possano mettere insieme quaranta minuti di ottima musica con qualche gancio di chitarra ben assestato e una scrittura coerente.
Tanto di cappello.
[ SENTIRE ASCOLTARE - Fabrizio Zampighi ]

Esempio tenace di energie e abilità al servizio dell'autoproduzione, i Cheap Wine onorano i loro primi dieci anni con un disco che in qualche modo spezza gli equilibri delle loro precedenti uscite, cariche di un bellissimo guitar-rock americano che però aveva finito per livellarsi, mostrando il proprio diritto a sentirsi nuovamente giovane e piacente. Freak Show è dunque il lettino da chirurgo plastico su cui i fratelli Diamantini hanno adagiato il loro suono per ritoccarlo. Ecco quindi la voce di Marta Graziani che dopa Time For Action portandola su quote quasi Bellrays e le chitarre tracimare nel glam di Kenny, Freak Show (con echi dei tardi Boohoos) e Jugglers And Suckers. Tutt'intorno, il solito sfavillare di corde e tasti d'avorio, a dipingere altri capolavori come Naked Kings e Evil Ghost, più vicini al suono roots che ha garantito loro stima e rispetto per un decennio.
[ RUMORE - Franco Lys Dimauro ]

Dieci anni fa i Cheap Wine iniziavano la loro avventura fatta di sudore, chilometri e chitarre elettriche.
Sembra una storia come molte altre, ma a differenza dei soliti protagonisti - californiani... o statunitensi in generale - i nostri eroi vengono da Pesaro e cercano di convivere con l'idea di essere nati nell'ottavo mondo musicale dell'altresì noto belpaese.
Freak Show
esprime al meglio tutto quello che i Cheap Wine sono stati e saranno, perché l'avventura non finisce certo qui e di chilometri da percorrere ce ne sono ancora molti, così come non è ancora ora di mettere a tacere le chitarre elettriche, qui rabbiose come non mai.
Questo perché Freak Show può essere considerato il disco "punk" dei pesaresi.
Punk come attitudine: abrasivo, distorto, più cupo del passato e decisamente meno psichedelico.
Vengono meno le ballate figlie del Paisley Underground (nonostante la presenza di brani come Nothing Left To Say e power-ballads come Naked Kings e Evil Ghost, per chi scrive le migliori del lotto) - per anni si è parlato di loro come i nostri Dream Syndicate - in favore di overdrive vigorosi e muscolari (Dance Over Troubles), ritmiche serrate ed anfetaminiche e un cantato più rockista (Time For Action). Questi possono essere problemi per chi ha a cuore una certa idea di evoluzione, ma come la band ha dichiarato - e questo ci sembra ampiamente emblematico per la loro filosofia - "esistono solo due tipi di musica, quella buona e quella cattiva. Il resto sono solo cazzate".
Ecco perché, forse un po' cocciutamente, i Cheap Wine continuano per la loro strada rispondendo solo a loro stessi e rischiando tutto sulla loro pelle (sono alfieri dell'autoproduzione in tutti i suoi risvolti) e per questo meritano certamente un sempiterno rispetto.
Anche perché finora non hanno sbagliato un colpo.
E Freak Show non fa che confermare lo stato di salute di questa band così lontana da ogni stereotipo da poter essere considerata, a tutti gli effetti, come un pezzo da 90 di quella musica che per mere ragioni geografiche, viene considerata italiana.
[ KALPORZ - Hamilton Santià ]

Finalmente sono tornati i Cheap Wine, questa volta con un rock macinasassi, più che determinati che mai.
Il quartetto pesarese per festeggiare i dieci anni di carriera pubblica un cd irruento e pieno di energia con testi più che mai rock'n'roll.
Niente fronzoli e puro e semplice rock'n'roll: due chitarre, una batteria ed un basso, con qualche sporadico intervento di organo, l'armonica e dei cori.
I Cheap Wine partiti con un evidente omaggio al Paisley Underground, e non a caso Steve Wynn si è sempre complimentato per i loro lavori, sin dall'esordio, con questo Freak Show si sganciano definitivamente dai loro padri putativi, senza tuttavia rinnegarli (Freak Show), per dedicarsi ad un rock che ha una struttura maggiormente hard-blues dove si intrecciano i Four Horsemen e i Black Crowes con più cattiveria e meno freak (Time For Action).
Exploding Underground ha un ritmo serrato con una tensione che rende vivissimo il brano e quelle chitarre che fraseggiano in modo sublime, proprio come l'urlo che sta esplodendo dai bassifondi, citato nel testo.
Le chitarre circolari di Naked Kings poi scavano così in profondità, che ti rimettono in contatto con tanti tuoi vissuti e gli eterni sogni di rock'n'roll del nostro Peter Pan interiore.
Il testo più bello è sicuramente quella della conclusiva Evil Ghost, una splendida ballata il cui testo sembra ispirato a quel "Fiume Sand Creek" di Fabrizio De Andrè.
Ben tornati Cheap Wine.
[ ROCK ON - Vittorio Lannutti ]

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Moving
CD: "Moving" (2004)

Hey Cheap Wine! Congratulations on your latest CD. I really dig the way each of your records shows an evolution and change from the previous one. I was shocked and delighted by the opening track (have you been listening to the Grateful Dead?) and then was thrown a curveball by each of the songs after that. Nice production, wild guitar, emotional lyrics--it's all there. Good luck!
[ STEVE WYNN ]

This CD came with no information, so I put it in the player not knowing quite what to expect. The opening track "I Can Fly Away" is an acoustic folk-rock offering, with harmony vocals and an early 70's feel to it. Quite nice, I thought, and waited for track two - which proceeded to blow my head away. From 'Move Along' onward the music changes to absolutely top notch hard rock, nothing at all like that misleading first song. The band come from Italy, and comprise the Diamantini brothers Marco and Michele, alongside Francesco Zanotti and Alessandro Grazioli. All of the songs on here are written by the Diamantinis, with the exception of a superb cover of Dylan's "One More Cup Of Coffee", where they strip it down to its basics and then build it up and stretch it out to eight minutes of classic guitar rock. "Snakes" is pure Americana, with a spectral harmonica adding to the atmosphere of the chorus, and is topped off with a great guitar solo. Although Italian, the overwhelming influence here seems to be Green On Red and other bands at the harder end of the Paisley Underground movement, while "The Wheels Are On Fire" and "Haze All Down The Line" bring Zep and Hendrix to the mix, with pounding riffs and some excellent wah-wah guitar. They end the album with the eleven-minute "Fade Out", giving the Diamantini's the opportunity to showcase their superb guitar skills, and the whole band to finish on a high. A great new group, who have produced an album which encompasses all the best elements of your favourite classic hard rock bands. If you want to hear what Italy currently has to offer then check them out!
[ Peter Jolly ]

Italy's Cheap Wine's fifth CD is fascinating collection of music ranging from retro folk to powerful modern rock and alt singer/songwriter. The folksy "I Can Fly Away" has sweet vocal harmonies in the CSNY vein. "Move Along" shakes your soul with a furious guitar punch. "Snakes" begins with a slightly twisted acoustic passage, before the dramatic but edgy guitar snarl ensues. Fresh music and excellent musicianship prove that this act deserves more worldwide notice.
[ MUSIC MORSELS ]

I am totally blown away by your version of Dylan's "One More Cup of Coffee" on the new record. To me, it's the best cover version of the song that I've ever heard... even better than Robert Plant's recent studio version.
Congratulations on this fourth record. You guys are continuing to get better and better in the studio and I'm proud of ya.
I will be featuring this record on DarkSide of the Radio.
[ DARKSIDE OF THE RADIO - Jonathan Hensley ]

Cheap Wine is the hardest working band in Italy. For five years and five albums they successfully conduct their rock'n'roll career from Pesaro, a small Italian port on Adriatic Sea. With each album Cheap Wine approach heart of rock'n'roll closer and closer. If their first ep was an interesting exercise in genre, and if their previous album Crime Stories was a nostalgic
and detailed study of rock'n'roll outlaw imagery, then this new album can't be called a study or exercise, this album is a true-to-heart record, performed with meticulous originality. Cheap Wine never hid their influences, but this is their landmark record as they struck right into the center discovering their own identity. And that's what this record is about - it's about self emancipation, and self-discovery, not only of a band searching for their sound, but also of characters described in the lyrics.
Another key topic here is escape. Characters roam away and disappear to nowhere after their discovery is confirmed. Musically, songwriting is solid through the record and guitars are ringing. As usual, the key member of the band is Marco Diamantini, but this time his brother Michele took a fair share of creative input producing the record and co-writing nearly all the songs together with Marco.
There are several songs that feature a gorgeous melodious choir. Cleverly, the most beautiful choir chant was placed as an opening track to set the mood and additionally sets apart this album from the rest of their catalog. Another cool choir song is a wonderful cover of Dylan's One More Cup Of Coffee.
It is a fact that the music of Cheap Wine is full of American iconography. You'll hear songs about gunmen, outlaws, desert, Brando, Bonnie and Clyde, you'll hear about a desperate lover who hits the highway alone discovering that moving along is the only way to be. It is not a surprise to hear Italian band singing so eloquently about these things as this country produces a vast majority of european western sub-culture. Spaghetti westerns, comic books about independency wars, Indians, Wild West and swamp super heroes all come from Italy. Obviously this band swallowed all this subculture and connected it with rock'n'roll. The mixture is dense, deep and very original.
When the "americana" genre started to wear out in past couple of years, this Italian band lights up the new path which will hopefully be followed by some of their american colleagues as well.
[ THE LITTLE LIGHTHOUSE - Stan Zabic ]

Si pensava che Crime Stories fosse l'apice della loro produzione discografica e invece i pesaresi Cheap Wine sono riusciti a fare di meglio. Moving è il terrificante e straordinario nuovo disco basato sul concept del viaggio. Una prassi ormai collaudata, se il crimine e i suoi risvolti psicologici erano l'idea-concetto di Crime Stories, il viaggio è il motivo trainante di Moving, una spinta verso quei sogni e quelle illusioni che hanno alimentato fughe, movimenti, (s)confìni, strade, allucinazioni, furgoni e addii nel rock n'roll.
I Cheap Wine hanno sintetizzato e metabolizzato il loro immaginario vagante in undici canzoni dal forte dinamismo, dando prova di una convincente lirismo (i testi in inglese e in italiano sono disponibili nel booklet) e di un formidabile impatto sonoro, reso possibile dall'ottimo lavoro dei singoli musicisti e dalla produzione di Michele Diamantini, chitarrista dalle grandi risorse (da tempo continuo a metterne in evidenza le qualità, uniche nel panorama italiano) il cui suono caratterizza tutto il disco. Registrato tra febbraio e giugno presso la Studio Castriota di Marzocca (Ancona), lo studio che ha generato tutti i cinque Cd finora realizzati dai Cheap Wine, Moving è un potente attestato di rock urbano chitarristico, una tempesta elettrica sostenuta da una sezione ritmica vibrante e micidiale e da assoli di chitarre che sono un vortice di note e distorsioni. Ancora più "criminale" dello stesso Crime Stories, Moving è l'affermazione della forza, della determinazione e della statura rock dei
Cheap Wine. Musica profondamente sentita e vissuta, dura e romantica, che evoca la vita sulla strada e si alimenta di un frullato rock che mischia Dream Syndicate e Jesse Malin, Bob Dylan e Springsteen, Neil Young e Rolling Stones, il punk, la psichedelia e i suoni della New York sotterranea degli anni '70.
Moving è un disco di rock stradaiolo che ha grandi ballate e potenti stilettate elettriche. Comincia come nessuno se lo aspetta, con una canzone corale, fresca e ariosa che sembra uscita di sana pianta da un disco dei Buffalo Springfield o dei Byrds. I Can Fly Away, dice bene il titolo, si libera leggera nell'aria, è ammaliante e mostra una faccia che non conoscevamo dei Cheap Wine. Scritta dal cantante Marco Diamantini (che si è occupato di tutti i testi) e musicata da Michele Diamantini. autore delle musiche di sette brani, I Can Fly Away con le sue armonie e la sua melodia ha l'appeal di un singolo da radio americana, coinvolgente e intrigante. Non una canzonetta pop "da classifica" intendiamoci ma un brano che ha la fragranza e la bellezza dei singoli degli anni sessanta, quelli che hanno fatto la storia del pop e del rock prima che arrivassero gli ellepi.
Subito si volta pagina, il seguente Move Along vi sbatte senza tanti complimenti su una autostrada di notte, raccontando una storia di una fuga.
Marco la introduce con una voce disperata e con i fraseggi di una chitarra acustica prima che il resto della band entri di prepotenza al ritmo di una macchina impazzita che corre oltre il confine.
Selvaggia ed elettrica, Move Along è la faccia cattiva dei Cheap Wine, un rock da ultima spiaggia duro, ossessivo e rabbioso. Michele Diamantini fa sfracelli con la chitarra, erutta un sound che è figlio di Telecaster e altre frizioni elettriche. Chi lo ha visto dal vivo sa di cosa sto parlando ma Moving ha il pregio di aver trasferito in studio la sua potenza e le sue invenzioni senza perderne una briciola.
Più sincopata è Snakes, ossessiva nei suoi singhiozzi e pericolosa nella sua rivendicazione del crimine come soluzione rivoluzionaria. Si citano Bonnie e Clyde ma quello che mi viene in mente, tra tanta pazzia e disperazione, è la fuga senza speranza di Kit e Holly in La Rabbia Giovane, il film di Terence Malick (recentemente distribuito in dvd da FilmTv) che ha influenzato la scrittura di Nebraska.
Punk oltraggioso è The Wheels Are On Fire con le chitarre che sono ruote in fiamme e la sezione ritmica un rullo compressore. Zano Zanotti è in delirio e prende a martellate il mondo, Fruscio Grazioli usa il basso come un mitra mentre Marco cita Bruce, Neil, Keith, Mick e Brando e Michele distorce e va di wah wah come se di lì a poco arrivasse anche Hendrix. E difatti qualcosa del grande Jimi c'è in Moving, se non altro nel titolo di Haze All Down The Line, rimandi a una foschia che un tempo era rosso porpora.
Ma è City Lights a mettermi k.o. Il titolo mi porta, per qualche analogia, a Nightlights di Elliott Murphy e difatti il brano per buona parte è una ballata che Marco canta creando un tangibile stato di attesa e di tensione. Sembra una cosa delicata a metà tra la New York di Elliott e certe ballate degli Stones ma poi arriva il terremoto. Entra in campo la chitarra di Michele e allora quella che era una ballata diventa una deflagrazione. Una scalata al cielo con bagliori di energia elettrica, un commovente e crudo lungo assolo di Telecaster che vi spedisce nei pressi dell'olimpo del rock'n'roll, vicino a mostri sacri come Stairway To Heaven e Freebird. Un brano formidabile.
Ma le sorprese non sono finite perché quando arriva Loom And Vanish le carte si confondono. Sebbene l'armonica e il cantato sonnacchioso di Marco sembrino introdurre il Neil Young di On The Beach, è un'atmosfera rarefatta e spaziale da Pink Floyd a prendere piede, salendo dalle corde delle chitarre e dall'organo di Alessandro Castriota e diffondendo un inusuale (per i Cheap Wine) clima di calma estatica e rilassatezza.
Un'ottima trovata, che fa breccia nel granitico muro sonoro dei Cheap Wine allentando un po' la tensione. Ma è solo una pausa perché I Got Gasoline morde come un punk e Shakin' The Cage distorce un nervoso folk-rock alla maniera dei Cheap.
C'è ancora tempo per altre due perle. Sono la versione di One More Cup Of Coffee di Dylan che inizia con dei coretti degni degli Eagles di Hotel California ma che Michele "salva" con la sua arma a sei corde costruendo la più esaltante delle ballate rock. Non per niente ad un certo punto viene in mente lo Springsteen di Prove It All Night, ai tempi degli assoli fulminanti dal vivo, quando la sua Telecaster era il simbolo dell'America rock. Una lunga cavalcata elettrica, che va a braccetto con City Lights.
Poi c'è il finale. Se dal punto di vista lirico Fade Out è un po' il punto climax di Moving con quella certezza di "essere riusciti a placare la tempesta, interrompendo il conflitto dentro di noi, liberando il peso morto sull'autostrada e scomparendo in una nuvola di sabbia", dal punto di vista sonoro il brano prosegue la tendenza iniziata ai tempi di Ruby Shade con Mary ovvero quello del pezzo lungo e conclusivo (più di dodici minuti) devastante e devastato, che offre ai singoli componenti della band la libertà di spaziare e improvvisare, dando vita a un happening sonoro suggestivo e psichedelico. Elettricità, assoli, distorsioni, pause ed esplosioni inscenano un orizzonte sulfureo e acido in cui è facile trovarci vecchia psichedelia e fremiti underground in un'atmosfera dissonante e visionaria.
Un brano che non lascia scampo e non concede repliche. Come se alla fine dello show i quattro musicisti, storditi da un simile viaggio stellare, se ne andassero nella notte ognuno per conto proprio, ammutoliti e rivoltati, lasciando gli strumenti ancora caldi sul palco. Una conclusione shock, degna di un viaggio senza ritorno. Questo è Moving.
[ BUSCADERO - Mauro Zambellini ]

Difficile, davvero difficile, non subire il fascino dei Cheap Wine. Per tanti motivi, tutti validissimi: si autoproducono in modo professionale, si danno molto da fare per promuovere al meglio la loro musica in Italia e all'estero ma non cercano di imporre la loro presenza, se ne strasbattono di non essere trendy, non leccano culi... e, soprattutto, suonano alla grande, come ben pochi hanno fatto prima - almeno nell'ambito dello stile che da sempre frequentano, quello del rock di scuola americana - nella nostra Penisola.
Sì, i Cheap Wine sono proprio un gruppo magnifico, anche se non pretendono di inventare qualcosa di nuovo e si accontentano - alla loro maniera, comunque, e con il sostegno di una qualità di scrittura da fare invidia ai maestri del genere - del solco di una tradizione gloriosa dove il folk, la psichedelia, il punk e il blues si abbracciano con sempre irrefrenabile passione, ora lasciandosi andare in impetuosi amplessi e ora indugiando in morbide carezze. Il tutto omaggiando quei Dream Syndicate e quei Green On Red dei quali l'ensemble composto da Marco Diamantini (voce, armonica, chitarra ritmica), Michele Diamantini (chitarra solista e cori), Alessandro Grazioli (basso) e Francesco Zanotti (batteria) rimane uno dei più dotati eredi, sebbene le esperienze raccolte negli anni e la naturale ricerca di una propria identità lo abbiano progressivamente allontanato dai due modelli... che però sono lì, a sorridere compiaciuti e a benedire i loro figlioli mediterranei come accade ad esempio nella cadenzata Snakes (che cita in qualche modo Dan Stuart persino nel titolo) o nell'estatica City Lights (dove Marco è Steve Wynn e Michele Karl Precoda, e che provino a negarlo se ci riescono).
Sorta di concept dedicato al tema del viaggio, tra strade urbane bagnate dalla pioggia e blue highways illuminare dalla luna, Moving è un intenso, splendido album di roots'n'roll in perfetto equilibrio tra evocatività e irruenza, tra dolcezza e cattiveria, tra entusiasmo e malinconia; un disco che porrebbe tranquillamente essere il parto di una band californiana o texana, in ogni caso statunitense, e che nessuno riterrebbe mai nato tra la Pesaro dove i Nostri abitano e l'Ancona dove ha sede lo studio in cui è stato registrato. Miracoli di una musica che ormai inizia ad appartenere anche all'Italia - perché colonizzazione e globalizzazione non significano per fortuna solo McDonald's e finti talk show - e che nelle mani giuste sa come far esplodere la sua travolgente, sanguigna poesia; e non è davvero semplice, da noi così come in Europa, trovare mani più giuste di quelle dei quattro marchigiani, come implicitamente confermato dal fatto che i precedenti lavori dei Cheap Wine - il mini Pictures pubblicato nel 1997 dalla Toast e gli album A Better Place, Ruby Shade e Crime Stories, editi in regime di autarchia nel 1998, nel 2000 e nel 2002 - hanno tutti goduto di programmazione radiofonica e raccolto lusinghieri consensi dall'altro versante dell'Atlantico.
Autoprodotto come i suoi ultimi tre predecessori con il marchio Cheap Wine Records, e distribuito nei negozi dalla Venus al prezzo consigliato di 13 euro (è però possibile acquistarlo anche all'indirizzo www.cheapwine.net), Moving è la definitiva conferma dello spessore di un gruppo italiano per sbaglio: nutriste dubbi sul nostro giudizio, fidatevi delle vibrazioni e delle emozioni trasmesse da questi quasi settanta minuti di eclettiche cavalcate chitarristiche, più o meno equamente divisi tra assalti tanto ruvidi quanto melodici e ballate dove dominano le atmosfere ombrose; con l'impeccabile cover personalizzata di One More Cup Of Coffee di Bob Dylan a mo' di ciliegina sulla torta, a sottolineare che i ragazzi rispettano i mostri sacri ma non temono, con umiltà, di confrontarsi con loro.
[ MUCCHIO SELVAGGIO - Federico Guglielmi ]

I Cheap Wine tornano sul mercato con un compito difficile: quello di dare un seguito a quel capolavoro di rock prodotto in Italia che è Crime Stories uscito nel 2002.
Il nuovo disco si chiama Moving e con il predecessore ha molte analogie che vanno dal tema unico affrontato nei testi, all’alta qualità della struttura musicale che ha davvero pochi eguali nella nostra penisola. Pur restando ancorato saldamente alla propria cifra stilistica che guarda al roots rock americano, che ha come nomi tutelari i padrini Young e Dylan, seguiti dai figliocci che ci hanno fatto sognare a metà degli anni ottanta, partendo dai margini di una Los Angeles dalla vena psichedelica, il nuovo album mostra interessanti variazioni sul tema che segnano una certa diversità rispetto ai predecessori.
Se in Crime Stories era il crimine ad essere raccontato in diverse sfaccettature, in Moving si affronta il tema del viaggio. Niente di nuovo sotto questo profilo, visto che molti artisti si sono cimentati al riguardo. Ma questo non è un ostacolo, nè Marco Diamantini si arroga il diritto di dire qualcosa di nuovo. Definiamolo un esercizio di stile su un tema classico che sollecita una chiave di lettura particolare, visto che il viaggio viene sempre analizzato nella sua fase di partenza, nella voglia di utilizzarlo per affrontare l’ignoto, voltare pagina, tendere a scoprire cose nuove, e mai si arriva alla sua conclusione. Partire in questo caso non è per niente morire, quanto piuttosto un modo per rinascere anche se non si ha nessun posto dove andare, come ha insegnato Springsteen.
La notte è un’altra costante delle splendide canzoni di Moving: per niente nemica, semmai complice nel realizzare i sogni, nello spegnere la frustrazione che portano amori finiti o lavori poco soddisfacenti. Sul piano strettamente musicale le novità stanno tutte nel ruolo di maggiore protagonista che il gruppo ha ritagliato per il suo asso. Michele Diamantini si è assunto un maggiore onere compositivo, oltre ad occuparsi in toto della produzione dell’album. Ne consegue che il disco suona decisamente più rock, pur se equamente diviso tra pezzi killer dove la sua chitarra si esalta, e ballate dai toni soffusi che respirano l’aria polverosa del deserto, quanto la solitudine dei viaggi sulle backstreets affrontate di notte.
Blues, punk, folk e psichedelia si fondono come sempre al meglio, con la costante delle chitarre sempre in primo piano, sostenute dal basso di Alessandro Grazioli e dalla batteria di Francesco Zanotti ancora più efficace (se possibile) che in passato, anche se, a mio avviso, le atmosfere delle tastiere di Castriota vengono colpevolmente tenute un po’ in retroguardia. Emblematica in questo senso è la bellissima versione di One More Cup Of Coffee di Bob Dylan prima cover inserita in un album del quartetto pesarese.
Difficile fare una graduatoria dei singoli brani, anche se una citazione doverosa la merita l’iniziale I Can Fly Away che riporta indietro l’orologio della storia catapultando l’ascoltatore in piena summer of love. Un brano atipico che forse spiazzerà un tantino i fans, ma che risulta essere non un mero esercizio di stile, quanto un possibile (?) approdo futuro. E se brani come Move Along e The Wheels Are On Fire rinverdiranno i successi di brani come Behind The Bars e Waiting For A Fight altre canzoni spezzeranno i cuori dei rockers, come ad esempio City Lights o la stupefacente (in tutti i sensi) Fade Out che entrerà in seria competizione con Temptation nei futuri live.
In definitiva per Moving non si può non usare, per l’ennesima volta, il termine capolavoro.
Per me disco dell’anno.
[ ROCKIT - Eliseno Sposato ]

Non so se vi siete mai arrovellati nella ricerca della musica ideale per i vostri viaggi. Non so se avete mai sentito il bisogno di trovare la canzone perfetta per voi, la vostra auto, la strada che vi state lasciando alle spalle e quella che ancora vi separa dalla vostra meta (sempre che ce ne debba essere una).
Beh, per il sottoscritto la ricerca è ormai finita. I Cheap Wine hanno regalato a noi ed ai nostri lettori-cd un capolavoro dalla bellezza disarmante.
Questa non è la solita recensione, non ci saranno riferimenti a mostri sacri, parallelismi, paragoni, somiglianze.
Questo è un ringraziamento.
Grazie ai Cheap Wine, che vanno avanti per la loro strada, a partire dal loro primo mini-cd, Pictures, datato 1997, che si autoproducono da sempre, che suonano rock come pochi avevano mai fatto in Italia.
Grazie ai Cheap Wine che ci hanno regalato questo Moving, concept album sul viaggio, 70 minuti di emozioni intense e genuine. Moving è un disco che strega all'istante, sin dalla traccia d’apertura, I Can Fly Away, pezzo acustico e corale che ti porta a staccarti da tutto, che ti accompagna lontano…finalmente.
Il disco è un tesoro di undici tracce adatte per qualsiasi occasione, per qualsiasi panorama, per qualsiasi stato d'animo… per qualsiasi stato di confusione ed alterazione.
La musica è di quelle che guidano la mano verso la manopola del volume per "sterzarlo" decisamente verso l’alto, lasciando il suono del motore in sottofondo. Non lo cancella, ma quasi lo valorizza, unendosi in simbiosi con le immagini che ti sfrecciano di fianco.
E non importa se non c'è nessun posto dove andare, perché l'importante è non fermarsi, in ogni caso.
I Cheap Wine riescono con sorprendente agilità a saltare da ballad emozionanti a staffilate di puro rock sanguigno, da sezioni ritmiche che scandiscono l'avanzare del tempo a battiti frenetici e senza respiro.
I quattro pesaresi, nello snodarsi del disco, quasi ci guidano nella spinta del piede sull'acceleratore.
Ed è così che in The Wheels Are On Fire (Le ruote sono in fiamme) finisci con il ritrovarti in una specie di paradiso della musica dove Jimi Hendrix e Bruce Springsteen ridono in un furgone, Dylan canta "Hurricane", i Rolling Stones sono sballati come sempre e ruotano in una danza selvaggia, Neil Young è insieme a Marlon Brando e Jim… beh, Jim è già lontano.
Oppure potresti immergerti nella foschia di Haze All Down The Line abbandonando l’ansia di tutti i giorni e smettendola di dar retta alle stronzate.
Le canzoni tendono a dilatarsi, allungarsi, preda di uno stato di tensione che, sembra un'idiozia, è stranamente rilassato. Ogni pezzo è una spirale di emozioni impossibile da classificare, su tutti la stupenda City Lights, ballata acustica ed intensa che, con il passare dei minuti, si trasforma in un muro di suono distorto…di quelli di alta qualità, che non ha la sfacciataggine di impennare i decibel fino al cielo, ma li tiene ben ancorati e dosati, sulla soglia dell'esplosione finale.
Le chitarre di questo Moving sono capaci di portare chiunque in un viaggio parallelo, da acustiche a blues, da… "allucinate" alla distorsione pura, dai wah wah agli assoli che vorresti non finissero mai; mai suonate nella ricerca del preziosismo tecnico, quasi borioso… bensì semplici ed in una maniera così ben incastonata che difficilmente riesci ad immaginare un modo diverso in cui potessero suonare.
I Cheap Wine hanno un feeling speciale con la musica o musicalità, su questo c'è ben poco da dire.
Questo è un disco da avere a tutti i costi, perché è ben suonato, perché è ben realizzato, perché è profondamente rock, ma soprattutto perché è emozionante.
Ed in fondo, cos'è che cerchiamo nella musica se non quelle note capaci di emozionarci all'infinito?
[ RADIO CIROMA - Luigi Gaudio ]

Impossibile parlare di attitudine indipendente in Italia senza tirare in ballo i Cheap Wine. Esemplare, in tal senso, il percorso dei quattro marchigiani che, dopo un primo EP targato Toast (“Pictures”, 1997), hanno sempre perseguito la strada dell’autoproduzione, mantenendo così il completo controllo su ogni aspetto della loro vicenda musicale. Discorso che, naturalmente, si ripropone per il loro quarto album, Moving, sorta di concept incentrato sul tema del viaggio.
Un viaggio su strade desolate e desertiche, fatto di canzoni che si inseriscono a buon diritto e – fondamentale! – con spiccata personalità nel filone del più tipico rock elettroacustico a stelle e strisce (da Springsteen ai Dream Syndicate), ma che non rinunciano a ibridazioni assortite e sapide deviazioni folk-pop-psichedeliche (I Can Fly Away). Gradito bonus, una riuscita ripresa della dylaniana One More Cup Of Coffee.
Non fatevi distrarre da mere questioni di genere: non ce ne sono molti, da noi, di gruppi così.
[ LOSING TODAY - Giacomo Marrone ]

Rimango meravigliato sempre più ad ogni uscita discografica dei Cheap Wine. Ricordo ancora il giorno in cui acquistai il loro primo mini Pictures in un compianto negozio di dischi di Rimini (New Note) e da allora con immutato affetto seguo la formazione pesarese passo dopo passo.
Questo Moving è il disco più bello e convincente della band!
Partiamo dai suoni che sono di una purezza cristallina le chitarre come mai fin ora riescono a ricamare tessuti melodici di rara bellezza (City Lights) o ad abbracciare sonorità mai toccate come nell'iniziale I Can Fly Away.
Gli orizzonti musicali della band sembrano essersi aperti a soluzioni melodiche fin qui mai sperimentate, rock sì, ma i riferimenti ai '60, '70 e '80 ci sono tutti. Ecco che allora questo Moving diventa viaggio non solo come ambientazione lirica ma un viaggio musicale vero e proprio.
11 canzoni che raccontano ognuna una storia diversa che ci porta più volte in territorio statunitense perchè le loro ballads e rock-songs, è da li che prendono origine. Le chitarre di Move Along corrono su lunghi interminabili rettilinei ed i serpenti di Snakes sembrano usciti dalle polverose strade di una città abbandonata ai confini del Texas ma l'urbana The Wheels Are On Fire ci riporta ad una diversa realtà anche se l'armonica e la chitarra tracciano due linee di unione ben marcate. Haze all Down The Line è così potente da toglierti il respiro. Pascoli sconfinati sono quelli che vengono dipinti dalla slide di Loom And Vanish mentre I Got Gasoline sembra un eufemismo visto la carica di ottani che sprigiona tutta la canzone. One More Cup Of Coffee è una splendida ballata dylaniana sofferta e palpitante con le chitarre che ne escono ancora una volta vincitrici con quel solo di due minuti che vorremmo non finisse mai.
Se dovessi scegliere un singolo questo sarebbe Shakin' The Cage frizzante e spregiudicato, con un ritornello orecchiabile e dalla atmosfera gioiosa: grande canzone! Il disco si conclude sfumando con Fade Out... (ops! perdonate il gioco di parole!) ipnotica ballata dalle cadenze psichedeliche, altro grande pezzo, 12 minuti che concludono alla stragrande uno dei dischi più belli di questo 2004!
Il mio consiglio spassionato a tutti coloro che amano il rock è di correre ad acquistare questo disco italiano che per soli 13 euro vi offre 1 ora abbondante di grande, grande e ribadisco grande musica, superbi assoli, strepitose chitarre, sensazionali cori, per un un grande disco ITALIANO e se il rock vive e pulsa è anche merito dei Cheap Wine!
[ BACKSTREETS - Gabriele Guerra ]

E' facile intuire come finirà il novanta per cento delle recensioni e dei commenti a Moving dei Cheap Wine: si meriterebbero di più. Invece no: si meritano questo disco, così come ce lo meritiamo noi, punto e a capo. Intuire il senso di questo passaggio non vuol dire soltanto capire l'intima essenza di Moving (che è uno splendido disco), ma anche percepire le radici primordiali del rock'n'roll e la sua ultima libertà.
Piccola parentesi industriale: i Cheap Wine hanno avuto un estemporaneo rapporto con una parvenza di etichetta discografica. Risultato: un fallimento all down the line. Dato che sono ragazzi svegli, da allora (erano i tempi di Pictures) in poi i dischi se li producono (e se li vendono da soli) e sono uno meglio dell'altro. Moving ha qualche motivo in più per essere ricordato perché, pur non essendo una svolta netta rispetto a Crime Stories, Ruby Shade o A Better Place, da una parte si avvicina moltissimo ai Cheap Wine live e dall'altra mostra uno spettro di sonorità non del tutto inedito, ma che finalmente il gruppo dei fratelli Diamantini padroneggia come proprio.
Le sorprese cominciano subito da I Can Fly Away, che sembra un reperto della Summer of Love: chitarre acustiche, psichedelia, le voci che armonizzato e s'intrecciano, i Jefferson Airplane nell'aria. Eterea e bellissima, almeno quanto la versione di One More Cup Of Coffee (Bob Dylan) dove una chitarra acidissima s'infila tra le note del piano, dimostrando che i Cheap Wine hanno allungato il passo. Qui gioca un ruolo di rilievo Marco Diamantini che schiva l'ennesima imitazione di Bob Dylan per regalarci una versione vocale personale e molto profonda.
Tra questi due estremi soffusi, ci stanno poi i Cheap Wine maturati dall'esperienza on the road, a cui il titolo allude senza remore: le furie chitarristiche di Move Along, The Wheels Are On Fire e Haze All Down The Line (un grande titolo che in un colpo associa Jimi Hendrix e Rolling Stone), I Got Gasoline convivono senza problemi con la psichedelia di Loom And Vanish e Fade Out (e qui sembra di sentire persino i migliori Pink Floyd), con il drive springsteeniano di Shakin' The Cage, il turbinio blues di Snakes e con una ballata come City Lights. Ancora una volta, il titolo qui nasconde un (forse inconscio) tributo alla Beat Generation (la City Lights di San Francisco, dove tutto ebbe inizio), ma è tutto Moving ad essere impregnato all'epica della vita on the road che, ieri ed oggi, è più la vita delle rock'n'roll band che dei poeti. Fedeli fino in fondo a queste motivazioni (sulla strada ci stanno loro, non altri) i Cheap Wine hanno fatto tutto da soli e alla produzione hanno messo Michele Diamantini che, al di là dei suoni, ha avuto l'intuizione di lasciare scorrere le canzoni, le chitarre e quant'altro forma l'essenza dei Cheap Wine senza guardare le lancette dei minuti e dei secondi.
Il risultato potrà suonare quindi out of time, ma è rock'n'roll al cento per cento.
[ ROOTS HIGHWAY - Marco Denti ]

Moving è un verbo molto rock, che lo si intenda come un movimento dettato dalla musica o come uno spostamento, una fuga.
I Cheap Wine lo hanno preso a titolo del loro nuovo disco: nessuno ne ha maggior diritto di loro, almeno in Italia, visto come ne incarnano ogni senso, a partire dai personaggi delle loro canzoni, sempre al limite della legalità e della normalità, e perciò sempre in fuga.
Moving si riallaccia al precedente Crime Stories per le tematiche narrative e sonore, costituendone un nuovo capitolo, ancora più saldo e profondo. Nel caso vi siate perso gli episodi precedenti, il consiglio è quello di ricorrere all’acquisto direttamente dal sito della band (www.cheapwine.net) per meglio cogliere la portata di questo album.
I fratelli Diamantini proseguono la loro storia indipendentemente dall’ambiente in cui si trovano, anzi, Moving potrebbe essere inteso anche come una reazione di fronte all’appiattimento che il rock sta subendo.
Ancora più che in Crime Stories i Cheap Wine suonano ignorando il regime di libertà vigilata concesso in un disco: la durata dei brani supera ampiamente la media, sfiorando anche i nove minuti e soprattutto inseguendo ostinatamente un ideale live. Oltre alle consuete scorribande elettriche, in bilico tra Paisley Underground e hard-rock, che sono il marchio di fabbrica della band, c’è una dilatazione strumentale, che dà nuova forza al suono e che lo fa se possibile avanzare rispetto a quanto fatto in precedenza.
Pur essendo un pezzo acustico, già l’iniziale I Can Fly Away è indice di una tensione liberatoria: il rimando alla West Coast dei Jefferson Airplane e dei Grateful Dead sfocia in un ritmo finale che ha il battito degli Who, ma è solo un segnale di quanto verrà poi sviluppato all’interno del disco.
A livello narrativo, Bonnie & Clyde e Dean Moriarty sono le facce più identificabili tra i fuggitivi di cui vive Moving.
All’identikit corrisponde anche una cover di One More Cup Of Coffee, con la slide di Michele e la voce di Marco, che lasciano intravedere la sagoma di Dylan solo in lontanza, per poi cancellarne con furia qualunque traccia con Shakin' The Cage.
I Cheap Wine si muovono come cavalli allo stato brado, guidati da un istinto rock che vale più di una coscienza: si permettono code strumentali, che non sono jam, ma parte organica e necessaria dei pezzi, con l’armonica usata spesso come voce solista in risposta alla chitarra elettrica. Michele Diamantini ha poi sviluppato un fiuto per un chitarrismo sanguigno, teso e assetato come un blues, mai abbagliato da miraggi o da futili obiettivi.
Move Along e Snakes sono due esempi di come i Cheap Wine sappiano marchiare a fuoco il rock, caricandolo di forza senza mai lasciarlo in balia di se stesso.
Nei pezzi tirati e soprattutto nelle ballate si respirano un’atmosfera da borderline, un’aria di confine, un brivido di ignoto, che richiedono la massima allerta: Moving è un disco su cui ogni appassionato di rock dovrebbe mettere una taglia.
[ MESCALINA - Christian Verzeletti ]

Incentrato sulla tematica del viaggio, nel suo esser sinonimo di libertà ed indipendenza, questo quinto disco dei marchigiani Cheap Wine è la conferma della solidità e della maturità raggiunta da questo gruppo, ammirevole per la coerenza con cui da anni ormai segue il suo percorso, incurante di mode e tendenze che girano intorno. Fare del rock di stampo americano in Italia è sempre stato difficile, per la difficoltà di scrollarsi i riferimenti ai padrini del genere e raggiungere una cifra stilistica personale.
I Cheap Wine, insieme a Graziano Romani, sono gli unici ad essere riusciti nell’impresa: se l’ascolto dei brani di Moving ogni tanto fa venire in mente Mellencamp piuttosto che Springsteen o Neil Young, è solo per una sorta di deformazione da appassionati che fa cogliere anche i dettagli minimi; in realtà queste canzoni vivono di luce propria: ora incalzanti e stradaioli (Move Along, Haze All Down The Line), ora psichedelici ( I Can Fly Away, Fade Out), ora romantici in modo struggente (City Lights), i brani di Moving sono di quelli che ti entrano nel cuore se hai una certa idea di America. E alla fine il fatto che ci sia un canzone firmata Dylan (One More Cup Of Coffee) è solo uno dei tanti motivi, e non il più importante, per consigliare l’acquisto di questo disco.
[ ID BOX.IT - Giovanni Distaso ]

Intraprendere un viaggio per allontanarsi dal presente, per ribellarsi al passato, per fuggire senza meta, questo è il leit motiv di Moving, ultimo ottimo disco dei Cheap Wine, una della band più interessanti della scena alternative italiana.
Registrato tra febbraio e giugno 2004 e autoprodotto, è il disco della maturità della band pesarese guidata dai fratelli Diamantini. Undici brani per 68 minuti di ascolto, che trasportano l'ascoltatore in un viaggio che parte dalle atmosfere oniriche di I Can Fly Away, un brano dalle atmosfere West Coast.
Con Move Along quello che sembrava un sogno diventa una sorta di incubo da cui liberarsi trascinati dalla potenza delle chitarre e dell'ottima sezione ritmica. Se il brano successivo, Snakes, sembra una outtake di Crime Stories, in cui Marco Diamantini ripropone la sua voce sofferta da "murder ballader", con The Wheels Are On Fire e City Lights il viaggio prende il via alla grande, guidato dallo splendido intreccio di chitarre elettriche e acustiche. Il disco non cala mai di tono, anzi è un crescendo di emozioni che culminano nel gioiellino Loom And Vanish, in cui brilla l'eccellente intreccio tra chitarre acustiche e Hammond e nella bella cover di One More Cup Of Coffee di Bob Dylan, che si inserisce alla perfezione nel contesto di questa sorta di concept-album.
Il finale, con Shakin' The Cage, in cui citano nel fraseggio di armonica I Want You di Bob Dylan, e l'elettro-acustica Fade Out, è tutto da ascoltare con la mente lì sulla strada, la stessa di Jack Kerouac e Bruce Chatwin.
Un disco emozionante, avvincente come un viaggio senza meta.
[ JAM - Salvatore Esposito ]

Ne hanno fatta di strada i Cheap Wine: attivi sin dal 1997, giungono ora con questo Moving al quinto capitolo della loro discografia.
Ve lo dico subito, Moving è un disco bellissimo: ben prodotto (e i Cheap Wine si autoproducono da sempre), suonato alla grande, con il cuore e grande perizia, concreto e senza troppi fronzoli e, quel che conta di più, è composto da 11 canzoni, una delle quali One More Cup Of Coffee di Bob Dylan, passionali ed intensissime.
I Cheap Wine fanno Rock, in tutto e per tutto, un Rock "classico" e chitarroso che si può tranquillamente ricondurre ai Dream Syndicate o al Neil Young più ruvido. Il peso dei nomi tirati in ballo potrebbe far pensare ad un gruppo totalmente rinchiuso nel desiderio di rivisitare soluzioni già sperimentate da un numero enorme di formazioni soprattutto dall'altra parte dell'Oceano, ma non è così: i Cheap Wine hanno maturato col tempo un songwriting personale così ben definito da impedire sempre alle loro composizioni di scadere nel banale citazionismo. Per questa ragione brani come l'iniziale I Can Fly Away, dal sapore sixties e whoiano, Move Along, Snakes e City Lights che competono per la palma di miglior brano del lotto, The Wheels Are On Fire o la conclusiva, languida Fade Out spiccano sempre per la loro concretezza ed onestà, dove una ricerca melodica attenta si mischia ad un uso preponderante delle chitarre, per creare un unicum solido ed intentissimo.
I Cheap Wine non inventano nulla, nè desiderano farlo, ma la passione che mettono nella loro musica consente loro di essere promossi a pieni voti. Moving è un disco incentrato sulla tematica del viaggio, del movimento come eterna fonte di emozioni. Se il percorso intrapreso dai nostri proseguirà su questo tracciato, non possiamo far altro che applaudire questa formazione, segnalando Moving come una delle uscite migliori di questo 2004 per quanto riguarda il Rock italiano.
Driving across the line, I'm gonna fade away. I got no place to go, but I'm movin' all the same.
Buon viaggio.
[ LIVE ROCK - Philip Di Salvo ]

I Cheap Wine, mai paghi di stupirci con effetti speciali, ci offrono nuovamente un prodotto di classe cristallina dopo il già stupendo Crime Stories. Un disco di viaggio, stradaiolo, lungo highways assolate e semidesertiche, musica ideale per lungi tragitti; in primo piano le chitarre dei fantastici Diamantini, gli autori più eclettici e "americani" della nostra penisola.
Un disco arrangiato con sensibilità d'altri tempi, che riesce a mescolare sapientemente scure atmosfere elettriche e distorte a ballate psichedeliche e corali come I Can Fly Away, e ancora a chitarre nervose e taglienti come fulmini, offrendoci uno spaccato sempre in bilico tra dolcezza e rudezza, tra aperture e chiusure, come in una continua prova di equilibrio, come in effetti è la stessa vita.
E dunque, ancora una volta siamo a parlare di un ottimo lavoro, che premia nuovamente la scelta consapevolmente autarchica della band (13 euro distribuzione Venus), e che consigliamo spassionatamente a tutti gli amanti del rock e senza distinzione, per tutti gli amanti della buona musica.
[ CARTA IGIENICA - Fuzz ]

Quarto full-lenght per i Cheap wine, formazione poco nota al grande pubblico italiano ma che nel tempo ha saputo farsi apprezzare anche e soprattutto oltreoceano.
Moving è dylaniano nei testi, nelle tematiche e nei suoni; il tema del viaggio  è il concept di un album che parla di ribellione, indipendenza, fuga da un luogo sempre e perennemente instabile.
Moving è un lavoro poco patinato che riesce a mantenere un concept forte ed empaticamente coinvolgente, cavalcando con grande sensibilità tematiche classiche del rock autoriale.
Lo schema di composizione è imperniato su una chitarra acustica iniziatica che scandisce e accompagna l'ascoltatore durante il viaggio; l'incrocio acustico-elettrico fa da sfondo al racconto.
Confini, foschia, luci, fiumi e metropoli lungo le strada di un rock solcato, consolidato, suonato con passione.
Si passa dalle atmosfere musicali più riflessive (vedi I Can Fly Away e City Lights) a locali fumosi e di passaggio (vedi The Wheels Are On Fire e Haze All Down The Line).
Bellissima la traccia finale Fade Out, che segna l'unica possibile fine di un viaggio incessantemente alla ricerca di un luogo da abbandonare: la dissolvenza.
Niente di nuovo, ma tutto stilisticamente perfetto: non c'è che dire, Moving è un concept-album davvero emozionante.
[ ALTERNATIZINE - Stefano Bernardi ]

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Crime Stories
CD: "Crime Stories" (2002)

"Crime Stories" sounds great! Very ROCKING and some very cool guitar work. Glad to see you're still making good music.
[ STEVE WYNN ]

Keeps getting better all the time. And i really dig that artwork. Lots a talent in the Cheap Wine camp. Even after a 2,000 mile drive I can dig it.
[ CHUCK PROPHET ]

I like it very much, the "crime" theme is cool.
[ AL PERRY ]

This record is a very great record that will get much airplay on my internet radio station, one of the nets largest classic
rock/rock radio stations, DarkSide of the Radio (www.dsotr.8m.com). It's very nice to know that a band is still playing this style of music yet being so very original with the traditional rock sounds they produce. This record is very diverse and deep. The theme behind the record is a Waters like theme and is done perfectly with the lyrics, music, the cover art, and packaging. Buy this record today, I highly suggest it... it's clearly one of the best records I've heard this year, and I've heard lots of records this year.
[ DarkSide of the Radio - Jonathan Hensley ]

Cheap Wine number four is out. The album is called Crime Stories. It's a loose concept album about crime and punishment. It's a rock album so it's far less ambitious than Dostoyevski. Still, this album brings a lot of thrills for people who appreciate rock'n'roll. The scene is set with two irresistable rockers, Dream Seller and Coming Breakdown. Storytelling talents of Marco Diamantini perhaps shine even brighter than before. The music is still under a heavy influence of brilliant american songwriters such as Steve Wynn and Lou Reed (hear Scatterbrain!). But the influence is far from being overbearing. Actually, band carries those influences with pride and it's almost as if those famous people give creative wings and quality to this band. Album's central point is the lengthy work entitled Temptation in which Marco's brother Michele adds some really dense and psychedelic musical texture to somewhat minimalist Marco's lyrics.
[ The Little Lighthouse - Stanislav Zabic ]

Hellishly classy album - traces of The Stones, Nick Cave and the band's own brand of full on rock. I 'think' the band hail from Italy, but the feel and mood of the album isn't. The booklet that comes with the cd is almost a work of art. Each songs has it's own cartoon (Manga style, or like The Gorillaz) with lyrics in English and underneath in Italian (I think!). It's quite surprising how much variety the band allow - we go from straight ahead rock (Scatterbrain) to the Nick Cave/Stones kinda style of Murderer Song. As the album's title suggests, the amount of violence, or allusion to, is pretty strong, but they don't half write some damn catchy songs. Twelve in all, with definite stand outs being Murderer Song, Tryin' To Lend A Hand, Temptation and Dream Seller. Know bugger all about the band, but you can trust me on this, that if you like well defined rock, cracking production and an all round smart little package, then try and find out more via the web. Don't be put off by the amount of web sites you'll get selling cheap wine, though! Persist.
[ Modern Dance - Dw ]

Al quarto disco i Cheap Wine scelgono la strada del concept album. Dopo l'ottimo impatto suscitato da Ruby Shade anche in terra americana, il quartetto pesarese mette a frutto il miglior lavoro della propria produzione ideando una sorta di viaggio nel mondo del crimine inteso in senso lato. Crimine come trasgressione di una regola precostituita, come mancato rispetto verso se stessi e le proprie aspirazioni, come realizzazione di "ciò che non si dovrebbe fare".
L'intenzione è quella di indagare sulle motivazioni, la psiche e i presupposti di chi commette un crimine o infrange una regola. Fino al delitto ineluttabile, guidato dal destino. Crime Stories si spinge a guardare come e da dove nasce l'inquietudine che spinge ad oltrepassare il confine del "lecito".
Un occhio freddo sulla sottile linea di frontiera tra bene e male attraverso testi che non partecipano al crimine ma lo osservano nelle tante sfumature psicologiche, ricorrendo a un modo di scrivere da letteratura noir con grossi riferimenti al panorama fumettistico dell'horror e dello splatter.
Come d'altra parte suggerisce l'ottimo lavoro grafico (della copertina e del booklet) del batterista Francesco "Zano" Zanotti, cartoonist dal tratto personale e spiritoso.
Crime Stories
è un album interessante e originale, che si differenzia da tutti i lavori del genere proprio per la scelta tematica che ne sta alla base e lo sviluppo che ne viene dato di questa tramite testi intelligenti che ricorrono alla fiction e a una rielaborazione "romanzata" di una certa realtà nera.
I Cheap Wine, per merito soprattutto della penna del cantante Marco Diamantini, si trovano a loro agio in questo universo scuro e malato, come lo furono al tempo i Green On Red di "Scapegoats" e di "The Killer Inside Me" quando dovettero esplorare la terra di nessuno dell'hard-boiled americano tra eroi in negativo e fughe nel deserto.
Se questa è la parte concettuale del disco, che le parole di Dream Seller riescono approssimativamente a sintetizzare ("Non riesco a svegliarmi prima di mezzogiorno perché di notte non dormo mai. Il mio lavoro non funziona con la luce del giorno, quando cala l'oscurità, allora puoi chiamarmi"), i suoni di Crime Stories sono un ulteriore assalto frontale al normale ordine delle cose, con una cascata di elettricità, di energia e di potenza che raramente si era visto in un disco di rock concepito in Italia.
Completamente abbandonato ogni riferimento rootsy, il gruppo pesarese pesta duro come non mai, inanellando una serie di tracce crude e violente dal punto di vista del suono, dove a dominare è la strepitosa chitarra di Michele Diamantini, l'esempio più eclatante di come un grande chitarrista possa continuamente essere ignorato dal mondo musicale italiano. Con lui si muove la rocciosa sezione ritmica-killer del duo Zanotti-Grazioli (batteria e basso) e il leader Marco Diamantini che con le sue chitarre e la sua armonica riempie gli spazi di un quartetto votato a un rock duro, roccioso e metropolitano.
Per intenderci qui non si parla di heavy metal anche se il concept dell'album lo potrebbe far pensare, piuttosto a quel fiotto di energia elettrica che esalavano i Green On Red più cattivi e soprattutto i Dream Syndicate dell'era Precoda.
Esaltanti sono le entrate e i break di alcune canzoni (ma è il caso di chiamarle così?!) come Scatterbrain (grandiosa la chitarra di Michele), come Coming Breakdown (una turbina Pelton la sezione ritmica), come Temptation, un brano terrificante per la tensione che riesce prima a creare e poi a sviluppare secondo una modalità strumentale che vede il cantato lugubre di Marco trovare spiragli in una pioggia di suoni acidi, di sventolate chitarristiche e di stridii metallici degni del miglior film horror.
Funziona a meraviglia il compatto sound dei Cheap Wine, aiutato qui e là dalle tastiere di Alessandro Castriota, anche nella delirante Waitin' ForA Fight, nel potente rock n'roll di Reckless e nella veloce Castaway (di nuovo decisivo il gioco di chitarra di Michele) mentre la conclusiva Tryin' To Lend a Hand segna l'apoteosi di "Crime Stories" con una prima parte di deciso sapore Neil Young, tanto di ballata, voce imbambolata e chitarra-acustica e un finale di feroce e apocalittico rock desertico.
Una struttura già esplorata con Mary in Ruby Shade e che sembra far faville anche in queste storie di crimine. Sentire, ad esempio, Behind The Bars un'ottima ballata dai toni elettroacustici contrassegnata dal violino di Alessandra Franceschetti e in Looking For A Crime dove si è letteralmente travolti da una tempesta di suoni elettrici dopo un inizio lento e "drogato".
Per questo disco, ancora una volta, i Cheap Wine hanno scelto la strada dell'autoproduzione ribadendo la loro assoluta libertà e indipendenza, termine che nel loro caso ha un senso e un fondamento e non è una facile etichetta di propaganda.
Crime Stories
dimostra che se si hanno idee, passioni e si lavora duro con gli strumenti i risultati (artistici) si ottengono. Crime Stories è un grande album.
[ BUSCADERO - Mauro Zambellini ]

E' con orgoglio che ospito su queste colonne il terzo album full-length dei pesaresi Cheap Wine, una band che sarebbe sciocco confinare al ghetto del (desolante) "panorama Italia", dacché il loro incendiario rock'n'roll vale quanto e forse più di qualsiasi altro disco possiate scovare nella presente rubrica.
Be', lasciatemi sgombrare il campo da dubbi inutili e paragoni fuorvianti per farmi dire che se parliamo appunto di rock'n'roll questi ragazzi non temono confronti ne al di qua ne al di là dell'oceano, capaci come sono di lanciarsi in un furibondo impasto sonoro dove il lirismo di Springsteen, l'arsenale chitarristico delle leggende sudiste, l'ottovolante errebì di Stones e primi Who, l'acida irruenza del Paisley, il romanticismo disperato diJim Carroll o Richard Hell e il nervoso folk-rock di Neil Young (magari filtrato attraverso lo scazzo country & western dei numi tutelari Green On Red) coagulano con freschezza inaudita.
Il bello è che Crime Stories, nonostante le mille influenze percepibili con chiarezza, finisce per assomigliare esclusivamente a se stesso: da queste parti la matematica è un'opinione, e la sommatoria di tante passioni e tanti ascolti non può in alcun modo ridursi alla pura calligrafia o a una semplice combinazione di trascrizioni e accordi.
Nei suoni di questo album, peraltro perfetti (e il solo Ligabue, nella penisola, può permettersi una simile attenzione ai particolari di studio), nel canto ora trattenuto ora vivido e sgraziato di Marco Diamantini, in quel bulldozer a sei corde del fratello Michele (uno che Allmans e Skynyrds deve averli ascoltati alla nausea), nelle devastanti progressioni della sezione ritmica di Alessandro Grazioli e Francesco "Zano" Zanotti (eccellente "matitaro", tra le altre cose), risaltano con immediatezza una passione bruciante e una fede incrollabile nel rock'n'roll come life-style, con tutto quello che ciò comporta, piuttosto che come professione o svago. L'evoluzione dei loro dischi rispecchia appieno tanta coerenza etica e progettuale: Crime Stories riprende, sgrezza e rende ulteriormente compiute tutte quelle coordinate stilistiche già affiorate nei precedenti A Better Place (1998) e Ruby Shade (2000), sicché nessuno si stupisca se la tempesta elettrica di Temptation, nel suo fragoroso matrimonio tra Quicksilver e Sonic Youth, suona come la sorella maggiore, più saggia e smaliziata, della classica Among The Stones, uno dei punti fermi nelle esibizioni live del gruppo. Allo stesso modo, le cartucce sparate con maggiore veemenza - dall'impressionante rifferama di Dream Seller alle randellate heavy di Coming Breakdown, dalla sinfonia per assoli spettacolosa e granitica di Scatterbrain alla convulsa aggressività di Waitin' For A Fight, dall'indiavolata Reckless a una Castaway che sembra Cortez The Killer eseguita sotto anfetamine e che renderebbe senz'altro orgogliosi i più selvaggi Crazy Horse - riflettono un'evoluzione che, passo dopo passo, ha raggiunto una consistenza invidiabile.
Alla stessa voce (impegno + dedizione = risultati) rubricherei l'azzeccato impiego del pianoforte di Alessandro Castriota e del violino di Alessandra Franceschetti dei Linea Maginot, determinanti il primo nell'economia di tutto Crime Stories, la seconda nell'impalcatura della ruggente Behind The Bars e della citata Temptation.
Lasciano di stucco, infine, i brani a marcia scalata, quelli nei quali i Cheap Wine s'erano dimostrati in passato più tentennanti, o meno personali. Qui, al contrario, sono proprio le ballate, pur fosche e serrate, a simboleggiare il valore aggiunto di un disco da mandare a memoria nella sua interezza (un'ora e passa senza lo straccio di un cedimento): Murderer Song sembra proprio un'outtake ancor più visionaria dei Green On Red periodo "Gas, Food & Lodging" o dei Giant Sand più rootsy; la magnifica Looking For A Crime (per il sottoscritto, lo zenith dell'album), con quell'andatura caracollante e quell'organo alla Chiris Cacavas in sottofondo, incarna una via nostrana all'epica rock che non ha nulla da invidiare alla Merrittville che fu dei Dream Syndicate; l'armonica di I Like Your Smell evoca frontiere immaginarie e rapisce i sensi; i sette minuti tra Tom Petty e Social Distortion della conclusiva Tryin' To Lend A Hand suggellano nel migliore dei modi possibili un disco hard-boiled nei contenuti e nella sostanza. Fatevi avanti, cari lettori, ricacciate i pregiudizi esterofili in un cantuccio e fatevi avanti: in Crime Stories c'è fuoco a sufficienza per vedere una nuova luce.
[ LATE FOR THE SKY - Gianfranco Callieri ]

I Cheap Wine sono un gruppo rigoroso. Fedeli alla linea del rock 'n'roll che perseguono fin dagli esordi. Mi verrebbe da definirli dei Fugazi italiani, per la fierezza che hanno dell'essere indipendenti, convinti giustamente come sono, che il fare da sé può rivelarsi ancora una carta vincente.
Vincente come i suoni che escono da Crime Stories quarta prova discografica del quartetto pesarese. Il disco parte da presupposti difficili come l'idea del "concept album" con dodici brani che vogliono indagare il mondo del crimine, inteso più come avversione per le regole, travalicare i confini del lecito, piuttosto che commettere delitti tout court. Cosa si nasconde dietro questo aspetto? Molto spesso uomini soli, consapevoli di non potere o volere trovare e sopportare relazioni di ogni genere, siano esse sentimentali o sociali. Tematiche appunto difficili da rendere fruibili in un linguaggio popular, ma che vengono mediate in positivo dalla sintesi ottenuta dai Cheap Wine in questi anni.
Il cd scorre come un lungo viaggio da percorrere a tappe, e queste vengono ben rappresentate dall'alternarsi di tematiche sonore che viaggiano sull'asse Detroit-Sidney (Coming Breakdown e Waitin' For A Fight) non disdegnando di abbeverarsi alla fonte del classico rock americano di personaggi come Springsteen e Neil Young che si fondono a meraviglia nel brano migliore dell'album, qual è a mio avviso Castaway.
A stemperare la tensione affiorano ottime ballate (Murderer Song, I Like Your Smell) che potrebbero sfondare nelle programmazioni radiofoniche intelligenti.
Arricchito dalle tastiere di Alessandro Castriota e dal violino di Alessandra Franceschetti dei Linea Maginot, Crime Stories sancisce definitivamente la fine dell'era Paisley Underground con la quale i critici, troppo spesso con superficialità, hanno coperto il superbo songwriting di Marco Diamantini che non rinnega le radici americane, ma le porta giustamente con orgoglio ad una sintesi personale.
A suggello di dodici splendide canzoni, una confezione curatissima nei suoni e negli splendidi disegni presenti sul booklet, che sono opera del batterista "Zano" e che sintetizzano a meraviglia il carattere noir di ogni brano. Un'opera all'interno dell'opera.
Se l'Italia fosse un paese normale, questo disco finirebbe in classifica, purtroppo ha bisogno del tam tam dei veri appassionati, ed allora iniziamo a spargere la voce.
[ FREAK OUT - Eliseno Sposato ]

I Cheap Wine sono: Marco Diamantini (voce e chitarre), Michele Diamantini (voci e chitarre), Alessandro Grazioli (basso) e Francesco Zanotti (batteria).
Non si dovrebbe cominciare una recensione in maniera così diretta, ma questi quattro pesaresi meritano parole evidenti, forti e precise, come la direzione del loro rock.
Già li avevo incontrati anni fa ad un concerto all'epoca di A Better Place (1998) e ora mi ritrovo sorpreso di fronte a Crime Stories, loro quarto album: maturati, capaci di imporsi con un suono proprio e addirittura di costruire un concept album, roba che di solito è esclusiva di artisti stranieri.
Con Crime Stories, si diceva, i Cheap Wine non si propongono, ma si impongono: lo spessore sonoro è parallelo e assolutamente coerente con i testi delle canzoni, che scavano nella psicologia del crimine, nelle contorte sfaccettature di chi vi cerca una via d'uscita, un modo per realizzarsi e per salvarsi.
I punti di riferimento sono i Dream Syndicate e i Green on Red di "The killer inside me", ma il suono dei Cheap Wine è oggi se possibile ancora più diretto, più duro, a tratti arriva a mescolarsi con l'hard rock. Vengono in mente anche la ruggine dei Crazy Horse e l'andamento sbilenco delle ballate di Neil Young, ma la compattezza dell'insieme è tale che fermarsi a riconoscere le orme lasciate da altri, significherebbe abbassare lo sguardo e perdere di vista la strada che questi ragazzi stanno battendo.
Il disco è giocato sull'alternanza tra illusioni e sensi d'oppressione, tra assalti impetuosi e ballate interiori. Tutto è costruito in vista di un equilibrio che rimane in bilico tra il bene e il male, tra il rimorso e il sollievo: non ci sono cali di tensione, anche il booklet è parte del contesto grazie ai disegni da fumetto noir di Francesco Zanotti. Il merito maggiore va alle chitarre di Marco e Michele Diamantini che suonano dure, sanguinano, graffiano e ululano anche nei pezzi più lenti. E se non è la chitarra a far salire il suo richiamo, allora tocca al violino di Alessandra Franceschetti (Behind The Bars, Temptation), o all'armonica dello stesso Marco.
Coming Breakdown ha una veemenza che va oltre il punk, con l'armonica che fa botta e risposta con le chitarre elettriche. Allo stesso modo, la chitarra acustica e la steel creano toni lugubri a Murderer Song. Le strutture dei brani sono sempre ben centrate, anche quando si appoggiano a significative variazioni: basta ascoltare come l'attacco di Reckless si evolve nel riff prima di svilupparsi all'interno della canzone, o come la voce porta sottili cambiamenti alla struggente Tryin' To Lend A Hand, ricamata dai cori e dai tocchi di chitarra.
L'unico "limite" dei Cheap Wine sta nella loro estrema coerenza: come i precedenti, Crime Stories è autoprodotto, indipendente e in vendita a 13 Euro, segno di una totale autonomia e distanza dal mondo discografico. Soprattutto in Italia, un atteggiamento tanto fuori dalle regole, è considerato a dir poco criminoso.
Non a caso, i Cheap Wine proprio su questo hanno saputo costruire la loro identità, ed è una cosa di cui possono andare fieri.
[ MESCALINA - Christian Verzeletti ]

Non lasciatevi ingannare dalla parola autoproduzione. Dietro di essa non si nasconde il solito CDr più o meno ben fatto, ma una scelta di vita (artistica), una filosofia, che però non impedisce di ottenere un prodotto di grande qualità, sia sonoro ma anche d'immagine (con un libretto, a fumetti, davvero ben fatto), e soprattutto "allunga" (paradossalmente?) la vita di un gruppo, oramai arrivato alla quarta prova.
E se un "ragazzino" che non conoscesse questi ragazzi di Pesaro, potrebbe immaginare dal titolo del disco e dai fumetti che siamo di fronte a qualche band crossover o nu-metal, rimarrà con le orecchie un po' stranite nel ricevere sul muso del sano e poderoso r'n'r cantato in inglese, con le radici piantate in una realtà che non si vede in tv, fatta di promesse non mantenute, quotidiana disperazione, con canzoni tutte incentrate "su un viaggio nel mondo del crimine... crimine come trasgressione di una regola precostituita, come mancato rispetto verso se stessi e le proprie aspirazioni...".
E questo quarto disco, a mio modesto parere, è il loro migliore, il più forte, il più intenso, il più sfavillante.
Green on Reed, Long Ryders, Del Fuegos, Dream Syndicate e altre tonnellate di r'n'r fatto di America, speranze infrante, polvere, deserto, autostrade ... (tanto per capirci), sono il sogno musicale ripreso dalle chitarre dei fratelli Diamantini e deportato in Italia con la capacità di non far rimpiangere i modelli citati; certo i trendisti, quelli che ascoltano solo l'ultima novità di moda, trasaliranno nell'ascoltare queste chitarre così "derivate", ma chi ha cuore, polmoni e cervello liberi da queste stronzate non potrà che commuoversi e rimanerne affascinato.
Ballate come Looking For A Crime ( ed il suo assolo finale da brividi), I Like Your Smell (con tanto di armonica toccante), la conclusiva Tryn' To Lend A Hand (conoscete Neil Young???) e Murderer Song (toccante e disperata, "... GIORNO DI SOLE, IO VEDO LA PIOGGIA...") sono un toccasana per l'anima, mentre cavalcate come Reckless, Scatterbrain e Coming Breakdown sanno di Stones, non danno respiro e saturano l'aria di elettricità, Dream Seller diverte e fa ballare con quel suo alternarsi di organo e piano alla E Street Band, Temptation così tribale, scarna e "malvagia", Waiting For A Fight che fa esplodere tutta la sua carica con chitarre elettriche a mille ... e... e.... tutto il resto.
Non ho osato rileggere le mie "vecchie" recensioni dei loro dischi sulla nostra fanza Wolvernight, temevo, e temo, di aver usato non solo i medesimi concetti, ma probabilmente gli stessi aggettivi e le stesse parole.
Poco importa, se così fosse testimonierebbe solo la loro incredibile coerenza e capacità di regalare emozioni e, soprattutto, quella dannata (ridicola?) certezza che il rock'n'roll ancora scuote budella e spirito. Volete scommetterci?
[ WOLVERNIGHT - Alberto Nobili ]

Indipendenti, coraggiosi e persino po' incoscienti, i Cheap Wine cominciano a fare sul serio: "Pictures" e "A Better Place" avevano sparso la voce, "Ruby Shade" era stato un piccola rivelazione, raccogliendo consensi pressocchè unanimi, "Crime Stories" prosegue un'avventura che inizia a reclamare il suo spazio vitale. Assaporandola corposa produzione di Alessandro Castriota si intuisce perchè le majors non riescano più ad accettare un disco rock, così come la cura estrema del booklet (con i simpaticissimi disegni del batterista Francesco Zanotti e l'inclusione di tutti i testi tradotti) è sintomo di un profondo rispetto verso il loro pubblico. Insomma, i Cheap Wine non sono affatto delle comparse e non hanno voglia di passare inosservati. La vera differenza però la fanno sempre le canzoni di Marco Diamantini (questa volta rapite dalle oscure trame del crimine) così come l'energia bruciante che traspare dalle note del nuovo lavoro: "Crime Stories" coglie ancora una volta, forse anche meglio di "Ruby Shade", l'impatto devastante del gruppo, avvicinandosi fedelmente al tiro micidiale dei loro live shows. Musicalmente non si allontana invece dalle certezze del passato, cercando piuttosto di scavare nel loro sound e nelle loro radici, anzichè ampliarle. Esempi di questa ricerca in profondità sono la vibrante apertura di Dream Seller, in cui il piano boogie di Castriota affianca l'arsenale di chitarre di Michele Diamantini, finendo dritto nelle braccia degli amati Green on Red; il violino di Alessandra Franceschetti in Behind The Bars, western ballad di grande fascino; la magnificenza di Looking For a Crime, ballata sognante alla Steve Wynn, che scoppia in un finale visionario. "Crime Stories" apparirà meno sorpredente e spiazzante alle orecchie dei vecchi adepti, occupato semmai a ribadire le coordinate di un rock'n'roll spesso e volentieri imparentato con l'hard-rock più nobile (Coming Breakdown, Reckless), estremamente crudo e psichedelico (le tormentate convulsioni di Temptation ed una Castaway per cui Dan Stuart andrebbe fiero), altre volte rapito da un romanticismo in forma di ballata folk-rock (Murderer Song, Tryin' To Lend a Hand). Come in tutti i migliori dischi di rock'n'roll: ad una dolce carezza segue sempre un duro pugno nello stomaco.
[ ROOTS HIGHWAY - Fabio Cerbone ]

I Cheap Wine ormai sono liberi di fare quello che vogliono , anzi a dire il vero lo sono sempre stati. Unico esempio in Italia di band che segue da sola tutti gli aspetti possibili e immaginabili che stanno dietro alla produzione e alla distribuzione di un disco , in più è conosciutissima all'estero con svariate programmazioni in emittenti radiofoniche, pur non avendo dietro un'etichetta
discografica. Il loro rock'n'roll come al solito in un ottimo inglese stavolta ha la strana forma di un concept album ed è esportabilissimo. Il movimento americano del Paisley Underground e dintorni e anni di esperienza ha dato loro quella forza che è servita a stare in piedi da soli in questo mondo di pescecani musicali e a fare musica che non tramonta mai, avulsa da mode o da scimmottiamenti tipici di altri generi.
"Crime Stories" è un concept album che osserva le varie sfumature del mondo del crimine cosi dannatamente rock'n'roll, ma lo fa con quella visione tipica al panorama fumettistico di genere. Infatti tutto il lavoro grafico della cover e del booklet è opera del batterista che si rivela un grande cartoonist di talento. Ma passiamo alla musica: l'energia impera in tutto l'album dove il pezzo d'apertura Dream Seller fa capire a chi si avvicina per la prima volta di che pasta sono fatti questi pesaresi. Poi si parte con le impennate sonore di Coming Breakdown, agli assoli magistrali di Scatterbrain e l'album decolla alla grande. In questo lavoro trovano spazio anche stupende ballate come la bellissima Murderer Song (che rispecchia molto il lavoro di Dan Stuart dei Green on Red a inizio carriera), Looking for a Crime e la conclusiva struggente Tryin to lend a hand. Consacriamo per l'ennesima volta questa formazione marchigiana nel limbo del rock made in Italy a cinque stelle che può viaggiare tranquillamente a testa alta anche in terre dove il rock è nato. Ascoltare per credere.
[ AKTIVIRUS - Filippo Michelini ]

I Cheap Wine rappresentano un caso davvero a parte nella musica italiana. Cantando rigorosamente in inglese, autoproducendosi, si sono conquistati l'ammirazione di Steve Wynn e apprezzamenti anche in America (intesa non solo come Stati Uniti), rimanendo fedeli ad un rock'n'roll heart che ormai quasi non esiste più, schiacciato tra le sonorità electropop, e le velleità cantautorali che dominano l'odierno panorama italiano.
Dagli esordi acerbi ma interessanti di un disco come "A better place" eccoli adesso al terzo lavoro, "Crime Stories" un album di racconti oscuri, ravvivati dalla luce malata di un rock che attinge a Lou Reed come agli Stones (sentire l'attacco dell'iniziale "Dream Seller" per credere). I Cheap Wine cercano ispirazione nella cronaca nera per raccontare storie di vita quotidiana, ma non scavano nella spazzatura come molti giornalisti di casa nostra. Il loro approccio assomiglia piuttosto a quello di un James Ellroy, in campo letterario, o a quello dei Velvet Underground, primi a cantare l'assunto "c'è del male nella bellezza, c'è della bellezza nel male". I vertici assoluti li toccano nella lenta ed inquietante "Murderer Song" che piacerebbe a Nick Cave o in "Temptation", impreziosita dal violino di Alessandra Franceschetti, ma in generale tutto l'album è una lama affondata al cuore dell'indifferenza.
Certo, non c'è traccia d'Italia nella musica dei CW, che pure provengono tutti da Pesaro. Ma forse è giusto così.
Merita una segnalazione, poichè degno delle migliori produzioni, il booklet interno opera di Francesco "Zano" Zanotti che oltre ad essere il batterista del gruppo, è anche un bravissimo disegnatore.
[ VICEVERSA - Roberto Rizzo ]


I Cheap Wine esordiscono nel 1997 con un mini cd, Pictures, e l'anno successivo pubblicano A Better Place ottenendo grandi consensi dalla critica. Il quartetto di Pesaro si fa conoscere a livello nazionale e internazionale con la loro terza prova discografica, Ruby Shade contenente un brano evocativo come "Angel" scelto da Mtv Usa per la colonna sonora di Undressed Show. Il nuovo Crime Stories è ancora più convincente delle incisioni precedenti. La band è sicuramente maturata ed è
pronta per il salto definitivo nel rock intemazionale. Uno dei punti di forza della band è la chitarra solista di Michele "Roccia" Diamantini, ben coadiuvato dai suoi partner, il chitarrista ritmico Marco Diamantini e la sezione ritmica formata da Alessandro "Fruscio" Grazioli al basso e Francesco "Zano" Zanotti alla batteria. Il sound è decisamente americano. I Cheap Wine sono sicuramente figli minori del movimento Paisley Underground e di gruppi come Dream Syndicate e Green On Red. Un rock decisamente sanguigno: chitarre all'unisono, incisive e potenti. Una band davvero valida, gagliarda e vigorosa.
Voto: 8
Perché: nel panorama italiano sono sicuramente un fiore all'occhiello, qualcosa di cui andare fieri.
[ JAM - Aldo Pedron ]

Incredibile solo a pensarci qualche anno fa, i Cheap Wine tengono fede alla loro "promessa" e pubblicano il terzo disco autoprodotto dopo la prima breve apparizione su Toast records. Difficile da credere, dicevamo, visto e considerato che l'autoproduzione À troppo spesso considerata una necessità piuttosto che una "scelta". I quatto pesaresi, invece, ne hanno fatto (giustamente!) una "conditio sine qua non" per poter continuare a pubblicare le loro opere senza interferenza alcuna in nessuna fase produttiva. Tanto che finora, visto e considerato anche il grado di rischio (decisamente prossimo allo zero) dei discografici italiani, hanno avuto ragione, costruendo così pian piano uno zoccolo duro di fan e appassionati vari che ad ogni uscita tributa un piccolo successo ai marchigiani. Non nasca però l'equivoco da queste affermazioni relative al "self-made" per confondere la musica con tutto ciò che è extra rispetto a questa. Perchè se Marco Diamantini & co. hanno saputo anche gestire gli aspetti "commerciali", in primis hanno sempre dimostrato di essere musicisti ispirati e dotati di talento. Magari si obietterà che il genere in cui credono fermamente - e fortemente! - non sia più abbastanza "cool" da spingervi all'acquisto, ma di fatto le 12 canzoni di Crime Stories servono, se possibile, a ribadire che qui "si fa sul serio".
Si dica innanzitutto della resa sonora dell'album, pregevolissima e internazionale, dove si preferisce una produzione scarna ma efficace, tanto da evidenziare ancora una volta l'incredibile "tiro" che da sempre contraddistingue le prestazioni dei ragazzi, sia che si trovino sopra un palcoscenico o dentro uno studio di registrazione. Poi una scrittura al di sopra della media, al punto che i paragoni con Dream Syndicate e compagnia cominciano a stare stretti (ascoltate la tagliente Temptation e ve ne farete una ragione).
Infine la scelta degli arrangiamenti, arricchiti stavolta non solo dagli hammond del fedelissimo Alessandro Castriota, ma anche dal violino di Alessandra Franceschetti, presa in prestito (momentaneamente?) dai concittadini LineaMaginot. Se tanto non vi basta, si può aggiungere che il quartetto sa ancora regalare good vibrations, forse perchè capace di scrivere canzoni ricche di pathos che, a dispetto di molte altre, non si esauriscono in una stagione ma vivono nel tempo. E non crediamo siano coincidenze, per il semplice fatto che ad ogni puntata i Cheap Wine hanno saputo svelarci un mondo (il loro) all'apparenza sempre - e coerentemente! - uguale, ma che ascolto dopo ascolto si mostra invece incredibilmente ricco di sfaccettature. Ciò, forse perchè abbiamo a che fare con un gruppo vero che, una volta tanto, non bluffa ma preferisce raccontarsi senza troppe remore. Crime Stories, perciò, diventa un (altro, si spera) fondamentale tassello della vostra collezione, a prescindere dagli incondizionati attestati di stima - che triburete automaticamente anche voi attraverso l'acquisto del dischetto.
[ ROCKIT - Fausto Murizzi ]

Crime Stories è il quarto capitolo del percorso artistico dei Cheap Wine. Gli Usa del quartetto di Pesaro sono quelli del rock'n'roll sanguigno ed evocativo, ibridato con la psichedelia meno contorta, in un tripudio di chitarre incisive tanto nell'accarezzare (ad esempio Looking For A Crime, I Like Your Smell, Tryin' To Lend A Hand o la rarefatta e dolente Murderer Song, che non avrebbe sfigurato nel mitico "Medicine Show") quanto nell'imbastire trame inquietanti (Temptation) o nell'assestare salutari ceffoni (Coming Breakdown, Reckless, Waitin' For A Fight o quella Dream Seller che, complici anche le tastiere, sembra rubata a "Gravity Talks"). I Cheap Wine, comunque, sanno ormai andare ben al di là dell'omaggio alle loro pur evidenti influenze, concependo un suono - e soprattutto canzoni, nel senso più nobile del termine - di notevole equilibrio ed impatto, dove la tradizione non è un limite, ma un inesauribile serbatoio di linfa vitale. Chi si trovi in sintonia con tale approccio, attitudinale e stilistico, si accosti pure al cd - a proposito: molto belli i disegni che lo adornano, opera del batterista Francesco Zanotti - con la certezza di non incorrere in delusioni.
[ MUCCHIO SELVAGGIO - Federico Guglielmi ]

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Ruby shade
CD: "Ruby shade" (2000)

"Ruby Shade is a very cool/agressive record. Band sounds rocking".
[ERIC "ROSCOE" AMBEL]

"Ruby Shade sounds great. I notice a little more of a late-70s punk influence (particularly the Buzzcocks) and that's a nice mixture with your older sound. Congratulations".
[STEVE WYNN]

"Ruby Shade is very excellent, as usual. I really like the more uptempo rockin' songs. I think it's a step up from your last one".
[AL PERRY ]

Leave it up to a bunch of hard rockin' cats from none other than Italy to prove that you can still lay into simple, straight ahead rock and roll with nothing but a passion for its energy and spirit. No frills here, just guitars, slightly accented vocals, and some pretty damn good songs. Start with Angel, then the Ian Hunter-esque title tune, and let the rest all slide on down like a cold beer.
[BANG SHEET - Kurt Hernon]

Du rock'n'roll enivrant Peu de groupes europªens ont rªussi õ ªgaler les idoles du Rock'n Roll d'outre-ocªan õ ce point comme les Cheap Wine, une formation de Pesaro, Italie. Leur rªcente publication tient bien plus de promesses que le nom du groupe le laisserait imaginer... En effet "Ruby Shade" est un concentrª de rock pur, õ consommer sans modªration aucune, dªmontrant le grand talent du groupe autour des fréres Diamantini qui se concrªtise autant dans de belles ballades acoustiques que dans des morceaux rock dªchainªs, aux rhythmes captivants. Bien qu'on devine aisªment les rªfªrences musicales du quartett (ne citons que Steve Wynn, Led Zeppelin, les Black Crowes, Lou Reed...) les Cheap Wine se rèvélent capables d'aller bien au-dªlõ d'une simple imitation des lªgendes amªricaines. Les textes, en anglais, avec traduction italienne õ l'intªrieur du booklet, racontent les histoires typiques du rock amªricain des annªes '70, avec le r¹ve de la libertª absolue en premi¿re affiche. Voilõ donc un album d'un groupe ªmergeant õ conseiller absolument aux passionnªs du Rock'n Roll!
[VoXX - Robi Weis].

The best song is Angel, and it starts up an hour's worth of dark-rooted rock/pop that often skirts the waters of Roger Waters and all things rock-funky. The ending Mary swirls and looms up into the darkness for over 10 minutes, making you think you're drowning in another country when there are no tourists around to help you. This 4-strong band is from Italy, and it's amazing how well they'd fit into the USA, given a fifth of a chance. Not to harp on it, but Angel really rocks, and it ain't church music. 'I can fly / I can hover in the sky / Feelin' wild like an eagle dancing high / I can't stop now baby, I don't wanna go back to the ground / I like to be out of my head / I'm crossing the line' but if you only speak Italian, don't worry. Every cd page gives you the English and the Italian both. Makes you feel part of a great import that way, eh? Wild guitar marks the entrance of Devil's On My Side, spruced up with hot drums and bass that actually directs you there. 'I broke away / from that jail last night / I killed the jailer / wiped out the wall and now I feel alright'. Do they mean wiped out or wiped off? You won't much care when the rock takes you. Fun, grave dancing music that isn't afraid to wake the dead drunk. Rock, or the hard stuff. But every once in a while they'll calm a minute, like to give the electrically acoustic Crazy Hurricane a chance to burn itself out. As if sung by a guy in the basement keeping his insane self amused while the storm thrashes outside. 'The sun was fadin' out / the wind was fallin' down / a sudden wave of silence breakin' all the noise around / You sat down for a while / you looked up to the sky / you saw a crazy hurricane comin' up from nothing' and eventually the pent up emotions, guitar and pissed-beat drums dredge up out of the water and try to electrify. Not quite in the direction of Kiss. More like the alley behind the bar, not afraid to go in, just finding more to shout against out here in the thunder and rain.
[MUSIC DISH - Ben Ohmart].

L'inizio è davvero entusiasmante, Angel è una canzone fresca, cantata con leggerezza e suonata con uno svolazzante gioco di chitarre e ritmo. E' il brano che fotografa al meglio le possibilità dei Cheap Wine, una delle più interessanti formazioni di quel rock italiano cantato (ancora) in inglese divenuto una specie di panda in via di estinzione. Avevano debuttato due anni fa con "A Better Place" ma i miglioramenti avvenuti sono evidenti. "Ruby Shade" è un netto balzo in avanti sia dal punto di vista della musica che della produzione. I fratelli Marco (voce e chitarra) e Michele (chitarra solista) Diamantini, più il batterista Francesco Zanotti ed il bassista Alessandro Grazioli sono un quartetto ad alto tenore di rock elettrico, che stilisticamente spazia dai Green on Red ai Dream Syndicate, da Steve Wynn ai Del Fuegos, elargendo un rock urbano con complicità cantautorali dove il suono duro e crudo della band lascia spazio talvolta agli intro della chitarra acustica e agli intermezzi di un'armonica che insieme dettano le coordinate di quella ballata di cui non è difficile rintracciare l'origine nella East-coast americana. Emblematica di quella vocazione "songwriter" è proprio la title track dell'album, Ruby shade una bella ballata che evidenzia la maturità di scrittura di Marco Diamantini e la finezza chitarristica del fratello Michele che in questo brano lascia da parte le sue eccitanti cavalcate con la Gibson, via di mezzo tra rasoiate hard e qualcosa di più sottilmente psichedelico (alla Karl Precoda, per intenderci) e ci infila un arpeggio acustico di vago sapore flamenco che fa presagire più ampi orizzonti musicali. In questo brano, come nell'iniziale Angel, in So Far Away ed in Easy Joe, al quartetto si aggiunge l'hammond di Alessandro Castriota che contribuisce al lirismo dei brani, aggiungendo una certa solennità e offrendo quell'alternativa necessaria per evitare dischi monotematici e vincolati ad un unico standard.
Ciò non toglie che i Cheap Wine siano principalmente una rock'n'roll band che morde e fugge con graffi di sulfureo rock chitarristico, come accade nella rabbiosa Dead City, urlo da un lontano CBGB, come in Bad Guy, bell'esempio di come un mid-tempo pestato duro e cantato volgare può essere più efficace di qualsiasi hard-core punk, come nella granitica Break It Down, ovvero 100% di Green on Red periodo "Here come the snakes" e come in Devil's On My Side, bel racconto noir tra Jim Thompson e Sam Peckimpah con annessa fuga in Messico. Di diversa estrazione sono Crazy Hurricane e soprattutto A Blaze In The Dark, dove un intro armonica/chitarra acustica di sapore springsteeniano si apre in una ballata ariosa, in cui Michele Diamantini dimostra ancora una volta le sue virtù in fatto di chitarre e la sezione ritmica tiene abilmente "sottoesposto" un drive che altrimenti snaturerebbe l'atmosfera byrdsiana e pettyana del brano. Chitarre acustiche ancora in evidenza con Easy Joe, bruciante (e attuale) composizione sulle vittime senza senso e senza nome di una violenza giovanile per noia e per eccesso, mentre Mary è acida e lisergica come il deserto dei Giant Sand e Set Up A Rock'n'Roll Band è l'apertura (o la chiusura) di uno show dei Cheap Wine, ritmo a palla, chitarre killer e voce che vomita l'impossibilità di essere normale. "Me ne sono andato dalla confusione della mia mente, ero nei guai, avevo bisogno di una danza magica, ho preso una chitarra e poi ho fondato una rock'n'roll band": alla faccia di chi vede in Italia solo la "lunapop", i Cheap Wine tengono alta la bandiera del più duro rock di strada. No surrender, folks.
[BUSCADERO - Mauro Zambellini]

"Chitarre assassine e ritmiche travolgenti. Ballate acustiche e viaggi psichedelici. Questi gli eccitanti ingredienti di "Ruby Shade", terza prova discografica dei Cheap Wine, dopo il mini cd "Pictures" (1997) e l'album "A Better Place" che tra il 1998 e il 1999 li ha imposti all'attenzione della stampa e del pubblico non solo in Italia. "Ruby shade" è una sferzata di potentissimo rock'n'roll, trascinato dalla chitarra straordinaria di Michele Diamantini e da una sezione ritmica granitica (Alessandro Grazioli e Francesco Zanotti) che conferisce ad ogni pezzo una incredibile energia. In questo ambito, la voce di Marco Diamantini - aspra e suadente, potente e delicata allo stesso tempo e sempre estremamente espressiva - diventa il veicolo di emozioni forti, non soltanto uditive: bellissimi i testi, riportati con traduzione nel lussuoso booklet del cd. Un suono così in Italia non si era mai ascoltato e i Cheap Wine si dimostrano all'altezza delle migliori rock band americane. L'apertura di Angel è solare, con chitarre aperte e avvolgenti, Bad Guy e Devil's On My Side hanno chitarre polverose e ritmo indiavolato: impossibile restare fermi di fronte a tanto fuoco, il piedino comincia a battere il ritmo per conto suo. Ruby Shade è una splendida, lentissima ballata che ti trasporta nel deserto della Death Valley, con un'armonica onirica un assolo di chitarra acustica da sogno. Dead City è un urlo di rabbia, Crazy Hurricane un vero uragano di energia. A Blaze In The Dark ha il il mood delle più sofferte ballate di Springsteen, Easy Joe e So Far Away incantano con quelle chitarre acustiche intrise di tensione e quella voce così ammaliante. Break It Downè un'esplosione di potenza e furore, con Led Zeppelin e Black Crowes nel sangue. Set Up A Rock'n'Roll Band vi trascinerà in una danza sfrenata, con quell'incedere incalzante e quella sporca cadenza che piace tanto ai Rolling Stones. L'album si chiude con Mary, notturna e desertica, un autentico gioiello incorniciato da un assolo di chitarra strabiliante e assolutamente unico. "Ruby Shade" è un capolavoro e una pietra miliare per il rock italiano che con questo disco per la prima volta si pone all'altezza delle migliori produzioni americane: se avete il rock'n'roll nel cuore non potete fare a meno di "Ruby Shade".
[ONBOARD]
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Dopo il mini cd "Pictures" (1997) e l'album "A Better Place" (1998) eccoci alla terza prova discografica di questa validissima formazione di Pesaro. La band capitanata da Marco Diamantini (chitarra ritmica, armonica e voce) vede il fratello Michele "Roccia" Diamantini alla chitarra solista, slide e cori mentre completano il gruppo la sezione ritmica con Alessandro Grazioli al basso e Francesco Zanotti alla batteria. "Ruby Shade" contiene ben dodici canzoni scritte interamente dalla band e quindi nessuna cover. I Cheap Wine sono una delle realtà di quel rock elettrico che infiamma il nostro Paese, uno di quei gruppi del panorama del rock italiano cantato ancora però in inglese. Pescano la loro versatilità e il gusto per la musica rock americana che ha le sue origini nel Paisley Underground dei Green On Red di Dan Stuart, Del Fuegos e i Dream Syndicate di Steve Wynn. La band in questi ultimi tre anni è sicuramente migliorata ed ora le composizioni e il loro sound si sono rinvigorite e risultano ancora più originali. Splendida l'iniziale Angel con il gioco delle chitarre in evidenza e l'armonica da cantautore. Bad Guy ha il suono duro e crudo della hard rock band ma la giusta musicalità dei gruppi californiani. Curiosa Set Up A Rock'n'Roll Band, elucubrazioni di un giovane che forma un gruppo rock: c'è lui solo, la sua chitarra e i suoi pensieri folli. Break It Down affonda le radici in certo southern-rock ma la via musicale è ancora quella dei Green On Red, dei Dream Syndicate e dei True West.
Voto: 7,5
Perché: è ottimo esempio di rock italiano ma cantato in inglese, sonorità americane, Dream Syndicate e Steve Wynn su tutti. I Cheap Wine però dimostrano una personalità e una preparazione musicale non indifferente.
[JAM - Aldo Pedron]
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Le finestre dei fratelli Diamantini danno sull'America e si affacciano su quelle stesse strade che hanno visto sfrecciare le auto di Lou Reed, Steve Wynn, Chuck Prophet e Jefl Tweedy. Grande come di consueto il gioco delle chitarre: sfavillanti, energiche, superelettriche quando si allungano fendendo l'aria col vigore delle migliori r'n'r bands degli ultimi trent'anni di Storia Americana (Devil's On My Side, il crescendo tellurico di Crazy Hurricane, Break It Down, Set Up A Rock'n'Roll Band) ma capaci anche di piegarsi al morbido, scivoloso giaco di mille slides (So Far Away, distesa su un tappeto di bottlenecks come le migliori ballads dei Green on Red o dei grandi, misconosciuti CafeCino, lo sfibrante, estenuante languore che avvolge i movimenti alla codeina di Mary), con una naturalezza che "A better place" ci aveva già rivelato e che adesso trova compimento pieno e calibrato. Qualcuno tirerà fuori il solito abusato aggettivo: derivativi. Ecco, lasciateli cuocere nel loro brodo e tenetevi stretta quest'America, ancora un po' romantica e viandante, con grandi cose da difendere e moltissime altre da conquistare, con le sue miserie. Altrettanto grandi come le nostre. Il rock sta dove sta il cuore, scrissi una volta. E torno a riscriverlo.
[RUMORE - Franco "Lys" Dimauro]
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Finalmente possiamo andare fieri di avere anche noi la nostra terribile coppia di fratelli del rock'n'roll: è giunto infatti il momento di innalzare le lodi della famiglia Diamantini (Marco e Michele), che in compagnia del basso di Alessandro Grazioli e la batteria di Francesco Zanotti sono l'anima pulsante dei Cheap Wine, una certezza irrinunciabile per il presente del rock italiano e si spera una colonna portante per quello futuro. Se le parole spese vi sembrano esagerate o fin troppo banali e propagandistiche, è forse il caso di mettere in luce tutto il valore di un disco come "Ruby Shade", terza prova del gruppo pesarese, dopo l'interessante esordio di "Pictures" e la splendida conferma con "A better place". Le coordinate sonore dei Cheap Wine non sono cambiate per nulla, ma l'impatto è ancora più convincente: un sound corposo, compatto, che cattura tutta la vigorosa energia della band, dando maggiore forma però alle canzoni, con arrangiamenti e produzione senza sbavature. Quello che colpisce è soprattutto l'elevata qualità dei brani, quasi settanta minuti di artiglieria rock di prima classe, senza cedimenti o indecisioni. Suono unitario certo, ma non monolitico, perchè agli indiscutibili "pruriti" rock'n'roll del gruppo si aggiungono una sensibilità spiccata per ballate dal timbro urbano, arricchite dall'organo di Alessandro Castriota, fornendo quindi una ricetta varia e stimolante. Se l'apertura di Angel fa pensare subito alla migliore tradizione stradaiola americana, qualcosa sospeso a metà fra Springsteen, Mellencamp e il nuovo roots rock provinciale, Bad Guy porta in superficie le radici punk del gruppo, accompagnate però da una sensibilità tale della materia rock, che può solo rimandare alla grande e seminale stagione dei Dream Syndicate. Fuoco e fiamme anche nella tiratissima Devil's On My Side, nell'arcigna Dead City e nella gemella Break It Down, in cui semplicità, aggressività e chiarezza d'intenti fanno muovere a pieni giri il motore dei Cheap Wine. Di ballate quali la stessa title track o So Far Away si sono in qualche modo già anticipati i contenuti: ci sono soprattutto passione ed un grande rispetto verso la classicità del rock, qualità sempre più rara di questi tempi e troppo spesso liquidata con un superficiale giudizio di "derivazione". La voce di Marco Diamantini si inserisce alla perfezione nel muro di chitarre fragorose (tra punk, tirate hard e suggestioni sudiste) del fratello Michele, "ruba" la timbrica e le sfumature a Steve Wynn e tutto il gruppo ripercorre la via aperta dal Paisley Underground nella splendida Crazy Hurricane, o nella tensione latente della slide di A Blaze In The Dark. Set Up A Rock'n'Roll Band sembra scritta apposta per farti venire una voglia matta di maltrattare la tua chitarra (personalmente è quello che ho fatto), Easy Joe viaggia sul border con un forte sapore western tra le righe e Mary dà la buona notte con visioni desertiche e psichedelia, pagando ancora una volta il sentito tributo alla venerata coppia Wynn-Stuart. Una della uscite rock più entusiasmanti dell'anno in corso, e non mi sto riferendo ad una ristretta visione nazionale.
[ROOTS HIGHWAY - Fabio Cerbone]
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Faccio veramente fatica a trovare le parole per recensire il terzo lavoro dei Cheap Wine: non c'è nessun motivo particolare che 'soffoca' la mia scrittura, o forse ce n'è uno che è talmente imponente da bloccare le dita sulla tastiera. "Ruby shade" è così fottutamente rock'n'roll tanto da essere intaccabile, anche solo per decifrare quei pochi passaggi utili per portare a termine una recensione degna di questo nome. Insomma il classico caso in cui sei pienamente cosciente che le parole da usare non potranno mai rendere quelle sensazioni che ti dà il disco - disco che, fra l'altro, cresce alla distanza, cioè più lo macini e più lo gusti, perché le chitarre di Michele scivolano via che è una bellezza, assieme alla voce dell'instancabile Marco e ad una sezione ritmica granitica. Eppure dopo uno splendida seconda prova qual era stata "A Better Place", avrei avuto difficoltà a pensare questi quattro ragazzi così in forma, non perché dubitassi dei loro pregi, bensì perché ritenevo fosse veramente una 'mission impossible' anche solo eguagliare il capolavoro che ha preceduto il nuovo genito. E invece "Ruby Shade" è un capolavoro, suona (come previsto) ancora fottutamente Cheap Wine (anche nei testi!) e non stanca mai, al punto da pensare che le melodie contenute in esso siano perfettamente bilanciate tra ballate e pezzi rock, sfuriate elettriche e chitarre acustiche. Adesso non vi aspetterete mica che cominci ad elencarvi le canzoni migliori? Come avete intuito è questa la 'missione impossibile', individuare cioè delle tracce 'chiave' in un disco tanto perfetto dal punto di vista formale quanto bello da godere ovunque voi siate - con il consiglio, però, di portarvelo spesso in macchina. Per il resto, sì... "it's only rock'n'roll", ma robe del genere accadono solo in rarissime occasioni: una di queste è quando esce un disco dei Cheap Wine!
[ROCKIT - Fausto Murizzi]
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I Cheap Wine continuano ad intessere melodie prese lontano dalle nostre lande. Dopo un mini e un cd autoprodotto. "Ruby Shade" fotografa l'orgoglio elettrico di una band che non rinuncia a cantare in inglese, a proporre lunghe ballate sull'asse Green On Red-Dream Syndicate-Neil Young, senza attardarsi in ossequi inutili, ma puntando di più ad un vigore espressivo e compositivo totalmente personale. La penna di Marco Diamantini scintilla e firma alcuni dei più bei pezzi del repertorio: l'apertura solare e lirica di Angel, le asprezze impolverate di Bad Guy e Dead City, il mood chiaroscurale di So Far Away, le tinte struggenti della title-track, lo sviluppo avvolgente di Crazy Hurricane, le visioni di Easy Joe e così via. Suoni di una frontiera universale, dove la voce di Marco e la chitarra del fratello Michele si librano senza troppe preoccupazioni, lasciando ad altri infelici gli obblighi di stabilire originalità e riferimenti, magari di criticare la scelta della lingua (ogni pezzo è comunque tradotto). Noi preferiamo elogiare uno degli album più viscerali ed intensi usciti quest'anno, sorretto da un buon songwriting e dalla consapevolezza di stare facendo la musica "giusta", almeno per quella che è la sensibilità artistica del gruppo pesarese. Maggiormente incline, rispetto al passato, a suggestioni southern ed a toni ruvidi, "Ruby Shade" fotografa una maturità artistica che dovrebbe essere assolutamente premiata da un pubblico più vasto dei soliti tre/quattro lettori di rubriche specializzate. Non mancate il contatto.
[IL MUCCHIO SELVAGGIO - John Vignola]

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A better place
CD: "A better place" (1998)

It sounds great, you should be proud of this album. You wear your influences proudly and still show so much of your own personality. Well done...
[STEVE WYNN]

Your record is great. I love all that sorta stuff. You guys have got it!
[AL PERRY]

You guys are really rockin' on this one. I like that song "Broken dream"
[ERIC "ROSCOE" AMBEL]

I don't speak Italian, and I can't read Italian, so whatever was in the press kit that I received from Cheap Wine is a mystery to me. What's crystal clear, however, is that rock and roll knows no geographic boundaries. How a band from Italy comes out sounding like The Sidewinders and Green On Red crossed with classic-era Stones isn't important, the fact that they do is what matters. The GOR references are everywhere - the band's name comes from a Dan Stuart song (covered on their CD "A Better Place") and both guitar players have obviously listened to a lot of lyrical players like Chuck Prophet. Walkin' Away, available on MP3, finds the quartet sailing out of the gate with a drum-propelled rocker that features harmonic guitar lines from Marco and Michele Diamantini; Rich Hopkins fans will do double-takes. A Better Place and Dark Angels explore the acoustically darker, Cowboy Junkies play "Sweet Jane" area of the aural soundscape. The vocals are sung in English and Marco does not have a strong or classic voice, but he conveys emotion that matches well with the material. As a testament to good taste, they list their favorite bands on the "thank you" page of the CD booklet, and if your record collection were limited to those artists, you'd be in good hands. Repeated plays only endear me further.
[BILL HOLMES]

Cheap Wine expertly combines Lou Reed, Replacements-style guitar rock rock, along with an inclination for letting the songs move and feeling the groove as it intensifies. Wow! Brothers Marco Diamantini (vocals, guitar) and Michele Diamantini (guitars), with Francesco Zanotti (drums), Alessandro Grazioli (bass) are the kind of band you want to surround yourself in. Even the lazy, wandering drawls that Marco breathes into the mic are loaded with frenetic forethought as Michelle's guitar weaves beautifully seductive only to blister and flare. Man, this where you'll find it if you think you lost it; and where you'll get it if you haven't got it.
[GAJOOB - Bryan Baker]


Un disco di rock'n'roll sanguigno, energico, chitarristico e che non lascia dubbi sulla qualità della band: in "A Better Place" è condensato il suono nato da una lista di nomi (riportata nell'elegante booklet) che comincia con la A di Ac/Dc e finisce con la Z del mai dimenticato e grandissimo Warren Zevon. l fratelli Marco e Michele Diamantini (alle chitarre), Francesco Zanotti (batteria) e Alessandro Grazioli (basso) hanno le idee chiare e un bel sessanta per cento di "A Better Place" è artiglieria rock'n'roll di primissimo ordine. Walkin' Away, Dangerous Game, The Waster, Strange Girl (che ricorda un po' i Georgia Satellites) e infine Broken Dream e I Am Everything You Are che sono le migliori del lotto, sono il sound dei Cheap Wine, con le chitarre elettriche in evidenza, una sezione ritmica sufficientemente compatta e un cantato disperato, ma non privo di fascino. Nel resto di "A Better Place", i Cheap Wine mostrano invece un talento per le canzoni con un senso proprio e il gusto per sperimentare nuovi orizzonti. Nella prima fase, ci va Dark Angels, uno dei pezzi migliori di "A Better Place", che è una sorta di Lou Reed song con una slide che si sposta in territori più rootsy. Sua diretta parente è "A better place" che ha un organo che ricorda la prima E Street e un suono che arriva da New York. Più eclettiche Among The Stones (ricorda un po' "Sister Morphine" in versione spaghetti western), la vagamente psichedelica Playing With A Butterfly: territori tutti da esplorare. Un discorso a parte merita Cheap Wine che rimanda agli albori dei Green On Red: gran bella versione, con tanto di break psichedelico (ancora un'armonica morriconiana) e finale pirotecnico a 200 all'ora. Per concludere il cosiddetto "rock italiano" non lo so (e non mi interessa), ma il rock'n'roll in Italia è vivo e vegeto, anche grazie ai Cheap Wine, e se proprio avete bisogno di un "better place" per sognare, scegliete il loro.
[BUSCADERO - Marco Denti]


A volte bisogna ricominciare, riprendere la strada e raccogliere gli strumenti, per cercare di raggiungere "un posto migliore". E' proprio quello che ha fatto Marco Diamantini dopo un bel mini-cd, "Pictures", che disegnava arabeschi elettrici infettati dal fascino della frontiera americana, memoria fortissima del movimento Paisley di oltre un decennio fa. Un piccolo gioiello che per ora è rimasto nascosto nelle pieghe delle produzioni amatoriali, nonostante il forte apprezzamento, nostro e di altri. Allora, con una scelta senza mezzi termini, "A Better Place" esce totalmente autogestito dal Nostro, con il nastro d'asfalto che occhieggia in copertina ed un titolo altrettanto eloquente. Anche la musica (ri)vive di una maggiore ruvidità, le chitarre appaiono più spiegate e liriche, la voce si accosta maggiormente alla nasale eloquenza di Dan Stuart e, soprattutto, alcune delle linee melodiche intessute sono memorabili. Ci riferiamo a canzoni come la velvettiana Dark Angels, alle vie struggenti di Playing With A Butterfly, all'energica Dangerous Game, ai vortici dell'apertura di Walkin' Away. E' un pezzo del nostro passato recente che viene rivisitato a dovere, senza la minima dose di pedissequo autocompiacimento, ma con una capacità reinventiva d'eccezione. E' come se Marco si fosse incarnato nello spirito di un songwriter girovago statunitense, in un viaggio che trova il suo caposaldo nel lavoro sulle elettriche, qualcosa che non ascoltavamo da tempo (bravissimo il pard e fratello Michele), ma che vive anche della precisione della macchina ritmica (Francesco Zanotti e Alessandro Grazioli) e di una cura particolare per la timbrica dei suoni. Fino ad arrivare, tra alcune reminiscenze di Dream Syndicate e affini, alla cover del brano che ha battezzato il gruppo, una Cheap Wine (Green on Red), lo giuriamo, da lacrime. Non ci resta che augurare il meglio al nuovo percorso dei Cheap Wine, un disco pulsante e pieno di emozioni, una porta spalancata Oltreoceano, costruita con un'adesione talmente intensa da risultare bellissima e sincera.
[ROCKERILLA - John Vignola]


Dopo l'esordio ufficiale avvenuto con l'Ep "Pictures" (Toast), la band marchigiana torna in pista con un album di undici pezzi che per il sottoscritto, evitando inutili perifrasi, è il migliore dell'anno appena concluso nell'ambito del rock nazionale. Marco Diamantini e compagni dimostrano una notevole maturità, oltre che una encomiabile coerenza nel seguire la strada loro suggerita dalla passione: suonano infatti "solo" rock'n'roll, e con i tempi che corrono  più facile trovare gente che li snobba piuttosto che persone che li apprezzino. L'ascolto di un pezzo come Walkin' Away basta comunque a fugare ogni dubbio sull'opportunità di dedicare alla band una certa attenzione: adrenalina e chitarre a braccetto per un'apertura da brivido. Si potrebbe finirla qui e lasciare il gusto della sorpresa a quanti raccoglieranno l'invito a procurarsi il cd, ma affermare che Playing With A Butterfly e Among The Stones sono una spanna sopra alle canzoni di tanti nuovi autori americani o che "Broken dream" è uno dei brani più carichi di emozioni che mi sia capitato di sentire, potrà magari servire a stuzzicare ulteriormente. Alcuni magari considereranno un peccato il fatto che il gruppo preferisca il canto in inglese, ma lavori di tale caratura prescindono dalla lingua scelta come (eventuale) indicatore di accessibilità.
[MUCCHIO SELVAGGIO - Fausto Murizzi]

E' già fuori da qualche mese, questa seconda prova dei pesaresi Cheap Wine, ma vale davvero la pena tornarci su perché si tratta di uno del rarissimi casi di autoproduzione intelligente, matura e professionale incontrati in ltalia, e non solo in tempi recenti. Dopo il mini-cd d'esordio uscito su Toast, Marco Diamantini e compagni hanno così deciso di fare da soli, in piena autonomia operativa e ispirativa. Del resto, si sa, chi investirebbe oggi due lire su una band di provincia che fa rock psichedelico di stampo americano, per di più in inglese? Ma se avete un cuore per saltare oltre la siepe obbligatoria del mercato, se avete un cuore che batte di passione vera, che sappia distinguere tra verità e menzogna, se siete guidati da un profondo senso della giustizia, allora non dovrete, proprio no, far finta che questo disco non esista. Cheap Wine era (è, per fortuna) una canzone dei Green On Red e questo potrebbe essere già tutto. Se avete trent'anni e siete cresciuti col Paisley Underground, non avrete bisogno di altri incentivi per spendere 22 mila lire e portarvi a casa un'altra parte di quel sogno. Se non avete mai digerito le ambientazioni di frontiera, storie difficili di personaggi marginali e chitarre liriche stese come panni al sole, non abbiate ugualmente timore ad accostarvi a "A Better Place". Perché un disco così ben scritto, cantato, suonato e prodotto non meriterebbe di piacere solo agli appassionati del genere, e perché se quel fuoco non è "sacro" a tutti è pur sempre un "fuoco". Un piccolo gioiello, compresa la "necessaria" cover di Cheap Wine.
[FARE MUSICA - Gianluca Testani]

E' stata dura recensire "A Better Place", seconda prova discografica dei pesaresi Cheap Wine, perché il disco e' davvero una spanna superiore alla migliore produzione italiana e questo, in un certo senso, lascia attoniti. Senza mezzi possenti, e con pochi soldi, il lavoro ottenuto, sia sotto il profilo grafico che quello musicale, è uguale a quello di un disco di categoria superiore, dove per categoria superiore intendo un disco con un budget da major. Inoltre, e lo dico senza peli sulla lingua, e' triste pensare che un siffatto prodotto provenga da una band che non ha uno straccio di contratto discografico, nemmeno con una piccola casa indipendente. Dopo questa digressione, però, penso sia giusto che passi a parlare della band in maniera piu' analitica così da poter gettare le fondamenta di queste mie affermazioni. Marco Diamantini, leader per vocazione e non per forza, riesce davvero a dare fondo a tutte le sue emozioni e a sintetizzare decine di anni passati ad ascoltare musica Rock in ogni dove, non ultima in una macchina che, come quella del sottoscritto, ha l'impianto a gas quasi come a suggellare il Blues. "A Better Place", come tutti i grandi dischi, cresce con l'aumentare degli ascolti. Non e' la prima impressione a contare in questo mio giudizio, anzi, il disco ha goduto di un ascolto approfondito e riflettuto di tutte le sfaccetttaure del CD. Le prime impressioni giocano brutti scherzi a volte mentre l'approfondimento sistematico delle tematiche e delle musiche porta a rivelare la valenza che, inconsciamente o meno poco importa, questo disco ha, deve avere, per l'ascoltatore italiano di musica Rock. Si badi bene che quanto appena affermato deve essere inteso non solo nel panorama asfittico della scena musicale contemporanea italiana ma e' un giudizio di merito da inquadrare nel piu' vasto panorama del Rock italiano di sempre. E' innegabile che "A Better Place" sia una crescita non indifferente nei confronti di "Pictures" e tenendo presente che le possibilta' per crescere, che in un mondo perfetto sono offerte dall'attivita' concertistica, sono state nulle o quasi, la visione artistica di Marco Diamantini e' da considerarsi lucida, forse visionaria, soprattutto stupefacente. Con esperienza prossima allo zero nel campo della produzione e dell'approccio alla registrazione in studio, Marco ha dimostrato di sapere arrangiare e dirigere la band verso approdi di indubbio valore, anche paragonati a quelli raggiunti in campo anglosassone. Il disco si apre sulle note di Walkin' Away, un up-tempo che sta a "A Better Place" almeno quanto Pictures stava all'omonimo mini-Cd. La tematica pur non essendo identica è presentata, o per meglio dire narrata, nello stesso stile. Un piccolo racconto minimalista, un po' carveriano se vogliamo, che si sviluppa su un riff subdolo suonato dalla chitarra di Michele Diamantini. L'insoddisfazione, la voglia di fuggire, la stanca monotonia di provincia, che e' poi la stessa monotonia della grande citta' su frequenze differenti, la fanno da padrone nelle tematiche dei Cheap Wine. Nella migliore tradizione Rock dove a ogni uptempo segue una ballad, o comunque un brano i cui beats per minuto sono almeno dimezzati, Marco fa seguire Dark Angels, un racconto Noir che potrebbe essere ambientato, per usare un'espressione gucciniana, "tra la Via Emilia e il West". L'intro, che da molte persone viene paragonato a quello di "Sweet Jane" di Reediana memoria, non ha in realta' nulla a che vedere con il menestrello newyorkese. Laddove "Sweet Jane" comunicava un'urgenza ben precisa, metropolitana, con piglio determinato, Dark Angels rappresenta l'indolenza sfacciata, svogliata, e forse senza senso, causata dalla noia della provincia. Se proprio un punto di riferimento c'e', anche nella tematica, e' sicuramente da andare a cercare in "Some Kinda Itch", brano dei Dream Syndicate presente sul loro primo e indimenticabile EP. Dangerous Game riporta l'album in zona "chitarre selvagge" e con i dialoghi, tipici della scrittura di Marco Diamantini, siamo sempre sul terreno minato della provincia. Io stesso, provenendo dalla provincia, non stento a raccogliere continui rimandi a cio' che e' la mia esperienza personale. L'omonima "A Better Place", ben sorretta da un Hammond e dalla solita chitarra di Michele Diamantini porta Marco ad osare nei confronti della sua voce e risulta essere un episodio molto ben costruito, tra i migliori momenti del disco. Come da piu' parti constatato da scrittori piu' anziani e piu' esperti di me, la musica permette una sorta di autoterapia che porta a scrivere di argomenti che si conosce e che, in una maniera o in un'altra, hanno colpito la propria persona. Proprio per questo la tematica resta sempre in ambito di fuga, sia figurativa che materiale. The Waster, mid-tempo concernente la "formula" dell'esistenza felice e l'ironia di una societa' che tutto sommato sembra funzionare al contrario di come dovrebbe, prepara la strada per Playing With A Butterfly che, verosimilmente, racconta l'eccidio, o se volete genocidio, degli indiani d'America da parte dei pellegrini inglesi che col tempo si sono appropriati del titolo di Americani. La canzone risulta essere ancora piu' riuscita se si tiene presente che Marco gioca brillantemente con la figura del bambino, simbolo dell'innocenza, intento a rincorrere farfalle che, immagine nell'immagine, in quanto sinonimo di liberta' non verra' mai catturata. Broken Dream, che non so quanto sia autobiografica, e' un brano dall'intro e dall'assolo di armonica sfacciatamente springsteeniano, e lo dico nella migliore accezione possibile, che affronta il tema dell'amara presa di coscienza di un amore particolare, anomalo, e forse proprio per questo piu' profondo, vissuto come una comunione di anime e menti. Strange Girl e' una sorta di riconoscimento nei confronti della propria musa, o muse, mentre Among The Stones è una ballata desertica, allucinata, dalle componenti metaforiche molto forti che potrebbe essere uscita direttamente dalla penna del Dan Stuart piu' imbottito di Mescalina (in realta' e' pero' frutto dello stato di grazia di Marco in veste di compositore). Un bell'arrangiamento dei cori dà a questa canzone una marcia in piu' ma purtroppo i credits di questa canzone non riportano la corista che a me piace immaginare una bella donna, molto a la Dale Krantz-Rossington. Cheap Wine, canzone dalla quale Marco ha tratto il nome per la band, e' una meravigliosa composizione di Dan Stuart che proprio grazie alla naturalezza e all'agio con i quali si amalgama al resto del disco implica la validita' e la maturita', o per meglio dire offre la prova provata, della scrittura e dei suoni dei Cheap Wine. A chiudere il disco, secondo me il capolavoro dell'album, è I Am Everything You Are, una meravigliosa miscela di "I'll Be Your Mirror" e "Freebird" per il secondo millennio. Parte in sordina ma si sviluppa grazie ad un chorus arioso ed altamente melodico che dopo la seconda volta si trasforma in un trampolino di lancio per la chitarra di Michele Diamantini e che racchiude l'essenza di cio' che i Cheap Wine hanno fatto sinora e i germi di quello di cui saranno capaci.
[Francesco Calazzo]


Lontano dalle metropoli italiane, dai loro ritmi e dai loro trend, nel selvaggio east italiano lungo la costa adriatica, ci sono individui per cui la parola rock and roll non è nè un arnese obsoleto nè, dall'altro lato, un puro oggetto di revival. Semplicemente, la realtà quotidiana. Guidati dal Todd Snider-lookalike Marco Diamantini, i Cheap Wine si ispirano chiaramente al gruppo autore dello storico brano omonimo - per chi segue gli Air e Kruder a Dorfmeister: i Green On Red - proponendoci nel loro primo cd un crudo guitar-sound tra punk e radici, forse a tratti un po' troppo autoindulgente, ma, si sa, è questo il rischio che corre chi suona questo appassionato tipo di rock and roll. Forse hanno sbagliato decade o forse no, di sicuro c'è un'immensa passione in quello che fanno. Di quanta gente si può dire la stessa cosa, oggi?
[RUMORE - Claudio Sorge]


"A Better Place" segna inequivocabilmente l'inizio di una nuova fase artistica. E a ben vedere, non poteva essere diversamente. I consensi unanimi ottenuti in sede di recensione da "Pictures", le notevoli attestazioni di stima da parte di personaggi del calibro di Steve Wynn e Dan Stuart e il calore e l'entusiasmo che hanno sempre accompagnato le esibizioni live della band, hanno fatto sì che l'ensemble adriatico si ripresentasse in studio di registrazione forte di una diversa consapevolezza nei propri mezzi. Tant'è che il risultato finale va ben oltre l'obiettivo "minimo" dichiarato alla vigilia dai Cheap Wine, ossia quello di riuscire a racchiudere nelle undici nuove tracce tutta la carica vitale e il pathos delle loro infuocate esibizioni live. Unendo la vena melodica del rock all'energia del punk, "A Better Place" si rivela sin da subito un ottimo disco di rock'n'roll, assolutamente unico nel suo genere in Italia. Per trovare qualcosa di concettualmente simile a quanto proposto dalla band pesarese, dobbiamo infatti tornare indietro di 10 anni, ai primi dischi dei Rocking Chairs. Ma mentre la formazione di Graziano Romani e Mel Previte era indissolubilmente lagata agli stilemi springsteeniani, tanto da apparire un po' troppo derivativa, i Cheap Wine al contrario dimostrano una notevole personalità e una buona dose di originalità nel confrontarsi con il "rock delle radici". L'amore autentico per la psichedelia degli anni '80 di Dream Syndicate e Green on Red, la passione viscerale per "mostri sacri" come Bob Dylan, Neil Young, Tom Petty e Velvet Underground finisce infatti per costituire solo l'imprescindibile punto di partenza di un personalissimo viaggio musicale dove qualità del song-writing, bontà delle intuizioni melodiche e perizia tecnica fanno piazza pulita di ogni clich. Alternando infuocati rock'n'roll (Walkin' Away, Dangerous Game, The Waster), suadenti ballate dai delicati aromi psichedelici ("A better place"), brani acustici dall'atmosfera "western" (Among The Stones) e canzoni dalla scrittura complessa e raffinata, vicine al metodo narrativo di Bob Dylan (Dark Angels, Playing With A Butterfly), i Cheap Wine hanno vinto una difficile sfida, quella di dar voce a quei sogni di rock'n'roll che coltivano ormai da anni nella sonnolenta provincia pesarese.
[MUSIC CLUB - Max Di Pasquale]


Secondo album per questa band marchigiana che dichiara apertamente le sue influenze nel libretto interno del cd (dagli Ac/Dc a Warren Zevon ci sono praticamente tutti quelli che potete immoginare), ma ancora meglio lo fa il suono di questo album, veramente ben suonato, un poderoso rock a stelle e strisce, figlio soprattutto di alcuni movimenti che hanno caratterizzato gli anni ottanta, tipo il Paisley Underground . Non a caso i quattro pesaresi hanno scelto il titolo di una canzone dei Green On Red di Dan Stuart per il nome del gruppo, riproposta anche all'interno di questo album. Fughiamo subito però ogni dubbio, "A Better Place" pur non suonando originale ha delle bellissime canzoni proposte con piglio personale, risultando fresco ed accattivante sin dalle prime note della poderosa Walkin' Away. Brani dall'andamento veloce si fondono con splendide ballate seducenti come la title track o Playing With A Butterfly in un'alternanza dl suoni degne del migliore Springsteen. Paragone ingombrante ma che calza alla perfezione per farvi capire verso quale tipo di rock i Cheap Wine si orientano per presentarsi al pubblico. Quindi la tradizione dei grandi spazi delle freeway sulle quali correre lasciandosi cullare dai suoni e dalle storie raccontate in questo album. Un bel disco, tutto qui.
[Eliseno Sposato - Radio Libera Bisignano]

Chitarre, chitarre selvagge, robuste, rock grintoso e granitico venato di blues con tanto di armonica sono gli ingredienti di questo "A Better Place" inciso in maniera magistrale e con un suono pulitissimo, e che consacrera' definitivamente i Cheap Wine dei fratelli Diamantini. Una band adattissima a suonare in fumosi locali del Texas dove scorrono fiumi di bourbon, prontaÔ ad infiammare un palcoscenico a suon di Walkin' Away. Tutti i pezzi sono dei gioiellini come appunto la corale Walkin' Away, Strange Girl un rock'n'roll con una chitarra nervosa suonata splendidamente da Marco e Michele Diamantini che rieccheggia i Big Star di Alex Chilton. Potenziale singolo. Ma non solo rock'n'roll; la lunghissima Playing With A Butterfly è una ballata sottolineata dalla voce più matura ed ottima di Marco Diamantini, con voci di angeli da contorno, e i duelli fra chitarre acustiche ed elettriche; l'armonica verso la fine delizia e da' ancora piu' spessore intenso ad una canzone commovente fin dall'inizio. Cheap Wine e la cover dei Green on Red da cui la band marchigiana ha preso il nome, un pezzo bellissimo che non toglie nulla al fascino originale, un omaggio pieno di valore; quando i discepoli si fondono con i maestri. Azzeccatissima e' poi la title-track "A better place", dove ogni singolo strumento ha un ruolo importante, compreso un organo Hammond, ottimo comprimario per una song da ascoltare di notte in un prato sotto le stelle, sognando un posto migliore dove proporre questa ottima musica, con la luna sorniona che osserva il nostro sogno volare via... Il blues-rock acido di "The waster" ha poi una resa sonora pressoche' perfetta e offre un groove stupendo. Il pezzo mancante che poteva fare di "Talk is cheap" di Keith Richards un grande disco. I Cheap Wine sono veramente tutto ciò che sono. Ed anche di più.
[VINILE - Lino Terlati]


A Walkin' Away è affidato il compito di aprire il nuovo CD dei Cheap Wine, che segue il già promettente - e coinvolgente - esordio avvenuto con il mini-CD "Pictures" (Toast). Un attacco fulminante, quindi, un brano come un'esplosiva corsa in apnea, trascinante, chitarre come serpenti, ritmica quadrata, canto enfatico: spossante e bellissimo. "A Better Place" si sviluppa tra anthem grintosi e splendide ballate che si alternano, praticamente, senza soluzione di continuità. Ottimo chitarrista Marco Diamantini - ed altrettanto puntuali Michele Diamantini (chitarra), Francesco Zanotti (batteria) ed Alessandro Garzioli (basso) - si concede anche autoindulgenti sfoggi di tecnica, complice il resto della band che affianca e supporta il leader con sfacciata agilità. Questa eccellente autoproduzione - eccellente anche in termini di qualità di resa audio - ci consegna un album estaticamente votato al rock chitarristico americano più evocativo, benché ben saldamente ancorato alle proprie radici. In questo caso è impossibile non richiamare la scrittura dei Green On Red o di un Lou Reed più intimista - magari anche via Cowboys Junkies - per rendere parzialmente le atmosfere che affollano il CD. Non si pensi, comunque, ad un lavoro semplicemente derivativo, ma piuttosto ad un compendio di intuizioni, talentuosi spunti compositivi e perfette interpretazioni che potrebbero scatenare le reazioni invidiose di molti contemporanei songwriter americani.
[Sergio Porracchia]

Band "ruspante" che si affida a quel rock potente e corrosivo che negli anni '80 si amava etichettare come Paisley Underground (i Dream Syndicate su tutti), questi ragazzi ci sanno fare... "A Better Place" trova la sua chiave di lettura (o meglio, di ascolto) non nella ostentazione di un rock "fuorilegge", da cantina e magari old fashioned, quanto proprio nella dilatazione "sonica" di questi concetti. Ogni brano supera i cinque, sei minuti grazie a vibranti chitarre impostate sul concetto di jam dai sapori psichedelici. Il risultato dunque è una dichiarazione di amore per il rock'n'roll, ma con la consapevolezza di aver qualcosa di proprio da dirci sopra e la certezza che le regole sono fatte solo per essere frantumate... C'è passione e serietà di intenti, cose che mancano a molti loro colleghi compatrioti.
[JAM - Paolo Vites]


I Cheap Wine potrebbero essere una delle migliori sorprese di questo inizio d'anno. La band dei fratelli Diamantini arriva alla seconda prova dopo il primo mini cd che ne rivelava le doti già non indifferenti. Ma è con questo nuovissimo cd che la band compie il salto di qualità decisivo. Suono rock di chiara derivazione americana, privo di fronzoli inutili, secco e diretto come una bomba. Si diceva di un album rock ed in effetti tutto il disco sprizza energia vitale che riesce ad entusiasmare l'ascoltatore. Vi sono rimandi a quel "Paisley underground" che tanto successo ebbe nei primi anni ottanta grazie a gruppi come i Green on Red o i Dream Syndicate, non trascurando la grande lezione data da gruppi stellari come i Lynyrd Skynyrd o la Allman Brothers Band, o da personaggi di indiscussa caratura come Neil Young. Ma l'aver citato questa sfilza di nomi non sminuisce la bravura dei Cheap Wine, anzi, ne denota la cultura musicale che poi traspare chiaramente dal sound che si respira tra i solchi dell'album. Tutti i pezzi del cd sono stati scritti da Marco Diamantini, ad eccezione di Cheap Wine che è un pezzo di Dan Stuart. Inutile citare un pezzo piuttosto che un altro, tutto il disco gode di una compattezza che rende pieno merito ai ragazzi, offrendo canzoni piuttosto lunghe che si lasciano ascoltare con interesse. Un ottimo lavoro.
[L'ISOLA - Marcello Matranga]

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Pictures
CD: "Pictures" (1997)

"Great, exciting stuff and it sounds like many of the favourite records in my collection..."
[STEVE WYNN]

"...Una bella scoperta: anche da noi c'è chi fa del rock, senza pensare a copiare a destra e a manca. Cuore e chitarra..."
[BUSCADERO - Paolo Carù]

"L'iniziale curiosità verso qualcosa che si dichiarava apertamente legato all'epopea Paisley è stata progressivamente sostituita dalla sorpresa nell'ascoltare suoni così cesellati e maturi. "Pictures" è una brillante prova di rock elettrico..."
[ROCKERILLA - Johm Vignola]

"...cari Cheap Wine, potete annoverarmi tra i fans della vostra band. Se foste negli Usa e aveste T-Bone Burnett come produttore, potreste sperare di fare concorrenza alla freschezza di "One headlight" di Jackob Dylan..."
[Blue Bottazzi]

"...chitarre che si rincorrono tra memorie di "feedback" alla Neil Young ("Rock this town") e memorie di una stagione psichedelica ("Oh no!" soprattutto)..."
[JAM - Paolo Vites]

"...i Cheap Wine hanno scritto e suonato cinque splendide canzoni, con il cuore: accomodatevi"
[WOLVERNIGHT - Alberto Nobili]

"...con i Cheap Wine - "figli" di Lou Reed, Neil Young, Green on Red e Dream Syndicate - il rock torna sulla strada maestra. Le loro canzoni hanno il sapore delle polverose strade d'America e la carica vitale e dirompente del migliore rock'n'roll..."
[MUSIC CLUB - Max Di Pasquale]

"... un suono maturo, ricco, che coinvolge fin dai primi ascolti: 5 episodi costruitiÔ sulle chitarre, a volte spruzzi di armonica e molta grinta... se sul loro cd ci fosse stato l'adesivo con un nome altisonante come produttore, il business non sarebbe rimasto sordo..."
[VINILE]


"...i brani si susseguono tutti nervosamente, scaricando nei nostri corpi dosi di adrenalina allo stato puro. Le chitarre sono lo strumento dominante: taglienti, possenti e corali, a volte un'armonica delinea intricati gorgoglii di estasi..."
[Snort]

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